Volume 17 - 3 Settembre 2018

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Democrazia e dialogicità per il benessere mentale di comunità. Una proposta di integrazione tra approcci complementari

Autori

"La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d'essere, perché fa diventare razionale l'irrazionale. Quando qualcuno è folle ed entra in un manicomio, smette di essere folle per trasformarsi in malato. Diventa razionale in quanto malato. Il problema è come sciogliere questo nodo, superare la follia istituzionale e riconoscere la follia là dove essa ha origine, come dire, nella vita".
Franco Basaglia, da Che cos'è la Psichiatria, 1967


"I principi guida per governare il tumulto, dunque, devono essere ricercati in una dimensione irriducibile all’economia, prendendo le mosse dal sistema complessivo, fondato sul riconoscimento primario contenuto nell’articolo 1 della Carta dei diritti: -La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata".
Stefano Rodotà, da Vivere la Democrazia, 2018


Riassunto

In questo articolo gli autori vogliono evidenziare la intrinseca relazione tra i concetti di democrazia (nella sua accezione culturale, valoriale e pratica) e di salute mentale, nonché la loro relazione con i concetti di dignità, diritti, partecipazione, felicità.

Gli autori, inoltre, presentano una proposta di integrazione tra quattro approcci terapeutici complementari tra loro nei princìpi cui si ispirano, e nei quali i valori su citati trovano una efficace declinazione.

Tale proposta, nella attuale fase storica di crisi dei Servizi, sembra la più utile a rilanciare i valori innovativi portati avanti con determinazione da Basaglia, e rappresentare un modo concreto di dare risposte ai bisogni di cura e di benessere dei cittadini.


Summary

In this article the authors want to highlight the intrinsic relationship between the concepts of democracy (in its cultural, value and practical aspects) and mental health, and their relationship with the concepts of dignity, rights, participation, happiness.

The authors also present a proposal for integration between four therapeutic approaches that are complementary to each other in the principles they are inspired by, and in which the above values find an effective declination.

This proposal, in the current historical phase of the Services crisis, seems to be the most useful to revive the innovative values brought forward with determination by Basaglia, and to represent a practical way of responding to the needs of care and well-being of citizens.


Introduzione

Democrazia e Salute Mentale sono due beni pregressi e indivisibili. Ci si accorge della loro importanza quando ne siamo privati, quando si perdono o sono a rischio.

Con il concetto di democrazia intendiamo una modalità di attuare i processi decisionali fondata sulla condivisione del potere, l’esercizio dei diritti, la giustizia sociale e le sue regole, la libertà di espressione e di comunicazione, la partecipazione, il conflitto finalizzato a trovare soluzioni, la condivisione delle decisioni sulla comunità di vita, la pratica del confronto con l’altro.

In particolare vogliamo sottolineare quest’ultimo concetto, in quanto si fonda su un principio basilare che è la capacità di ascolto, inteso come un dialogo aperto e continuo, fondato sulla consapevolezza della irraggiungibilità dell’“altro”, che è in continuo divenire.

Allo stesso modo intendiamo il concetto di democrazia, come un valore delle relazioni sociali in continua trasformazione, e mai definito in maniera esaustiva.

Inoltre riteniamo che non possa esistere un concetto di reale democrazia senza comunità così come non può esistere una comunità effettiva e tangibile senza democrazia.

Essa, nella nostra accezione, può riguardare qualsiasi comunità di persone: la comunità locale, le istituzioni, le comunità terapeutiche, ecc.

Delle molteplici forme di democrazia noi considereremo, per la nostra riflessione, la democrazia partecipativa che comprende lo sviluppo di tutti gli strumenti utili a fornire informazioni e a favorire e stimolare la collaborazione tra i cittadini e le istituzioni di una comunità locale.

Essa è intrinsecamente collegata ai diritti di cittadinanza per tutti i membri di una comunità, ossia l’insieme dei diritti civili, politici e sociali: il diritto alla vita, alla libertà, alla sicurezza, alla solidarietà sociale, all’assistenza sanitaria, alle pari opportunità di lavoro e di istruzione, alla casa; il diritto di avere potere decisionale sul proprio corpo, sulla propria salute e sulle cure. Il diritto di esercitare i diritti.

La democrazia partecipativa, così intesa, ci riconnette alle nostre radici antropologiche e culturali, ereditate dalla antica Grecia: in particolare alla Pòlis, come città e forma elettiva di governo politico, e alla Agorà ossia la piazza, luogo di incontro e di scambio nel cuore della Pòlis, dove venivano anticamente prese in modo collettivo le decisioni relative ad essa. La Grecia è stata storicamente la culla della democrazia, della partecipazione e del valore riconosciuto al dià-logos, ossia al confronto verbale che attraversa due persone come strumento per esprimere sentimenti e per discutere idee.

Gli ordinamenti della democrazia tendono a garantire un altro valore essenziale per l’uomo: la libertà di manifestazione del pensiero e la libertà di coscienza.

Questa libertà è riconosciuta da tutte le moderne Costituzioni e sancita, per esempio, nell’ art. 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.

Essa rimanda anche al valore della dignità come valore intrinseco, status ontologico dell’uomo. «È un sentimento che è chiaramente collegato al riconoscimento di essere prezioso per sé e per il gruppo sociale a cui si appartiene e che si condivide. Sentire di farne parte e di essere inclusi. Etimologicamente è: "qualità di degno" dal latino dignitas che si traduce come "prezioso" e si riferisce al valore intrinseco dell'essere umano in quanto essere razionale, dotato di libertà e potere creativo; perché le persone possono modellare e migliorare la propria vita mediante l’assunzione di decisioni e l’esercizio delle loro libertà» (Palleiro, 2015) (1).

La tutela e la promozione della dignità, insieme agli altri valori sopra citati, è oggi più che mai attuale e necessaria trasversalmente per tutti i cittadini di una comunità.

Nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, art.1, si sottolinea che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti” .

Anche la Costituzione Italiana fa esplicito riferimento alla dignità negli articoli 3, 36, 41 ed in particolare nel 32.

I concetti su esposti fondano ciò che contribuisce a garantire il benessere mentale di tutte le persone di ogni comunità, territorio o nazione.

Per ciò che attiene nello specifico alle persone con sofferenza psichica, possiamo fare riferimento anche alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 2006 e resa esecutiva in Italia nel 2009.

Attraverso i suoi 50 articoli, la convenzione indica la strada da percorrere per garantire i diritti di eguaglianza e di inclusione sociale di tutti i cittadini con disabilità, per tutelarne la dignità.

In particolare l’art. 3 sancisce, tra gli altri princìpi: a) il rispetto per la dignità intrinseca, l’autonomia individuale - compresa la libertà di compiere le proprie scelte – e l’indipendenza delle persone; b) La non-discriminazione; c) Il rispetto per la differenza e l’accetta-zione delle persone con disabilità come parte della diversità umana e dell’umanità stessa; d) La parità di opportunità; e) Il rispetto per lo sviluppo delle capacità dei bambini con disabilità e il rispetto per il diritto dei bambini con disabilità a preservare la propria identità.

Inoltre l’art. 19 sottolinea, per le persone con disabilità, il diritto ad una vita autonoma e alla piena inclusione nella società, il diritto di scegliere il proprio luogo di residenza, di essere inclusi nel libero mercato del lavoro, il diritto all’istruzione, di prendere parte alla vita della comunità in piena integrazione con essa.

Ci domandiamo se oggi le persone affette da patologia psichiatrica vedano sempre riconosciuti tali diritti, o se siano nelle condizioni di esercitarli.

Ci domandiamo anche se i Servizi di Salute Mentale, nella accezione più ampia del termine, siano ad oggi organizzati rispettando i princìpi generali della cultura democratica.

La risposta a tali quesiti è tendenzialmente negativa. L’approccio dominante attualmente in ambito sanitario a livello nazionale, e internazionale, è quello biomedico e burocratico, tendente ad una logica prestazionale e parcellizzante piuttosto che comunitaria e capace di considerare la persona nella complessità della propria intersoggettività e dei propri bisogni di cura.

La risultante è che spesso i Servizi sono organizzati sui bisogni identitari dei professionisti piuttosto che su quelli di cura degli utenti e delle famiglie.

Solitamente gli utenti ed i loro familiari sono costretti ad adattarsi a rigidi standard prestazionali delle varie istituzioni (SPDC, CSM, Centri diurni, ambulatori, Strutture residenziali, ecc.), spesso ricevendo cure farmacologiche non accompagnate da sostegno psicologico continuativo e/o da un vero progetto terapeutico co-costruito e compartecipato. Difficilmente l’utente ha, al di là della forma, libertà sostanziale di scegliere quali cure effettuare, tra le tante opportunità possibili, e dove.

In questo quadro generale si distinguono, tuttavia, alcune eccezioni che costituiscono un possibile modello di buone prassi nel campo della Salute mentale.

In questi anni, nella nostra pratica clinica centrata sui gruppi, sulla psicoterapia di comunità, sulla psicoanalisi sociale, svolta in un contesto complesso e a volte difficile, abbiamo cercato ed incontrato colleghi di diverse parti del mondo, affini per stile di lavoro, per cultura e condivisione della pratica clinica e per visione politico-sociale.

Ci riferiamo ad approcci nei quali i princìpi della democraticità ed il rispetto dei diritti e della dignità delle persone con sofferenza psichica e delle loro famiglie vengono perseguiti e praticati, essendo considerati parte essenziale dello stile di lavoro degli operatori della salute mentale.

Essi sono il Gruppo Multifamiliare (GPMF), l’Open Dialogue (OD), la Comunità Terapeutica Democratica (CTD), l’Inclusione Socio-lavorativa.

I principi fondativi che animano tali dispositivi terapeutici hanno tra loro, come vedremo di seguito, importanti punti di contatto che li rendono significativamente compatibili e complementari nel sostenere i processi di cura delle persone con sofferenza psichica e nel favorire lo sviluppo di Servizi di Salute Mentale democratici, fondati sui principi della partecipazione ai processi decisionali, della co-costruzione condivisa delle buone prassi, della solidarietà, dell’empowerment e del benessere di tutti i soggetti che li attraversano: utenti, familiari, operatori, cittadini della comunità locale.

Oggi in una società postmoderna dove la democrazia è a rischio, dove è a rischio il dialogo ai vari livelli della socialità: dentro la coppia, dentro la famiglia, tra pari, negli ambienti di lavoro, nella politica, nelle istituzioni; in un sociale dove è sempre più esigua la possibilità per il singolo di partecipare alla vita comunitaria ed esercitare un potere contrattuale, la nostra proposta potrebbe apparire, ad uno sguardo superficiale, utopica o dissonante.

Noi ipotizziamo, invece, che gli approcci di cui parliamo si stiano sviluppando e diffondendo con successo e con ottimi comprovati esiti proprio perché tali valori, fondamentali per il benessere degli individui e della società, sono attualmente a rischio.

Lo scenario della salute mentale è oggi molto difficile: in molti contesti utenti, familiari ed operatori della salute mentale sono “contenuti” in set(ting) di cura altamente spersonalizzanti e disumanizzanti, che spesso producono malessere anziché benessere, cronicizzazione anziché sviluppo.

Tali approcci restituiscono benessere a tutte le persone coinvolte; attivano relazioni fondate sulla com-passione, sul coinvolgimento emotivo-affettivo, sulla solidarietà, sulla comprensione profonda dell’altro, sulla ri-attivazione della dimensione emotiva e personale anche dei terapeuti e degli operatori.

Quest’ultima, lungi dall’essere considerata un ostacolo alla cura, viene anzi utilizzata come risorsa indispensabile per instaurare una autentica relazione empatica capace di generare effetti trasformativi, sia a livello emotivo-affettivo sia a livello cognitivo, così come sostengono anche le moderne teorie e ricerche neurobiologiche (Rizzolatti, Sinigaglia, 2006; Panksepp, Biven, 2014; Damasio, 2017) (2, 3, 4).

«…L’idea che il terapeuta debba essere emotivamente neutrale non solo è impossibile, ma anche deleteria per l’impresa terapeutica. È impossibile essere neutrali poiché tutte le persone (tutti i mammiferi) hanno un bisogno innato di relazioni positive» (Panksepp, Biven, 2014) (3).

Attraverso gli approcci suddetti è possibile operare un fondamentale passaggio concettuale e sostanziale dal malessere al benessere mentale, dal paziente e dall’operatore alla persona, dalla malattia alla sofferenza, dall’esclusione all’inclusione sociale, dal blocco emozionale alla narrazione della storia, dalla paura alla felicità.

Riprendendo Panksepp: «…gli psichiatri dovrebbero essere consapevoli dell’interazione affettiva dei diversi facilitatori emotivi e dovrebbero cercare dei modi per massimizzare il benessere, caratterizzato da abbondanti affetti positivi che promuovono la felicità e l’armonia sociale. Ovviamente anche le politiche sociali sono strumenti efficaci per realizzare tali scopi» (Panksepp, Biven, 2014) (3).

Sembra insolito parlare di felicità nei nostri ambienti. Quello della felicità è un concetto, come sostiene Eva Palleiro (2015) (1), spesso banalizzato in alcuni ambiti accademici, nonché raramente considerato nell’ambito dei Servizi di Salute Mentale, o relegato ad alcune filosofie orientali. «La felicità, a sua volta, non starebbe lì dove la maggioranza degli uomini la cerca, come nel successo, nelle ricchezze o nell’onore. La felicità, afferma Aristotele, sta nel condurre una vita virtuosa. Questa virtù propria dell’esistenza umana non consiste solo in un’attività esclusivamente razionale, ma anche sensibile: ha a che vedere con le emozioni. La virtù è anche un’attività pratica che consiste nel saper scegliere una via di mezzo, una via di mezzo peculiare per ogni caso e per ogni persona e sfugge dunque alle definizioni generali.» (Palleiro, 2015) (1). Nella nostra esperienza i pazienti, rispetto a noi tecnici, parlano forse più facilmente della felicità, come possibilità non utopistica o illusoria, come vissuto sperimentato realmente in modo assolutamente personale.

Da alcuni anni, insieme ad un gruppo sempre più numeroso di persone e colleghi e attraverso un processo di formazione continua e di scambio con operatori a livello nazionale e internazionale, abbiamo sviluppato i princìpi operativi su descritti, come diretta prosecuzione ed approfondimento di ciò che avevamo pubblicato nel Manifesto per una psicoterapia di comunità (Bruschetta, Bellia, Barone, 2015) (5).

È stato naturale per noi mettere in pratica in maniera complementare tra loro tali approcci, in relazione ai bisogni di cura degli utenti e del loro contesto familiare e sociale.

Ciò è stato indubbiamente favorito dalla legge 180, nella quale elemento fondante è la territorialità dei servizi e l’abolizione degli Ospedali Psichiatrici Civili e Giudiziari.

Non sappiamo cosa accadrà in futuro, in quanto l’alternativa nei diversi servizi si fonda su approcci terapeutici basati su diagnosi, farmaci, rigidità, negatività. Possiamo auspicare una massiva espansione di tali stili di lavoro, oggi diffusi a macchia di leopardo, come risposta evolutiva e complessa ai bisogni emergenti di tutti i soggetti coinvolti, e spesso travolti, dalla sofferenza psichica.


Elementi di contiguità e collegamento

Il GPMF, l’Open Dialogue (OD), l’IPS e l’inclusione socio-lavorativa, la Comunità Terapeutica Democratica (CTD), hanno significativi punti di contatto che li rendono compatibili e reciprocamente integrabili:

- Sono interessanti e coinvolgenti sul piano emotivo, partecipativo e personale. In particolare, nel GPMF e nell’OD grande attenzione viene data all’instaurarsi di un “clima emozionale” fondato sulla solidarietà, sulla condivisione, sulla tolleranza e sull’accoglienza. «[…] si definisce il clima emozionale come l’atmosfera creata nel setting delle sessioni della Psicoanalisi Multifamiliare. È una costruzione collettiva nella quale intervengono tutti i partecipanti dello stesso: utenti, familiari, operatori. […] Essi attraverso la fiducia favoriscono nuovi spazi della mente» (Palleiro, 2015, p.9) (1).

- Umanizzazione dell’intervento. I terapeuti, gli operatori mettono a disposizione e a servizio del gruppo, del paziente e della famiglia la propria personale esperienza umana, le proprie emozioni; ciò contribuisce a mettere sempre più sullo sfondo la rigidità dei ruoli per far emergere in figura l’incontro umano tra persone. «Essere parte di una trama in maniera salutare richiede dei legami di compromesso e fiducia reciproci, di rispetto, di dignità, e di libertà di amare, tra tutti i partecipanti di un gruppo» (Palleiro, 2015, p.17) (1).

- Tutti i protagonisti sono “curanti” e “curati” (pazienti, familiari, operatori, cittadini). Nel GPMF, nell’OD, nella CTD ognuno “parla per sé”, in prima persona, utilizzando il dispositivo come strumento di trasformazione e di crescita personale. Il gruppo diventa luogo di elaborazione e di crescita e apprendimento personale e professionale anche per gli operatori e per il terapeuta. Questi vengono messi a confronto con il proprio mondo familiare, con le risonanze ed i rispecchiamenti che il racconto degli altri suscita, potendo progressivamente accedere alla possibilità di porre sullo sfondo il ruolo e far emergere in figura la persona. L’immergersi in un clima emozionale di accettazione reciproca, di solidarietà, di partecipazione autentica, di sicurezza, di empatia, costruito con cura ed attenzione, diventa un fattore terapeutico per utenti, familiari ed operatori. La CTD, nella nostra concezione si fonda necessariamente su una dimensione gruppale e partecipativa; al suo interno la presenza anche dei familiari e la loro partecipazione ai GPMF è una condizione essenziale.

- Centratura sul “qui ed ora”. Il focus non è sul sintomo e sulla sua storia, ma sulle parole del paziente, che vengono accolte e riutilizzate dal terapeuta. Valore fondamentale viene dato alla comunicazione attuale come cum-munus (dono reciproco) e cum-moenia (difesa comune) (Fornari, 1977) (6). Le “parole a metà”, condivise, diventano un forte collante relazionale. Stern parlava di “present moment” e “now moment” (Stern et al., 1998) (7) come momenti critici della seduta, importanti per il cambiamento, momenti “reali”, ricchi di esperienza affettiva, di scambio intersoggettivo e di riconoscimento reciproco (Migone, 2003) (8).

- Comunicazione aperta, autentica, dialogica e polifonica. L’uso di una comunicazione libera, non imbrigliata in schemi rigidi e preordinati si fonda sul principio che nel lavoro terapeutico più si è autentici, più si è efficaci. Yalom (2014) (9) sottolinea gli effetti positivi dell’apertura personale del terapeuta su tre ambiti: 1) sul meccanismo della terapia; 2) sui sentimenti del “qui ed ora”; 3) sulla vita personale del terapeuta. Essa «è un buon modello per i pazienti e incoraggia la loro stessa apertura, accelera il processo terapeutico, e dimostra il rispetto del terapeuta per il processo terapeutico mediante la sua disponibilità a impegnarvisi personalmente» (p. 90). Nei dispositivi su citati la comunicazione è dialogica, ossia centrata sul “discorso” che attraversa due o più persone, come se fosse, riprendendo Stern, “una musica suonata con due strumenti, come un coro di due persone”. Questa connotazione intersoggettiva, nel gruppo, si configura come una molteplicità di voci, una polifonia.

- Assenza di atteggiamento interpretativo. Migone (2003) (8) evidenzia come per Hoffmann non sia centrale l’interpretazione come fattore di cambiamento, in quanto non è importante una verità da scoprire, ma una nuova realtà da costruire insieme.

- Focus sulla Riflessività. Fonagy (2001) (10) ha sottolineato la fondamentale importanza della funzione riflessiva come capacità di riconoscere gli stati mentali propri e altrui, alla base della capacità di mentalizzazione.

- La gruppalità e la socialità. La mente, con Foulkes (1948) (11) può essere considerata un “fenomeno interpersonale”. Essa non è fondamentalmente interna alla persona in quanto individuo, bensì è propria del gruppo (Foulkes, 1974) (12). L’individuo è, dunque, nella sua concezione, parte di una rete sociale, un piccolo punto nodale, in questa rete e può solo artificialmente essere considerato isolatamente, “come un pesce fuor d’acqua”. In tutti i dispositivi, la dimensione gruppale e quella sociale sono la sede dei processi di cura e di trasformazione. Riprendendo il modello della “Mente nella trama rizomatica”, viva e reale, della Palleiro (2015) (1), possiamo concepire i dispositivi su citati come una trama nuova, che può aprire nuovi spazi della mente. È nel “qui ed ora” dell’incontro che avviene il cambiamento: la mente si apre e la trasformazione è emotivo-affettiva, psichica e neuro-cognitiva, nella trama delle sinapsi, come hanno dimostrato numerosi studi (Siegel, 1999; Rizzolatti e Sinigaglia, 2006; Gazzaniga, 1985) (13, 3, 14).

- Attenzione all’individuo, alla famiglia, al gruppo e alla comunità locale ed alle loro relazioni. Tutti i dispositivi mirano al coinvolgimento attivo e alla dinamizzazione della rete relazionale familiare e comunitaria dell’individuo ed il cambiamento atteso riguarda ogni punto nodale di questa rete, che diventa soggetto e oggetto del processo di cura. In un’ottica di Psicoterapia di comunità, il lavoro terapeutico è in stretto rapporto con le comunità e i territori (concreti e mentali) di appartenenza dei soggetti coinvolti: curati, curanti, familiari, vicini, semplici cittadini. La prassi terapeutica risulta così fondata sul binomio cultura-cura, sulla promozione di reti sociali, sulla comunità come fondamentale protagonista (destinatario, soggetto, risorsa) dei processi terapeutici.

- Democraticità. Nel GPMF, nell’OD, nell’IPS, nella CTD tutti i pareri e le “voci” sono importanti ed hanno egual valore. Le decisioni vengono prese insieme tra tutti gli attori. Il potere decisionale è restituito al paziente ed alla famiglia. Ciò si configura come un cambiamento epistemologico: il terapeuta, gli operatori non propongono interventi, ma si mettono a servizio del paziente e della famiglia, garantendo ascolto, valorizzazione e rispetto delle decisioni e del progetto scelto dal paziente.

- Enfasi sugli aspetti positivi, propositivi. Vengono valorizzati tutti i partecipanti e sottolineati gli aspetti positivi di tutti gli interventi. «Secondo questa prospettiva, la capacità di un terapeuta è di far passare un paziente da sentimenti negativi e disperazione a sentimenti connotati da affetto positivo», anche attraverso l’affetto positivo del gioco e la capacità di essere flessibili emotivamente (Panksepp, Biven, 2014) (3).

Rispetto a quanto appena descritto, vorremmo mettere il focus su due elementi in particolare:

- La com-passione del terapeuta. Negli approcci su descritti il processo trasformativo riguarda profondamente sia il paziente che il terapeuta ed è subordinato alla capacità del terapeuta di sentirsi coinvolto emotivamente per poter incontrare il paziente autenticamente e su un livello profondo, sottocorticale, per dirla con Panksepp. «La compassione può essere di importanza cruciale per l’atteggiamento del prendersi cura degli altri che è essenziale per una terapia efficace» (Panksepp, Biven, 2014)(3).

- La crisi è un momento topico, doloroso, ma potenzialmente fondamentale per generare un vero processo trasformativo. Nel suo significato etimologico, dal greco krinos (separare, discernere) possiamo recuperare la dimensione trasformativa che è intrinseca alla separazione e alla rottura degli equilibri precedenti. La crisi infatti si configura come il catalizzatore delle dinamiche disfunzionali, delle interdipendenze patologiche all’interno del gruppo familiare del paziente, nonché come una occasione nella quale, attraverso il processo terapeutico, è possibile riconsolidare la memoria di lavoro, ossia trasformare i vissuti connessi agli eventi traumatici individuali e familiari. «pertanto, i terapeuti dovrebbero essere pronti a riconoscere le crisi emergenti, ed affrontarle immediatamente» (Panksepp, Biven, 2014)(3).

Descriviamo di seguito brevemente le caratteristiche salienti degli approcci di cui abbiamo parlato, rimandando ad approfondimenti teorici, ma soprattutto ad una specifica formazione e alla loro applicazione pratica nelle comunità locali favorita sia dalla legislazione nazionale che dalla logica del lavoro territoriale e comunitario.

Inoltre forniremo, in coda ad ogni paragrafo, alcuni dati descrittivi, riferiti all’ultimo triennio, sullo stato dell’arte della applicazione, della formazione, della incidenza e degli esiti di ogni approccio nel Distretto di Caltagirone e Palagonia, del Comprensorio Calatino Sud Simeto, che da alcuni anni li sta implementando con successo in modo integrato, al fine di costruire un Servizio di Salute Mentale sempre più dialogico, democratico e partecipato.

Vogliamo, in conclusione, sottolineare l’importanza che assume la formazione ed il periodico monitoraggio per ogni approccio; nella nostra esperienza viene prestata molta attenzione, infatti, alla aderenza al modello, per evitare modalità “fai da te” o altre modalità creative che rischiano tuttavia di condurre lontano dal metodo che a livello internazionale è stato costruito e validato.


Il Gruppo di Psicoanalisi Multifamiliare (GPMF)

La Psicoanalisi Multifamiliare nasce in Argentina alla fine degli anni ’50 ad opera di Jorge Garcia Badaracco, psichiatra e psicoanalista, come metodo di cura per la guarigione dalla psicosi, utile ai pazienti, ai genitori e agli operatori. Il GPMF è un grande gruppo di 30-50 persone, composto da operatori, pazienti, genitori e/o altri familiari o “altri significativi”, che partecipano ad una libera “conversazione” in cui ognuno può esprimere quello che pensa e può sentire di poter contare su qualcuno che aiuta a ritrovare se stesso.

Badaracco (1986) (15) individua alcuni principi teorici e metodologici che fondano la pratica attraverso il GPMF:

- L’Interdipendenza patologica e patogena. La psicosi non riguarda solo il paziente, ma coinvolge almeno due (o tre) persone. Genitore e figlio sono bloccati in una relazione nella quale ognuno dei due non può riconoscere l’altro come “altro da sé” (Ferenczi, 1989) (16). Le interdipendenze patologiche costituiscono vere e proprie prigioni in cui il paziente viene intrappolato sentendosi sempre l’altro e non potendo costruire un proprio Sé vero (Badaracco, 2000) (17).

- Los otros in nosotros. Soprattutto i figli considerati malati, ma anche i genitori, sono “abitati dalla presenza degli altri che non li lasciano essere se stessi”.

- La Virtualità sana. Il processo terapeutico nel GPMF consiste, per i pazienti e per i familiari, nella possibilità di riacquisire parti di sé depositate nell’altro e di evitare che l’altro deponga nuovamente parti di lui in noi; cioè, ricostruendo i confini si giunge ad intravedere di nuovo, o per la prima volta, la virtualità sana presente nelle persone (Badaracco, 2000) (17).

- La Disidentificazione. Nel GPMF ognuno può progressivamente mettere in campo aspetti di sé che non sapeva di possedere o a cui non riusciva ad attingere. Ciò rende possibile l’emergere di un Sé funzionante, autentico, armonico (Bromberg, 2007) (18).

- Il Rispecchiamento Metaforico. Nel GPMF è possibile vedere “gli altri come specchi viventi” (Badaracco, 2000) (17). Attraverso l’ascolto dell’esperienza degli altri è possibile effettuare una rappresentazione della propria situazione, riattivando così una funzione praticamente perduta o mai conosciuta all’interno della situazione a transazione psicotica nella quale vive da sempre (Narracci, 2012) (19).

- I Transfert Multipli. I transfert psicotici possono essere diluiti, spezzettati su tutti i partecipanti al gruppo e ricomposti in un pensiero unico, a cui le menti di tutti i partecipanti, sia di quelli che parlano che di quelli che ascoltano, possono dare un contributo originale e significativo. Possono così essere reintegrati e restituiti con una minore carica emotiva.

- La “Mente Ampliada” . Nel GPMF i vari interventi, basati sulle libere associazioni, si organizzano l’uno con l’altro per dare luogo ad un pensiero complesso che li contiene tutti. Le menti dei vari componenti cominciano a funzionare come le parti di un’unica grande mente. L’individuo può “pensare insieme quello che non si può pensare da soli” (Badaracco, 2000) (17).

- Il Gruppo come “terzo” . Il terapeuta prima, ed il gruppo successivamente, si configurano come “terzo” che rompe la configurazione relazionale simbiotica e l’interdipendenza patologica.

Il GPMF si costituisce come spazio di cura per tutti i partecipanti. Inoltre, il gruppo diventa la sede di un possibile dialogo tra operatori con formazione ed esperienza diversa; linguaggi e vertici osservativi differenti possono trovare un terreno dove essere condivisi. Lo spazio del gruppo, attraverso la condivisione di semplici ma fondamentali regole, quali l’ascolto attento e senza interruzioni di chi parla e l’atteggiamento non giudicante, diventa il territorio dove, forse per la prima volta, è possibile per ognuno sperimentare la compresenza e la legittimità di pensieri anche molto diversi fra loro; nel gruppo non è importante avere ragione, ma essere ascoltato.


Nel Distretto di Caltagirone-Palagonia la pratica del Gruppo Multifamiliare è stata preceduta da una attività di formazione iniziata tre anni fa ed ancora in atto.

Essa è stata estesa a tutti gli operatori del Distretto ed è stata inizialmente orientata alla conoscenza della Psicoanalisi Multifamiliare e della Multifamiliare ad orientamento Sistemico. Successivamente si è strutturata una attività, a cadenza mensile, di formazione/supervisione/covisione, che è al secondo anno di svolgimento, rivolta a tutti i facilitatori dei Gruppi Multifamiliari del territorio.

Attualmente sono attivi nel Distretto diversi Gruppi Multifamiliari: uno al Centro Diurno ed uno al SILS (Servizio di Integrazione Socio Lavorativa), con cadenza quindicinale. Uno alla REMS a cadenza mensile. Un altro Gruppo Multifamiliare si svolge alla Comunità Terapeutica Pubblica, con cadenza mensile. Altri due GPMF sono attivi mensilmente in due Comunità Terapeutiche private convenzionate, rispettivamente nel territorio di Militello Val di Catania e Caltagirone. Un GPMF, gestito da una Comunità Terapeutica privata convenzionata, si tiene a Vizzini presso i locali di un centro sociale del Comune. Infine un altro è attivo nel Distretto di Palagonia. La media delle persone partecipanti ad ogni Gruppo Multifamiliare si attesta tra i 30 ed i 40 tra utenti, familiari ed operatori (Tab. 1).

Ad oggi si registra, da queste esperienze, un significativo aumento della adesione delle famiglie al progetto terapeutico dei congiunti ed una diminuzione di atteggiamenti critici o oppositivi di pazienti in alcuni casi caratterizzati da gravi disturbi del comportamento o con dinamiche relazionali violente.

In tutti i casi si è rilevato un cambiamento dell’atteggiamento delle famiglie rispetto al sistema curante, transitando da azioni rivendicative o aspettative talvolta quasi magiche, ad una maggiore collaborazione e partecipazione propositiva ai progetti terapeutici.

Ciò è un fattore altamente protettivo anche per gli operatori dei servizi, spesso soggetti a pesanti frustrazioni connesse allo scarso coinvolgimento dei familiari ed alla consequenziale vanificazione degli intensi sforzi e dell’impegno profuso nella cura dei pazienti. Nei Gruppi Multifamiliari si respira fortemente un clima di lotta fianco a fianco volta alla crescita di tutti i protagonisti.


tabella 1


L’Open Dialogue (OD)

La “Pratica Dialogica” origina dal “Dialogo Aperto”, approccio, nato in Finlandia alla fine degli anni ’80 ad opera di Jakko Seikkulla, per aiutare le persone con sofferenza mentale ed i loro familiari a sentirsi ascoltati, rispettati e valorizzati (Olson, Seikkula, Ziedonis, 2014) (20). L’Open Dialogue ha due caratteristiche fondamentali:

- È un sistema di cura integrata, basato sulla comunità locale, che coinvolge i familiari e i membri della rete sociale sin dal momento in cui viene richiesto l’aiuto.

- È una Pratica Dialogica, o una forma specifica di colloquio terapeutico, all’interno della “riunione di cura” (treatment meeting) (Olson, Seikkula, Ziedonis, 2014) (20).

Il concetto di “apertura” nel Dialogo Aperto si riferisce alla trasparenza dei processi decisionali e di programmazione terapeutica, che hanno luogo in presenza di tutti gli interessati. La Pratica Dialogica nel Dialogo Aperto si fonda, come sottolineato da Olson, Seikkula, e Ziedonis, su dodici elementi chiave che si possono così riassumere: - Presenza di due o più terapeuti nella riunione di équipe. Rende possibile la realizzazione di una funzione più attiva nel dialogo e di una funzione più riflessiva.

- Partecipazione di familiari e della rete sociale. Essi diventano partner importanti ed attivi del processo di cura. Il paziente ha così l’opportunità di essere aiutato all’interno e dal suo personale sistema sociale di supporto.

- Usare domande a risposta aperta da parte dei clinici. Favorisce l’instaurazione di un clima collaborativo tra i partecipanti. - Rispondere alle cose dette dal cliente. Il clinico segue attivamente ciò che dice il paziente e lo fa sia riprendendo le sue stesse parole, sia impegnandosi nell’ascolto responsivo (Bachtin,1981) (21), sia sintonizzandosi con le comunicazioni non verbali.

- Enfatizzare il momento presente. Il terapeuta risponde alle emozioni che si manifestano nel “qui ed ora” del colloquio e permette alle emozioni di emergere. - Sollecitare punti di vista molteplici. Viene favorita la coesistenza di molteplici “voci”, ognuna delle quali ha ugual valore, generando una “polifonia” (Bachtin, 1981) (21).

- Uso di un focus relazionale nel dialogo. I terapeuti lavorano utilizzando un quadro relazionale, uno stile di indagine sistemico, focalizzato alla soluzione, narrativo e psicodinamico.

- Rispondere ai problemi dialogici e comportamentali attribuendo loro un significato. Viene enfatizzata la “normalizzazione del discorso”, considerando il comportamento patologico come dotato di significato all’interno della situazione vissuta dal paziente.

- Enfatizzare le parole usate dal cliente e le sue storie, non i sintomi. La centralità è data alla narrazione, ri-costruzione della storia, anche partendo dalle singole parole o frammenti di narrazione, per costruire una comprensione comune della voce e dei sintomi del paziente.

- Conversazione tra professionisti (Riflessioni) nella riunione di cura. Durante l’incontro i terapeuti attivano tra loro un processo riflessivo alla presenza del paziente e dei familiari. Inoltre, conversano con gli altri professionisti per programmare la cura e discutere la farmacoterapia e le eventuali altre indicazioni terapeutiche (Seikkulla e Arnkil, 2006; Andersen, 1991) (22, 23). Infine, viene chiesto al paziente e ai familiari di commentare il discorso dei professionisti.

- Essere trasparenti. Tutto il discorso e la presa di decisioni sulla cura si svolge alla presenza di tutti ed è condiviso tra tutti i partecipanti.

- Tollerare l’incertezza. I professionisti non hanno risposte e soluzioni pronte, ma tendono ad incrementare la sicurezza tra i familiari e la rete sociale e prendono contatto con ogni persona nella stanza, legittimandone la partecipazione e favorendone la connessione con gli altri. La Pratica Dialogica enfatizza l’“essere con” piuttosto che il “fare per” (Olson, Seikkula, e Ziedonis, 2014) (20).


Nel Distretto di Caltagirone e Palagonia sono state censite negli ultimi due anni 64 famiglie prese in carico con tale metodologia (Tab. 2). I casi in carico sono relativi a forme gravi di psicosi schizofrenica, ma anche a disturbo bipolare, disturbi di personalità o stati di grave angoscia.

Tale approccio è stato applicato dopo una attività di formazione biennale di uno psichiatra e di uno psicologo all’interno di un progetto multiregionale Open Dialogue con l’equipe di J. Seikkula. Essi hanno di seguito coinvolto altri 8 operatori attraverso una attività di formazione interna. Successivamente è stata programmata una ulteriore attività formativa, che si trova al secondo anno di attuazione, rivolta a 40 operatori della salute mentale: psichiatri, psicologi, assistenti sociali, tecnici della riabilitazione psichiatrica, infermieri, psicologi tirocinanti ed utenti facilitatori sociali.

La maggior parte delle 64 famiglie sono state prese in carico con l’OD in situazione di esordio o di prima crisi e nella quasi totalità di esse non è stato necessario fare ricorso a ricovero in SPDC. E laddove il ricovero è stato effettuato ha avuto una durata significativamente minore rispetto alla media.

L’utilizzo dell’OD in SPDC, nelle situazioni di presa in carico durante il ricovero, ha comportato una riduzione dei giorni di degenza, ma soprattutto la realizzazione condivisa di un progetto terapeutico successivamente perseguito dopo la dimissione.

Inoltre in tutti i casi tale approccio ha reso possibile la presa in carico di altri familiari con sofferenza psichica che non erano riusciti ad accedere precedentemente alle cure, nonché l’allargamento del coinvolgimento, nel processo di cura, di altri nodi della rete sociale del paziente.

Per quanto riguarda le ricadute sugli operatori, la formazione continua sull’OD sta comportando benèfici effetti sul clima delle organizzazioni, sul benessere mentale dei singoli e sulla qualità delle relazioni nell’ambiente lavorativo. Tale stile di lavoro favorisce la conoscenza di sé, dell’altro e di sé in relazione all’altro; incentiva la solidarietà contrapposta alla competizione.

Operatori che erano considerati problematici o demotivati hanno registrato un cambiamento in termini di recupero della capacità propositiva, di atteggiamento positivo verso il lavoro e di recupero di una propria identità riconosciuta sia dai colleghi che dalle famiglie, con le quali sono riusciti ad entrare in risonanza anche attraverso la possibilità di riconoscere ed utilizzare positivamente proprio la personale sofferenza. Il “guaritore ferito” può utilizzare la propria esperienza, mettendola al servizio dell’altro.

Ciò rappresenta un passo in avanti rispetto alla possibilità di costruire un Servizio di Salute Mentale dialogico, che guardi al benessere anche degli operatori oltre che dei destinatari finali delle cure.

Dal punto di vista organizzativo lo staff è coordinato da due psicologi, che svolgono mensilmente una riunione di monitoraggio dell’andamento dell’OD nel Servizio. Lo staff OD è suddiviso in mini équipe che affiancano quella territoriale, composta da assistente sociale, infermiere e psichiatra.

È attualmente in fase di progettazione, in collaborazione con l’Istituto di Sociologia, una attività di formazione esterna al Servizio, indirizzata ad assistenti sociali, operatori delle scuole, operatori sociali, operatori dei servizi sociali dei Comuni.


tabella 2


L’Individual Placement and Support (IPS) e l’Inclusione socio-lavorativa attraverso il Servizio di Inclusione Lavorativa e Sociale (SILS)

L’IPS, il Programma evidence-based di Sostegno all’Impiego Individualizzato, trae origine dal lavoro di Wheman e Moon (1988) (24) e considera il lavoro come un pilastro della Recovery dalla grave patologia mentale (Bruschetta, Barone, D’Alema, 2012a; 2012b) (25, 26). Lavorare insieme ad altre persone senza disabilità è il modo più concreto attraverso cui le persone con gravi disturbi possono davvero partecipare alla vita sociale. La maggior parte delle persone con una grave patologia mentale desidera un lavoro vero sul libero mercato, e il programma di sostegno al lavoro IPS rappresenta attualmente il modo più efficace per raggiungere questo obiettivo. I principi metodologici della Recovery risultano particolarmente utili alla comprensione dello spirito del Metodo IPS, il quale si fonda sui seguenti elementi fondamentali:

- Olismo. Il lavoro realizza un bisogno umano come quello di salute, di spiritualità, di relazioni e di “casa”.

- Responsabilità. Le persone partecipano attivamente alla individuazione dei dispositivi centrati sull’obiettivo di trovare lavoro e di mantenerlo.

- Orientamento alla persona. I trattamenti e i servizi sono basati sugli obiettivi di ciascun individuo.

- Focus sui punti di forza. I Servizi si devono adeguare alle risorse, alle abilità, alle competenze ed alle preferenze dei clienti, e non il contrario.

- Non linearità. Le transizioni scolastiche e lavorative vanno supportate come parti dello stesso sviluppo professionale.

- Rispetto. Un lavoro competitivo sviluppa sicurezza e stima di sé.

- Supporto tra pari. È importante condividere tra pari le storie di lavoro, quelle legate ai percorsi scolastici e quelle di recovery.

- Empowerment. Le persone hanno diritto di scegliere il loro modo di essere sostenute e di partecipare alle decisioni lavorative.

- Auto-determinazione. Le persone devono poter prendere le proprie decisioni sulla tipologia di lavoro che preferiscono e sulle modalità di collaborazione con gli operatori.

- Speranza. Il lavoro promuove la speranza e la motivazione verso un futuro migliore.

Tali principi metodologici si traducono in una pratica che ha come obiettivo il sostegno alla ricerca di una occupazione competitiva sul mercato del lavoro per il cliente. I servizi per l’IPS sono strettamente integrati con il lavoro dei Servizi di Salute Mentale e con il trattamento della patologia mentale. Nella filosofia IPS ogni persona con grave malattia mentale che voglia lavorare è idoneo e l’attenzione è centrata sulle preferenze e sulle scelte del cliente, sul tipo di supporto richiesto allo specialista di occupazione e al suo team di lavoro, e sulla sensibilizzazione dei datori di lavoro sulle tematiche della disabilità psichiatrica. La durata del sostegno è individualizzata e basata sulle richieste e sulle necessità del cliente. Gli specialisti dell’impiego e gli altri membri del team clinico comunitario cercano anche altri supporti naturali disponibili (ad esempio, familiari, amici, colleghi). L’obiettivo è quello di aiutare il cliente a diventare il più indipendente possibile nel suo ruolo professionale. Tale modello di sostegno al lavoro (place and train, cioè di contemporaneo collocamento e formazione) capovolge la pratica di fornire lunghe preparazioni pre-lavorative prima di trovare un lavoro (modello train and place). (Bruschetta, Barone, D’Alema, 2012b) (26).


Nel Distretto di Caltagirone, la formazione IPS si è svolta in due fasi: un percorso di formazione biennale, finanziato dalla Regione Sicilia, esteso a tutti gli operatori del DSM, della Neuropsichiatria Infantile, del Servizio Dipendenze Patologiche, effettuato con la consulenza della équipe della Associazione IPSlon di Bologna, collegata alle esperienze internazionali di R. Drake e D. Becker. Un secondo percorso di formazione, più avanzato e per un numero più ristretto di operatori IPS, ha visto come destinatari alcuni operatori del DSM ed operatori delle Comunità Terapeutiche del territorio. Di seguito sono stati aperti gli sportelli IPS, ed è stata formata una équipe stabile, che ha usufruito per due anni di una supervisione strutturata. Attualmente è in atto una covisione mensile.

Dai dati forniti trimestralmente si evince che in questi anni dall’avvio della sperimentazione, il 30-40% circa delle persone che accedono al servizio IPS, trovano lavoro nel libero mercato, secondo le modalità tipiche della cultura del lavoro del territorio locale (spesso impiego stabile, ma non contrattualizzato formalmente) (Tab.3).

Le criticità sono relative alla necessità di una maggiore visibilità di tale servizio sia all’interno del DSM che nel territorio; inoltre sembra necessario organizzare una formazione continua per incrementare la capacità degli operatori IPS di costruire reti con le agenzie sociali e col mondo imprenditoriale.

Il Servizio di Inclusione Lavorativa e Sociale (SILS)

Una piena e reale inclusione sociale delle persone con sofferenza psichica implica fondamentalmente il raggiungimento di tre dimensioni essenziali della vita di ogni essere umano: l’abitare, il lavoro e la socializzazione.

Il lavoro di inclusione sociale, come sostengono Barone e Bellia, non si fonda sul cercare di ‘reinserire il malato nella cosiddetta società dei sani, ma sul comprendere quale patologia sociale abbia indotto una comunità di vita ad escludere un suo membro, e naturalmente anche sul trasformare le relazioni sociali e le rappresentazioni mentali che tale esclusione hanno determinato (Barone R., Bellia V., 2000; 2003) (27, 28).

Essendo la comunità locale, con il suo reticolo di gruppi, culture, nicchie familiari e sociali, lo spazio in cui si costruisce e si trasforma l’identità di ciascuno e il luogo dove si sviluppa la psicopatologia, il lavoro di cura della grave malattia mentale impone una prospettiva comunitaria ed esige il reclutamento delle risorse comunitarie, se si mantiene l’ambizione di curare per guarire.

Questa prospettiva propone una concezione della cura relazionale radicalmente fondata sulla dimensione partecipativa, in stretto rapporto con le comunità e i territori (concreti e mentali) di appartenenza dei soggetti coinvolti: curati, curanti, familiari, volontari, tirocinanti, facilitatori sociali, amministratori, cittadini.

Diventa così essenziale la costruzione di spazi gruppali di costruzione partecipata di senso. È un processo che riguarda tutti: cura i pazienti, trasforma gli operatori, promuove ricadute di sviluppo sull’intera comunità.

A tale scopo nel Distretto di Caltagirone il processo di inclusione sociale e lavorativa viene svolta anche attraverso le attività del centro SILS.

Esso è un Servizio di Inclusione Lavorativa e Sociale e fa parte del modello organizzativo di benessere mentale di comunità, del Dipartimento di Salute Mentale di Caltagirone-Palagonia.

Negli spazi dedicati, che utilizzano locali dell’ASP, sono programmate e strutturate attività settimanali, di riabilitazione e partecipazione sociale, ambulatori e sportello IPS, attività di inclusione sociale, di promozione della partecipazione e del sentimento di appartenenza alla comunità locale, e di inclusione lavorativa. A cadenza regolare, il SILS è anche sede di percorsi formativi, per gli operatori del DSM Caltagirone-Palagonia, e delle strutture residenziali, comunità terapeutiche, comunità alloggio e gruppi appartamento del comprensorio.

È uno spazio aperto, concepito dal Servizio di Salute Mentale come luogo di osmosi tra interno ed esterno, tra il servizio e la comunità locale.

Le tre stanze del centro S.I.L.S. accolgono ambulatori di varie tipologie: per disturbi del comportamento alimentare, in collaborazione con il personale sanitario dell’Ospedale; per l’autismo adulti; per l’Etnopsichiatria, in collaborazione con le associazioni che accolgono immigrati nel Calatino. Le stanze vengono anche utilizzate per laboratoro creativi e per la segreteria organizzativa.

Il salone è sede di eventi, percorsi di formazione e attività di riabilitazione e risocializzazione.

Le attività sono programmate settimanalmente e vi partecipa l’utenza proveniente dal centro diurno del DSM, dalle strutture residenziali del calatino che afferiscono al SILS, e dal territorio.

La partecipazione è libera e determinata dalle attitudini e dagli interessi di ciascuna persona.

Al momento il Centro SILS promuove laboratori di arte libera; ginnastica dolce; karaoke; balli di gruppo; teatro; cucina; cineforum e scrittura creativa.

Inoltre sono attivi un gruppo di auto-mutuo-aiuto, uno sportello IPS, un gruppo multifamiliare.

Le attività riabilitative sono co-gestite con gli operatori del DSM (es. ginnastica dolce), con gli operatori delle strutture residenziali (es. karaoke, balli di gruppo, teatro), o gestite direttamente dagli operatori del SILS., coordinatore, psicologi, facilitatori sociali, volontari (es. cineforum, arte libera, cucina) e quindi coordinate, nella programmazione, realizzazione e turnazione.

Due volte al mese si svolge un incontro con tutti i tirocinanti, con funzione didattica e organizzativa, ed un incontro comunitario che coinvolge gli operatori, gli utenti delle comunità alloggio, del Centro Diurno, le Associazioni di volontariato, dei familiari e aperto a tutti quei cittadini impegnati e coinvolti nelle problematiche di salute mentale.

Ad occuparsi dello svolgimento delle varie attività e laboratori, sono soprattutto i facilitatori sociali, pazienti adeguatamente formati, che turnano e si impegnano attivamente ad assicurare l’apertura dei locali, la registrazione dei partecipanti alle varie attività, ma anche la gestione diretta di alcuni laboratori e del gruppo di auto-mutuo-aiuto (Barone, Duca, Leonardi, Auteri, Pezzano, 2018) (29).

I facilitatori sociali coinvolti nel Distretto di Caltagirone-Palagonia sono 6, formati attraverso due corsi di formazione promossi dall’ASP 3 per 24 facilitatori sociali nella provincia di Catania. Successivamente sono stati ingaggiati attraverso un bando pubblico e contrattualizzati con borsa lavoro. Al terzo anno di sperimentazione i risultati e le ricadute sulla salute mentale sono molto positivi: non solo nessuno di essi ha avuto ricoveri, ma in diversi casi si è registrata una diminuzione della terapia farmacologica. Essi prestano la loro opera anche in SPDC e nel Centro Diurno.

Essi si configurano inoltre, per gli altri pazienti, come un esempio di recovery, un modello di riferimento che alimenta una speranza concreta di poter realizzare pienamente una vita “degna di essere vissuta”, di poter trovare il proprio posto nella comunità locale e di poter avere in essa un ruolo partecipativo riconosciuto pienamente. Svolgono, infatti, una funzione preziosissima di co-gestione nella organizzazione e di aiuto tra pari nella presa in carico dei pazienti.

La figura del facilitatore sociale pone una questione che, come vediamo, attraversa tutto l’articolo: “chi cura chi”? Egli è una persona con sofferenza mentale, ma non è un paziente anzi, svolge una funzione di aiuto. La loro presenza nei Servizi di Salute Mentale ha aperto alla lettura di alcune dinamiche dei contesti di cura, e ad alcuni interrogativi: una persona con sofferenza può essere un curante ed un curante può essere portatore di una sofferenza. Gli operatori, dunque, sono sempre “sani” oppure possono incontrare anche la propria sofferenza ed avere l’opportunità di trasformarla in elemento evolutivo individuale, gruppale e comunitario?


Un altro ambiente abilitante della comunità locale calatina, importante per il processo di inclusione sociale e lavorativa è la Fattoria Sociale.

In essa lavorano prevalentemente persone affette da psicosi schizofrenica, che vivono in Comunità Terapeutiche o in Gruppi Appartamento.

Anche questo dispositivo ha dato esiti molto positivi. La quasi totalità delle persone che vi lavorano non ha avuto ricoveri negli ultimi tre anni, dando valore all’ipotesi che il lavoro è elemento centrale per la salute mentale di tutti gli individui.


tabella 3


La Comunità Terapeutica Democratica (CTD)

Il termine Comunità terapeutica (CT) si fa risalire a Tom Main (1946) (30) che la descrive come un tentativo di utilizzare l’ospedale come una comunità il cui scopo immediato era la partecipazione alla vita quotidiana di tutti i suoi appartenenti, mentre l’obiettivo finale la reintegrazione dell’individuo nella vita sociale. Dal primo esperimento di Northfield ad opera di Bion, la riflessione sulla Comunità Terapeutica si è ampliata nei paesi anglosassoni connettendosi alle trasformazioni politico-sociali ed economiche contemporanee. Nel 2002 Haigh e Worral (31) hanno definito la Comunità Terapeutica come un Ambiente di Vita e di Lavoro Pianificato in senso Terapeutico, che utilizza il valore terapeutico dei processi sociali e gruppali. Esso promuove una convivenza gruppale, egualitaria e democratica in un ambiente mutevole, permissivo, ma sicuro. I problemi emotivi ed interpersonali sono affrontati discutendone apertamente ed i membri possono così costruire relazioni di fiducia. Essi hanno individuato i Principi della Comunità Terapeutica, rivisti ed aggiornati dal Community of Communities Advisory Group nel 2013, che sono così descritti:

1. Democrazia, Partecipazione. Permette alle parti sane della personalità di emergere ed essere usate.

2. Permissivismo, Tolleranza. Permette che i comportamenti difficili si verifichino. Incoraggia l’espressione, rivelazione di sé e l’assunzione di responsabilità individuale e collettiva.

3. Sicurezza, Confini. Il contenimento psicologico può essere sperimentato e interiorizzato.

4. Comunicazione, Apertura alla Discussione Autentica. Facilita l’espressione della sofferenza e la comprensione delle sue cause.

5. Facilitazione del Confronto con la Realtà. Le conseguenze delle azioni sono chiare per gli individui e per il gruppo.

6. Fiducia, Informalità. Permette che si sviluppi la fiducia e incoraggia la giocosità terapeutica.

7. Uguaglianza, Assenza di Gerarchia. Tutti i membri hanno ugual valore.

8. Ambiente variabile. Permette l’interazione in diverse situazioni e il reciproco esame delle varie sfaccettature della personalità.

9. Comunitarismo, Vita di Gruppo. Aiuta i clienti membri ad esplorare tutte le loro interazioni e fornire opportunità per la sperimentazione di nuovi comportamenti in situazioni reali.

La Comunità Terapeutica Democratica per la grave patologia mentale può essere concepita oggi come un “ambiente abilitante” (Haigh et al., 2012) (32) che interconnette le funzioni della cura psichica e del sostegno all’abitare per gli utenti, svolgendo anche una fondamentale funzione di inclusione sociale degli utenti stessi nella Comunità Locale.


Nel Distretto di Caltagirone e Palagonia (Tab. 4) negli ultimi tre anni è stata effettuata una formazione, estesa a psichiatri, psicologi e tecnici della riabilitazione psichiatrica, infermieri attraverso la metodologia del Living Learning Experience (LLE) in collegamento con l’esperienza inglese, ed una formazione specifica, della durata di un anno, sulla CTD, estesa a tutti gli operatori del DSM.

Ad essa è seguito l’avvio della sperimentazione della CTD nel Distretto, con la formazione di équipe composte da tre conduttori di gruppo, un supervisore ed un amministratore, su modello del LLE.

La prima esperienza applicata è stata quella della “Comunità Terapeutica Democratica ad un giorno”, presso il Centro Diurno. Settimanalmente, dalla mattina fino al pomeriggio, si trascorre la giornata partecipando a Community Meeting, piccoli gruppi terapeutici, condividendo la preparazione e la consumazione del pranzo e il tempo libero comunitario.

Vi partecipano utenti con gravi disturbi della personalità, con disturbo antisociale, ecc.; in tale contesto si è registrata, per i partecipanti, una riduzione degli accessi al PS e i ricoveri in SPDC, ed un investimento sul personale progetto terapeutico che in alcuni casi è esitato nell’inserimento lavorativo.

Tale modello è stato successivamente adottato anche alla REMS maschile e alla CT pubblica e, più di recente, alla REMS femminile, nata da alcuni mesi.

La CTD pubblica accoglie utenti del territorio, in fase post acuta, con gravi psicopatologie: psicosi schizofrenica, gravi disturbi bipolari, gravi disturbi di personalità. I dati rilevati registrano un tasso di dimissione annuale del 60% circa. Inoltre negli ultimi due anni non è stato necessario nessun ricovero in SPDC per gli utenti che vi abitano. La crisi viene affrontata dentro la CTD. Infine si registra un totale abbattimento dei rientri in CTD per coloro che vengono dimessi e rientrano a casa o trovano altre soluzioni abitative, quali i gruppi appartamento o l’housing sociale.

Per quanto riguarda la REMS maschile, che accoglie utenti con gravissimi disturbi comportamentali che hanno agito comportamenti violenti o gravi reati all’interno del contesto familiare o nella società, l’introduzione del modello della CTD ha comportato, come esito immediato, la cessazione totale di episodi di violenza dentro l’istituzione.

Fino ad oggi sono stati dimessi 34 utenti e non si è verificato nessun successivo rientro in REMS.

Alcuni utenti dalla REMS sono passati alla CTD pubblica, in un processo di continuità della presa in carico.

Il metodo della Comunità Terapeutica Democratica ad un giorno viene utilizzato settimanalmente in vari contesti: il martedì nel Centro Diurno, come su accennato, Il martedì si svolge anche nella REMS femminile; il giovedì nella REMS maschile; il venerdì nella CTD pubblica.

In tutte le situazioni si è evidenziato un significativo cambiamento nel clima comunitario, che diventa più partecipato e collaborativo; aumenta la cogestione dei luoghi di cura, grazie ad una partecipazione interessata e coinvolta responsabilmente da parte degli utenti, che colgono l’opportunità di mettersi in gioco emotivamente e concretamente attraverso modalità democratiche di partecipazione, per dare senso alla propria esperienza di sofferenza e raggiungere il benessere mentale.

Il territorio del Distretto Caltagirone-Palagonia accoglie anche tre CT private convenzionate, una delle quali si è dotata di una supervisione fornita da un DTC Specialist e sta attualmente partecipando al Progetto Visiting DTC al fine di implementare il modello delle Comunità Democratiche.


tabella 4


Conclusioni

Attualmente le ricerche nazionali e internazionali stanno ampiamente dimostrando l’efficacia terapeutica dei singoli approcci in oggetto.

Si registra una continua e progressiva crescita e sviluppo di tali stili di lavoro nei Servizi, in quanto contribuiscono in modo significativo alla piena Recovery delle persone con grave sofferenza psichica.

Inoltre essi incidono positivamente sul clima emotivo delle organizzazioni, riducendo il rischio di burn out degli operatori e incrementando il vissuto di benessere mentale sul luogo di lavoro.

La loro efficacia è legata, per la persona con sofferenza, al recupero dei valori fondamentali che permettono a tutti gli esseri umani di essere felici, di raggiungere e mantenere il benessere mentale, di partecipare alla vita sociale della comunità di appartenenza, esercitando una dimensione di protagonismo.

Perché ciò sia attuabile occorre innanzitutto avere una rigorosa conoscenza teorica e capacità pratica, che passa attraverso una formazione permanente, associata a ricerche mirate, attualmente ancora non sufficienti.

Essendo processi ancora nuovi nella nostra realtà territoriale, possiamo citare alcune ricerche in fase di attuazione: per quanto riguarda l’Open Dialogue il CNR (Centro Nazionale della Ricerca) ha approntato un progetto sulle pratiche in alcuni territori italiani, tra i quali Catania, Modena, Roma, Savona, Torino, Trieste.

Per la Comunità Terapeutica Democratica dal 2012 è in atto una ricerca nazionale collegata ai progetti Visiting DTC e Visiting Mito e Realtà, in collaborazione con l’Associazione Britannica Community of Communities.

Per la Psicoanalisi Multifamiliare la ricerca è coordinata, a livello nazionale, dalla LIPsiM (Laboratorio Italiano di Psicoanalisi Multifamiliare). Inoltre una ricerca è in corso nella provincia di Catania sui Gruppi Multifamiliari promossa dall’ASP3.

Per ciò che concerne l’IPS la ricerca è coordinata dalla Associazione Nazionale IPSlon, con sede in Bologna, collegata con la sperimentazione internazionale che fa capo a R. Drake e D. Bake.

Lo sviluppo di tali approcci presenta alcune criticità, una delle quali è rappresentata dalla necessità di una leadership capace di modificare la filosofia e l’organizzazione degli attuali Servizi, dando una prospettiva positiva finalizzata alla costruzione del benessere mentale piuttosto che alla rimozione del malessere.

Inoltre una debolezza si registra nella difficoltà dei Servizi di Salute mentale di collegarsi in maniera stabile con ricerche finalizzate.

Un significativo limite si riscontra altresì nella formazione che i professionisti della salute mentale hanno ricevuto dalle scuole di specializzazione, ed anche dalle scuole di psicoterapia. Il cambiamento richiesto da tali approcci è, infatti, di tipo epistemologico.

Inoltre è ancora debole la partecipazione propositiva dei familiari degli utenti e delle loro associazioni ai processi di cura. Spesso, infatti, rimangono ancora arenati in azioni rivendicative.

Per attualizzare tali princìpi è necessario rendere cogente e praticabile la democrazia, la dignità, il benessere mentale e la felicità nella pratica della salute mentale.

Ciò tende a valorizzare al massimo la cultura locale secondo un approccio antropologico.

Possiamo dire in conclusione di sentirci, al momento attuale, in una sorta di “spazio senza” (Di Maria, Lo Verso, 1995) (33), come spazio del cambiamento, ossia in quell’interstizio dove vige la consapevolezza che non può essere più come prima, ma il nuovo non è ancora chiaramente definito, se non nelle prospettive generali.

La fatica ed il desiderio che sentiamo sono quelli di riuscire sempre più a concepire in modo integrato e a connettere questi stili di lavoro, finora utilizzati per lo più separatamente, sia dal punto di vista teorico che pratico.

A 40 anni dalla legge Basaglia pensiamo che questa modalità possa contribuire a sviluppare la grande intuizione di cambiamento della legge 180, in cui “l’impossibile è diventato possibile”.

In questa fase storica di crisi dei Servizi, caratterizzata da scarsi investimenti e dalla mancanza in essi di un orizzonte positivo a livello culturale e metodologico, la nostra proposta, descritta in questo articolo, ci sembra la più utile per valorizzare l’esperienza italiana della riforma promossa dalla legge 180; ci sembra possa raccogliere e rilanciare i valori innovativi e (forse!) utopistici, portati avanti con determinazione da Basaglia, e rappresentare un modo concreto di dare risposte ai bisogni di cura e di benessere dei cittadini. Nonostante le difficoltà di cui siamo consapevoli, infatti, la nostra legislazione si presta in modo favorevole alla integrazione degli approcci che qui abbiamo presentato.


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