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Formazione integrata tra Università e Territorio in psichiatria

Autori

Ricevuto il 20/07/22 – Accettato il 31/07/22



Riassunto

Negli ultimi anni, gli specializzandi di varie discipline – inclusa la psichiatria – sono stati chiamati in modo crescente a svolgere parte della propria formazione in strutture non universitarie. Questa esigenza, in parte guidata dall’incremento delle borse di specializzazione, apre la possibilità di conseguire una formazione più completa; che tenga cioè conto delle peculiarità tanto dell’ambiente accademico, quanto della pratica clinica territoriale. In questo modo è possibile conseguire una formazione integrata.


Abstract

In recent years, residents training in various disciplines – including psychiatry – have progressively attended part of their rotations outside University Hospitals. This need, partly driven by an increased number of positions and related grants, gives a chance for a shift towards more complete professional training. In other words, this enables residents to grasp the specificity of both the academic and the territory-based healthcare facilities, in order to obtain an integrated education.


Il tema della formazione specialistica in medicina è stato oggetto, negli ultimi anni, di profondi dibattiti e riflessioni. Il recente incremento del numero di specializzandi disposto a livello ministeriale, volto a garantire un imponente turnover dettato dai futuri pensionamenti, ha nel frattempo reso necessaria una ridistribuzione della formazione, tale per cui quest’ultima non sia più limitata ai policlinici di Ateneo, bensì estesa ai limitrofi servizi territoriali. Sempre più spesso, infatti, gli specializzandi sono chiamati a trascorrere parte del proprio iter formativo fuori dalle strutture delle aziende ospedaliero-universitarie, confrontandosi precocemente con i modelli assistenziali di una più ampia “rete formativa”.

In questo contesto, è noto come da tempo i medici in formazione specialistica abbiano chiesto e condiviso con i Direttori di Scuola l’opportunità di un aggiornamento dinamico del percorso di specializzazione. Da un lato, si è ottenuto il sopracitato l’incremento del numero delle borse di studio, anche nell’ottica di risolvere l’annosa questione del cosiddetto “imbuto formativo” (i.e., la disparità tra i posti nel Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia ed il numero inferiore di borse di specializzazione finanziate), nonché allo scopo di essere in condizione di rispondere a future carenze di organico del Servizio Sanitario Nazionale. Dall’altro, si è progressivamente ottenuta una maggiore trasparenza nelle modalità di accreditamento nelle Scuole, elemento fondamentale per il raggiungimento di una professionalizzazione adeguata e uniforme. Stanti gli obiettivi formativi stabiliti a livello ministeriale, ciascun Ateneo gode comunque di definiti margini di discrezionalità per quanto riguarda le modalità di conseguimento dei suddetti obiettivi, anche sulla base delle specificità assistenziali, organizzative e di ricerca dei diversi luoghi di formazione-lavoro. Riteniamo che – pur nel rispetto degli obiettivi ministeriali minimi – ciò costituisca una ricchezza in termini di sviluppo di interessi personali e di occasione di apprendimento. Il risultato finale è infatti il crearsi di un’opportunità di innovazione e potenziamento della formazione, ancorché in parte guidato da fattori “esterni” quale appunto il notevole incremento delle borse di studio che ha reso necessaria una ridistribuzione dei discenti. Mai come in questo caso, in effetti, è possibile fare “di necessità virtù”. L’incontro precoce con la rete delle cure di I e II livello apre infatti – soprattutto in Salute Mentale – la possibilità di fornire un imprinting particolare al percorso di studio e di crescita professionale, laddove la vocazione territoriale e socio-sanitaria emergono con maggiore chiarezza, ma guidate da un aggiornamento clinico e da una prassi improntata alla ricerca e all’aggiornamento continuo grazie alla disponibilità di risorse e competenze universitarie.

Questo passaggio da un sistema che potremmo dire chiuso (esclusività della formazione presso le cliniche universitarie) a un sistema aperto (comprendente le strutture territoriali) ha garantito l’ampliamento delle possibilità formative per lo specializzando, e in particolare – laddove il territorio risulta sede prevalente di collocazione professionale dei neospecialisti – crea un gradiente di integrazione nel circuito lavorativo che è allo stesso tempo più “agibile” e progressivo rispetto a un inserimento rapido e scarsamente “preparato” nei Servizi Territoriali dopo un quadriennio speso unicamente all’interno delle cliniche universitarie. Persistono in questo quadro alcune fisiologiche criticità, verosimilmente ascrivibili alla recente introduzione di questa integrazione, tali per cui il processo osmotico tra peculiarità universitarie e territoriali è a tutti gli effetti in fase di rodaggio – venendo peraltro spesso catalizzato proprio da iniziative cliniche e di ricerca congiunte, condivise tra gli stessi specializzandi ed i Direttori delle Scuole e dei Servizi coinvolti.

È nostro intento fornire l’esperienza diretta di un percorso aperto, in modo da poter evidenziare quali siano stati i punti di forza che hanno reso particolarmente efficace questa formazione integrata. La Scuola di Specializzazione in Psichiatria di Firenze prevede già da diversi anni – risultando cronologicamente tra le prime in tal senso – l’obbligo per lo specializzando di frequentare i servizi territoriali: la rete formativa, che inizialmente copriva soltanto i Servizi del capoluogo, si è progressivamente allargata fino a comprendere Comuni e Province limitrofi. Ancora, fino a qualche anno fa il periodo di servizio sul territorio era programmato per il solo quarto anno di corso, con frequenza sia dei CSM che degli SPDC: a partire dal 2020 è stato quindi esteso a metà del terzo anno e a tutto il quarto, mentre attualmente è previsto anche un periodo di sei mesi durante il primo anno di specializzazione, con esclusiva frequenza delle strutture extra-ospedaliere.

Sono principalmente due i punti di forza che questa scelta ha mostrato nel tempo.


1. Professionalizzazione sul campo

La possibilità di frequentare i servizi territoriali fornisce allo specializzando gli strumenti per venire in contatto con aspetti della professione specialistica che nel contesto delle cliniche universitarie – le quali non insistono su una precisa circoscrizione geografica – possono manifestarsi con modalità diverse. Tra queste spiccano la multiprofessionalità ed il rapporto con la cittadinanza (intesa anche nei suoi organi istituzionali e nei suoi dispositivi giuridici). Questo emerge, ad esempio, nel rapporto con le strutture residenziali e nelle professionalità qui coinvolte (p.e., educatori professionali e assistenti sociali). Per lo specializzando è essenziale entrare in possesso della capacità di lavorare in équipes multidisciplinari, così come apprendere in quale modo si articolino i diversi operatori fra loro nell’espletamento dei progetti di cura e riabilitazione. Fornire al futuro specialista un contatto precoce, diretto e quotidiano con le varie figure che compongono tali gruppalità garantisce un elemento esperienziale che permetterà, una volta inseriti nel contesto dei Servizi, una maggiore e più rapida capacità di intervento, con ricadute positive sia sul funzionamento del Servizio stesso che per la salute degli assistiti.


2. Possibilità di effettuare ricerca nell’ambito della real-world practice

Gli utenti dei servizi territoriali presentano caratteristiche sociodemografiche e psicopatologiche eterogenee, costituendo un campione ampio, variegato e altamente rappresentativo della domanda globale di salute mentale: ciò configura un’importante occasione di studio e di ricerca con valenza epidemiologica e clinica, volta all’ottimizzazione della capacità di intervento – in un’ottica di continuo monitoraggio a scopo migliorativo. L’integrazione tra le competenze ed i mezzi di una Scuola di Specializzazione, da un lato, e la prassi clinica territoriale, dall’altro, è in grado di fornire interessanti prospettive di ricerca, oltre a sbloccare una cospicua mole di dati che (in assenza di personale specificamente dedicato presso i Servizi) rischierebbe di andare perduto o sottoutilizzato, fornendo una conoscenza esclusivamente di tipo aneddotico e pertanto non spendibile in un ambito scientifico evidence-based.


Essendo prossimi a giungere al termine del nostro periodo di formazione, ci sentiamo di sollevare una riflessione sulla principale criticità che si è palesata in seguito all’allargamento del percorso di formazione. Infatti, la formazione in psichiatria presenta con maggior chiarezza una peculiarità (teoricamente) comune alle diverse branche della medicina come scienza umana: si tratta di ciò che colloquialmente viene descritto come “non interscambiabilità dello specialista”, per cui, differentemente da quanto può accadere in altri ambiti medici in cui l’aspetto tecnico prevale – più o meno a torto – su quello relazionale, nel setting psichiatrico il rapporto medico-paziente viene a essere un elemento fondamentale del contesto di cura, caratterizzandosi per essere uno dei fattori aspecifici di efficacia dell’intervento terapeutico. L’inserimento della figura dello specializzando nel setting ambulatoriale dello specialista tutor provoca non infrequentemente nel paziente un senso di violazione della diade terapeuta-assistito o un allargamento non necessario dell’équipe di cura. Mentre per i colleghi specializzandi di altre scuole è possibile – sebbene con più o meno facilità a seconda dei casi – inserirsi ex abrupto nel contesto della visita ambulatoriale, lo specializzando in psichiatria rischia di essere percepito dal paziente come un intruso che non conosce la sua storia, e che pertanto non può detenere a priori un rapporto fiduciario rispetto ai propri vissuti. Questo proprio perché nella propria rotazione formativa “affiora” per un determinato periodo di tempo, per poi sparire nuovamente. Non appare semplice trovare una soluzione a questo aspetto critico: tuttavia, un’ipotesi di lavoro potrebbe essere quella di garantire fin da subito allo specializzando una frequenza ibrida territoriale-universitaria, tale da prevedere sulla settimana lavorativa la possibilità di frequentare fin da subito attività assistenziali in ambo i tipi di struttura; in tal modo si potrebbe garantire all’utenza dei Servizi la possibilità di familiarizzare con la figura dello specializzando e, contemporaneamente, garantire che per un tempo di tre o quattro anni non si verifichino cambiamenti confondenti nel setting di cura – se non in direzione di una progressiva autonomia del medico in formazione rispetto al supporto dello specialista tutor.


In conclusione, l’integrazione del percorso di formazione garantisce la possibilità per lo specializzando di ampliare gli ambiti di apprendimento, giungendo a un maggior discernimento circa le proprie potenzialità e i propri interessi. Questa “visione binoculare” è fondamentale per ottenere un professionista a tutto tondo, conscio delle proprie inclinazioni e consapevole degli “attrezzi del mestiere” che deve necessariamente padroneggiare, o viceversa coltivare in modo elettivo, allo scopo di divenire quanto prima competente e di beneficio sul piano assistenziale.