Volume 15 - 10 Novembre 2017

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Uso appropriato degli psicofarmaci appropriatezza dei trattamenti con farmaci antipsicotici: less is more?

Autori

Qualche anno fa Peter Tyrer, il direttore del British Journal of Psychiatry, ha scritto in un editoriale: “E’ arrivato il momento di riconsiderare il principio secondo cui gli antipsicotici debbano essere sempre la prima scelta nel trattamento delle persone con un episodio psicotico. […] Ci sono evidenze scientifiche sempre più convincenti che ci dicono che, se consideriamo gli effetti avversi degli antipsicotici, il gioco – per esprimerci in modo semplice – non vale la candela. [...] E’ arrivato il momento di dare per conclusa la “rivoluzione psicofarmacologica” del 1952. Tutte le rivoluzioni finiscono ed anche quella psicofarmacologica doveva finire, con l’approdo ad un mondo più tranquillo, nel quale la terapia farmacologica (che si è mossa come un ariete, in questi ultimi anni) venga sostenuta se diventa socio alla pari con gli altri interventi, lavorando in modo coordinato, anziché conflittuale, con gli altri approcci” (1). Per gli antipsicotici in particolare, svariate evidenze scientifiche sostengono la necessità di un riesame del rapporto tra benefici e rischi, soprattutto in caso di trattamenti a tempo indeterminato, che sembrano ridurre le probabilità di pieno recupero del funzionamento sociale. I dubbi sui benefici dei trattamenti a lungo termine sono in realtà emersi fin dagli anni ’60, quando ricercatori del National Institute of Mental Health pubblicarono il follow-up ad un anno di un primo studio che rilevava esiti migliori a sei settimane per i pazienti che avevano utilizzato antipsicotici rispetto a chi aveva assunto un placebo (2). Gli autori dello studio con un anno di osservazione segnalarono che “i pazienti trattati con placebo erano meno soggetti a riospedalizzazione rispetto a quelli cui era stata somministrata una delle tre fenotiazine attive” (3). In altre parole, gli antipsicotici erano certamente più efficaci nel breve periodo, ma favorivano una maggiore vulnerabilità biologica alle psicosi nel lungo periodo, determinando tassi di ricovero più elevati nell’arco di un anno. La complessità di realizzazione di studi osservazionali a lungo periodo, insieme con la produzione concomitante di innumerevoli evidenze a breve termine sull’efficacia degli antipsicotici e con il pressante marketing delle case farmaceutiche, hanno contribuito a ridurre l’impatto di questo e di altri studi (4-14) che negli ultimi cinquanta anni hanno evidenziato i rischi dei trattamenti antipsicotici a lungo termine. A questo proposito, uno dei contributi più importanti è stato pubblicato da JAMA Psychiatry nel 2013: il campione dello studio è rappresentato da 128 pazienti al primo episodio, stabilizzati con un trattamento con antipsicotici della durata di sei mesi. Al termine di questi sei mesi è avvenuta l’assegnazione randomizzata alle due opzioni: riduzione della dose fino alla eventuale (ma non obbligatoria) sospensione vs. prosecuzione dell’antipsicotico. Il follow-up è durato sette anni: al termine, il tasso di recovery (sul piano del funzionamento sociale) è risultato pari al 40% nel primo gruppo, al 18% nel secondo gruppo. Anche in questo studio le differenze iniziali tra i due gruppi erano minime, ma crescevano con il passare degli anni. I risultati hanno portato gli autori a formulare una propria ipotesi rispetto a questo divario degli esiti: “[…] Il blocco postsinaptico indotto dagli antipsicotici nel sistema di trasmissione dopaminergico, in particolare a livello mesocorticale e mesolimbico, non solo può prevenire e correggere gli scompensi psicotici, ma può anche compromettere l’esercizio di importanti funzioni mentali, come la vigilanza, la curiosità, l’iniziativa, il livello di attività e – almeno in parte – la capacità esecutiva necessaria per il funzionamento sociale” (15). All’editoriale (16) che accompagnava l’articolo è stato dato un titolo che potrebbe contrassegnare le strategie di trattamento farmacologico dei prossimi anni: “Less is more”. “Less” significa dosi basse e durata limitata, “more” allude ai vantaggi a lungo termine, sia sul piano clinico che su quello della recovery. Le ripercussioni operative di questo “less” sono molteplici: a. L’antipsicotico va utilizzato “meno spesso e con meno centralità”: non si è obbligati a proporlo sempre e comunque. Si può scegliere il “watchful waiting”, garantendo una frequenza elevata di supporto e interventi. Trattamenti psicoterapeutici o abilitativi, molto spesso a lungo rimandati, possono invece essere avviati subito, in alternativa o in sinergia con i farmaci antipsicotici. b. L’antipsicotico va utilizzato “con meno enfasi”, senza proporlo cioè come strategia sempre vincente e risolutiva: i successi a breve termine, che sono innegabili, non trovano corrispondenza in analoghi successi nel lungo periodo. Inoltre, le basi teoriche dei trattamenti, cioè le teorie dello “squilibrio chimico cerebrale” che questi farmaci andrebbero a correggere, non hanno ricevuto le necessarie conferme sperimentali. c. Se decidiamo di usarlo, l’antipsicotico: - va utilizzato “alle dosi meno alte possibili”, mantenendo aperta la possibilità di una comunicazione costante e monitorando attentamente l’insorgenza di effetti collaterali, compresi quelli più insidiosi, di tipo metabolico-endocrino, e agendo tempestivamente per ridurne l’impatto sulla salute. - deve essere uno solo, con “meno ricorso alle politerapie”, che aumentano le dosi complessive ed i rischi ad esse connessi. - va utilizzato “per meno tempo”, evitando le prescrizioni a tempo indeterminato e prevedendo, fin dall’inizio, ipotesi di riduzione progressiva delle dosi, fino ad una eventuale (ma non obbligatoria) sospensione. “Talking back to madness” è il titolo di un articolo pubblicato da Science, nel marzo 2014 (17), dal sottotitolo illuminante: “poiché la ricerca diretta a scoprire nuovi farmaci e terapie su basi genetiche è ferma, le psicoterapie tornano al centro dell’attenzione”. L’articolo prende in considerazione i risultati dei più recenti studi osservazionali e randomizzati relativi all’efficacia di diverse strategie psicoterapeutiche nel trattamento dei disturbi schizofrenici, prefigurando una ridefinizione delle gerarchie di intervento: se ora il farmaco è la risposta immediata e gli altri interventi psicologici seguono (nella migliore delle ipotesi), è legittimo prevedere che gli interventi psicosociali possano essere offerti immediatamente ed il farmaco seguire, solo se diventa necessario. Sebbene questo appaia uno scenario ancora remoto, ciò che dà molta forza a questa prospettiva è che essa coincide con le proposte e le richieste dei movimenti degli utenti (18). Eleanor Longden, rivolgendosi ai professionisti della salute mentale, formula una sintesi operativa molto efficace di questa prospettiva: “Non chiedermi che sintomi ho, chiedimi che cosa mi è successo?” (19). L’altro messaggio esplicito che viene dall’universo degli utenti è “niente su di noi, senza di noi”: non un invito a delegittimare la figura del professionista, ma la base necessaria per condividere, con l’interessato ed i suoi familiari, molte dimensioni essenziali del percorso: - la comprensione di quello che è successo, senza rimandarla ad un futuro incerto e senza separare i protagonisti, affidandoli a percorsi paralleli. - le priorità da rispettare, con le decisioni che ne derivano. - le scelte complesse, compresi i ricoveri, le opzioni residenziali al di fuori della famiglia, la loro durata e le strategie necessarie per ridurre e sospendere i farmaci. D’altronde, se le decisioni condivise diventassero una pratica abituale e formalizzata, ci consentirebbero anche di liberarci di gran parte delle angosce giudiziarie che ci affliggono e che ingessano le nostre scelte farmacologiche. Una strategia di riduzione concordata dei farmaci, firmata e sottoscritta dal diretto interessato e dai suoi familiari, non sarebbe quindi avventuristica: ma in tema di riduzione e sospensione non sono ancora fornite ai professionisti sufficienti indicazioni sulle procedure e sui tempi da rispettare e l’unico manuale disponibile, che affronta in modo equilibrato tutti i dettagli da tenere in considerazione, è stato scritto da una rete di gruppi locali e comunità di supporto e attivismo per persone etichettate con disturbi mentali, coordinati da Will Hall (20).


L’esperienza dei focus groups della Regione Emilia-Romagna

Da tempo la Consulta Salute Mentale della Regione Emilia-Romagna dedica grande attenzione ai trattamenti farmacologici nei percorsi di cura dei Centri Salute Mentale, sollecitando verifiche sulle modalità di prescrizione e gestione delle terapie psicofarmacologiche, promuovendo azioni di miglioramento per il monitoraggio e la valutazione del profilo benefici/rischi dei trattamenti. Per proseguire il lavoro avviato e facilitare l’omogeneità dei percorsi nei Centri di Salute Mentale, la Regione ha promosso un progetto regionale, la cui realizzazione è a cura del Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze Patologiche dell’Azienda USL di Bologna, finalizzato ad effettuare audit clinici e organizzativi sull'appropriatezza dei trattamenti farmacologici per i pazienti dei servizi di salute mentale adulti. Come fase di indagine preliminare allo svolgimento degli audit, sono stati organizzati in collaborazione con la SIEP due focus groups regionali, che hanno messo a confronto i punti di vista dei professionisti dei DSM-DP con le esigenze espresse dai rappresentanti delle associazioni e degli utenti/familiari. L’obiettivo generale del’esperienza è stato quello di sviluppare il processo di condivisione tra professionisti, familiari e utenti rispetto al profilo benefici/rischi e alla gestione dei rischi dei farmaci antipsicotici. In effetti, la metodologia qualitativa, nel cui ambito rientrano i focus groups, ha come obiettivo la possibilità di affrontare in modo sistematico quesiti privi di risposte chiare nella letteratura scientifica basata su metodi quantitativi. I focus possono essere particolarmente utili per definire e delimitare l’oggetto di un successivo audit sui trattamenti con farmaci antipsicotici, anche a causa dei modelli diversi di rappresentazione del disturbo schizofrenico/psicotico (es, temporaneità vs. irreversibilità). L’attività si è articolata in due gruppi di discussione, distinti su base geografica (Emilia e Romagna) e costituiti da professionisti, familiari, utenti, che hanno individuato criteri di appropriatezza e strumenti di misurazione (indicatori), da applicare prima e dopo l’audit che si intende intraprendere nel 2017. Dal confronto regionale, dall’analisi preliminare dei dati e dall’esperienza della SIEP sono emersi alcuni punti di particolare interesse, scelti per guidare le discussione che si è svolta nei focus groups. Di seguito sono sintetizzati i principali contenuti emersi, in relazione alle questioni selezionate:


1. Quali sono i rischi/svantaggi più temuti del trattamento con AP?
  • I rischi più temuti sono in parte diversi per utenti, familiari e professionisti. Dal punto di vista degli utenti è avvertito il rischio di non poter uscire dal trattamento, perché la sospensione deve essere estremamente graduale, mentre basta una ricaduta per dover tornare a dosaggi importanti. E’ percepito inoltre il rischio di un possibile senso di perdita della malattia, vissuta come qualcosa di doloroso ma identitario. A parere soprattutto dei familiari, i pazienti temono maggiormente effetti ad alto impatto sociale-relazionale, i familiari le conseguenze sulla salute fisica (sindrome maligna da neurolettici, morte improvvisa, sintomi neurologici parkinsoniani, diabete, malattie cardiovascolari) e il decadimento cognitivo e relazionale che innesca un circuito di impotenza e cronicizzazione, mentre gli psichiatri tendono a trascurare i rischi e trovano difficoltà a modificare la terapia, mantenendola stabile per anni. Un professionista segnala la scarsa formazione sulla psicofarmacologia, e un carente rispetto delle esigenze informative e comunicative verso l’utenza e le famiglie dei diretti interessati.
  • Gli AP oltre a rischi hanno limiti: non agiscono in maniera mirata e specifica sui sintomi. Sono come “una molla che schiaccia il paziente”, o come “l’acqua che spegne un incendio ma provoca altri danni”.

2. Quali benefici/vantaggi sono attesi dal trattamento con AP?
  • Anche per i benefici le varie figure hanno aspettative differenziate. Per gli utenti, considerati i rischi segnalati, un trattamento farmacologico va intrapreso solo se risulta impossibile convivere con i disturbi (angoscia, insonnia, …), i quali vanno affrontati soprattutto col dialogo terapeutico, oltre che con altri approcci mirati alla recovery. Per i familiari è importante la riduzione di comportamenti/problemi critici in acuto (agitazione, aggressività) e in cronico (apatia, deterioramento cognitivo). Gli psichiatri mirano alla riduzione dei sintomi psicotici più evidenti, come deliri o allucinazioni.

3. Quali modalità adottare per l’informazione del profilo benefici/rischi all’inizio dei trattamenti (in particolare se l’avvio del trattamento avviene in forma coercitiva o molto assertiva)?
  • È necessaria una comunicazione “coraggiosa” sulle incertezze del futuro, che fornisca tuttavia la sicurezza del supporto per affrontare insieme le incognite.
  • L’aspetto più critico della comunicazione all’inizio del trattamento è quello sulla sua durata. Occorre evitare di dire “è per sempre”. Mancano anche informazioni sugli effetti collaterali e i rischi. È necessario ri-negoziare con paziente e familiari, sulla base dell’andamento clinico, durata e posologia degli AP.
  • I familiari vanno coinvolti fin dall’inizio. I familiari stessi considerano che sia opportuno utilizzare a questo scopo varie modalità e tecniche, sia individuali che di gruppo.

4. Quali misure adottare per individuare l’insorgenza di effetti collaterali e per gestire gli stessi?
  • Per monitorare gli effetti collaterali ci vorrebbero istruzioni operative e protocolli basati su linee guida.
  • Attualmente sono adottati in vari servizi alcuni strumenti di monitoraggio di effetti collaterali, ma questo non avviene in modo sistematico, omogeneo e consolidato.

5. Che indicazioni fornire per alcune scelte critiche nel trattamento con AP (politerapie, longacting, modulazioni dosaggi, durata, modalità sospensione, necessita di associare terapie non farmacologiche e di coinvolgere familiari/rete relazionale nel percorso di trattamento)?
  • Il trattamento personalizzato è oggi carente. In particolare, si tende a rimandare troppo la componente riabilitativa e si tende a scommettere soprattutto sul farmaco e non sugli altri interventi, o psicologici o riabilitativi.
  • Per decidere durata e modalità del trattamento sarebbe necessaria una cabina di regia. La cabina di regia dovrebbe comprendere professionisti dei servizi, utente, familiari, più che un regista unico del trattamento (care manager).
  • Le direttive anticipate di cura potrebbero essere in futuro uno strumento da inserire nel piano individuale di trattamento. Misura co-responsabilizzante in quanto condivisa tra vari protagonisti del sistema di cura - équipe salute mentale e cure primarie- utenti e familiari.

L’audit, che sarà svolto dal gruppo di lavoro regionale composto da prescrittori, altri operatori, utenti e familiari, prenderà l’avvio nel Giugno 2017, prevedendo la stesura di un questionario con cui valutare l’appropriatezza dei trattamenti in un campione di utenti con disturbi schizofrenici dei Centri di Salute Mentale Regionale. La rilevazione è finalizzata a misurare l’appropriatezza con il pacchetto di indicatori individuati a seguito dei focus, a implementare azioni di miglioramento dopo l’analisi delle criticità rilevate, e a effettuare nell’anno successivo una rilevazione post-audit per misurare l’impatto delle azioni introdotte. Un ulteriore risultato che si confida di ottenere, è provocare una gemmazione in molte realtà locali di esperienze di ricerca e riflessione comuni, allo scopo di costruire progressivamente con rappresentanti di familiari e utenti raccomandazioni di intervento basate sia sull’evidenza che sull’esperienza condivisa.


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