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Embrace e co-produzione. La comunità terapeutica democratica come ambiente abilitante nella comunità locale

Autori

Ricevuto il 03/08/22 – Accettato il 10/08/22



Riassunto

Il presente articolo si configura come una rielaborazione, da parte degli autori, dei contributi di Rex Haigh, Laura Liverotti, Geoff Dennis e Natasha Berthollier, al convegno “La frattura dei legami psicosociali” che si è tenuto online a dicembre 2021 e organizzato dall’MDSM calatino 1 in collaborazione con la rete internazionale delle comunità terapeutiche INDTC.
Le tematiche affrontate e sviluppate fanno riferimento alla esperienza inglese della città di Slough Town, esempio di un modello di comunità terapeutica non residenziale, ma applicata alla comunità locale. Una città che funziona come una comunità terapeutica, fondata sulla co-creazione e co-produzione tra tutti i protagonisti e sulla costruzione di un costante lavoro di connessione tra tutte le agenzie sociali del luogo. Salutogenesi, co-produzione, senso di appartenenza, sono alcuni dei concetti chiave sviluppati nell’articolo e fondamento di una pratica di cura e di benessere collettivo che guarda alle risorse delle persone piuttosto che alla patologia. Prendendo le mosse dall’esperienza inglese gli autori riportano il processo già in atto da alcuni anni nel territorio italiano, dove si sta sviluppando una nuova vision e pratiche operative più capaci di rispondere ai bisogni complessi di benessere mentale di comunità.


Abstract

This article is a reelaborated version, by the authors, of the contributions of Rex Haigh, Laura Liverotti, Geoff Dennis and Natasha Berthollier, at the online videoconference “The split of psychosocial relationships”, on December 2021, organized by the I Module of the Mental Health Department (MDSM) of Caltagirone, in partnership with the international net of the therapeutic communities INDTC.
The issues which were addressed and developed refer to the English experience of the city of Slough Town, an example of non residential model of therapeutic community, but applied to a local community. A city which functions like a therapeutic community, founded on the co-creation and co-production of all the protagonists and on the construction of a constant work of connection between all the social agencies of each area. Health genesis, co-production, sense of belonging, are some of the key concepts developed in the article on which is founded a care and well-being practice, which looks at the persons’ resources, rather than to there pathologies.
Moving from the English experience the authors tell about the ongoing process, from a few years, in the Italian territory, where a new vision and new operative practices, more able to respond to the complex needs of a community mental health, is developing.


Il presente articolo si configura come una rielaborazione dei contributi di Rex Haigh, Laura Liverotti, Geoff Dennis e Natasha Berthollier, al convegno “La frattura dei legami psicosociali” che si è tenuto online a dicembre 2021 e organizzato dall’MDSM calatino 1 in collaborazione con la rete internazionale delle comunità terapeutiche INDTC.

Durante tale convegno sono state condivise riflessioni ed esperienze sulle pratiche di salute mentale in un tempo nel quale la minaccia della frattura dei legami psicosociali è stata evidenziata dalla pandemia da Covid 19. Quest’ultima ha fatto precipitare processi già in atto da tempo e reso evidente l’inefficacia dell’attuale sistema nel rispondere ai bisogni di salute mentale e di cura delle persone e della collettività nel suo complesso. Ha inoltre reso visibile la stretta interdipendenza tra la salute dell’individuo e quella della comunità locale e la necessità di pratiche che superino la parcellizzazione degli interventi e si muovano verso interventi di benessere mentale di comunità.

Alcuni scenari futuri nel breve tempo sono immaginabili: frattura dei legami sociali, crisi della convivenza in ambito familiare e sociale; disoccupazione soprattutto delle fasce deboli, meno scolarizzate e più povere della popolazione; crisi di partecipazione ai processi democratici; nuovi e inediti bisogni latenti e emergenti nelle comunità di convivenza; aumento delle dipendenze patologiche e comportamenti auto e etero aggressivi; incremento dei disordini di personalità; aumento del senso di solitudine e isolamento; tentativi di suicidio soprattutto nelle nuove generazioni.

Alcuni approcci, quali la comunità terapeutica democratica, il dialogo aperto, i gruppi multifamiliari e l’uso consapevole e ponderato della terapia psicofarmacologica, si fondano sulla responsabilizzazione, sulla partecipazione degli utenti, delle loro famiglie e degli operatori alle scelte nei e dei processi di cura. I presupposti di base sono la cultura e la prassi democratiche e dialogiche. Essi sono fondamentali per una nuova visione dei servizi di salute mentale innovativi e lungimiranti. Per raggiungere e ottimizzare questi stili di vita e di lavoro bisogna raggiungere buoni livelli di cooperazione. Questi obiettivi possono essere ottenuti nutrendo la fiducia e la speranza, che sono i presupposti di base della recovery e della resilienza. Fiducia degli utenti verso gli operatori e degli operatori verso gli utenti e le loro famiglie.

Le esperienze dei colleghi inglesi, seppure con le specificità del loro territorio e della loro storia, hanno elementi in comune con le nostre riflessioni.

Ci confrontiamo con sfide e esperienze innovative. La sfida di cambiamento della comunità terapeutica democratica non più nella residenzialità, cosa che segna sempre più i limiti che i vantaggi. La cultura della comunità terapeutica democratica portata e giocata nella comunità locale. Dobbiamo immaginare e praticare tale approccio nella rete dei dipartimenti di salute mentale pubblici nella relazione con i cittadini, le famiglie, gli utenti della società locale dove opera.

Parlavamo della frattura dei legami. In fondo per ricucire le fratture occorre annodare, creare nodi. E intrecciare nodi significa creare reti nella comunità locale. Con attività preventive, terapeutiche e riabilitative, con attività di promozione delle persone nella comunità locale per fare in modo che la comunità locale sia in grado di dare le risposte di cui la cittadinanza ha bisogno. Il nostro punto di riferimento in tal senso è il Network Internazionale INDTC e l’esperienza di Rex Haigh, Raffaele Barone, Angela Volpe, Laura Liverotti, Natasha Berthollier, Geoff Dennis.

Laura Liverotti, è una psicologa psicoterapeuta, che vive e lavora a Londra e nel convegno si è occupata con grande generosità della traduzione.

Rex Haigh, Natasha Berthollier e Geoff Dennis lavorano insieme dal 2013 per creare un nuovo tipo di comunità terapeutica nella città di Slough, che è una cittadina vicino Londra.

Rex è uno psichiatra del Servizio di Salute Mentale nazionale britannico, ha lavorato in diverse comunità terapeutiche fin dagli anni ottanta. In Italia è noto perché è stato uno dei fondatori, insieme a Raffaele Barone e a molti altri, proprio di INDTC. È anche il supervisore del progetto VISITING DTC, progetto di accreditamento tra pari, tra comunità terapeutiche democratiche. Natasha è una psicologa che si occupa dei servizi psicologici del Servizio Sanitario Nazionale per la città di Slough. Invece Geoff è uno psicoterapeuta con un background nelle comunità terapeutiche, anche lui fin dagli anni ottanta. Attualmente è un dirigente dei servizi di salute mentale del Sistema Sanitario Nazionale e delle autorità locali a Slough.

La comunità che hanno fondato si chiama Embrace, che significa “abbracciare”. Slough è una città vicina a Londra con una popolazione di 164.000 abitanti, interetnica, complessa dove si parlano oltre cento lingue, con alto livello di povertà e di disoccupazione e con fratture dei legami sociali e di connessione tra gli individui.

I temi, i punti e gli ostacoli che affronteremo sono i seguenti: La salutogenesi, l’approccio basato sul patrimonio comunitario e sulle risorse, la co-produzione, la salute come un movimento sociale. Dennis si domanda se il sistema di salute mentale continui a funzionare in modo ripetitivo e a fare nello stesso modo la stessa cosa, come in un loop. Il sistema nazionale britannico è molto interessato all’idea della velocità, di fare le cose velocemente, di usare sistemi strutturati e così via. Però sembra che tutti questi sistemi, questo modo di lavorare, contribuisca a creare lo stesso problema. Bisogna cominciare a guardare le cose in un modo diverso. Se continuiamo a fare le cose come vengono fatte adesso, il risultato sembra che sia una frammentazione della società, dei servizi e della comunità stessa. Quindi, di conseguenza, anche una frammentazione della salute mentale. Dobbiamo cominciare a fare le cose in un modo un po’ diverso. Dobbiamo rompere il muro. Dobbiamo metaforicamente distruggere questo muro e iniziare a lavorare con delle politiche che tornino a valorizzare il senso dell’essere e dell’appartenenza.


Questa modalità di pensiero si riferisce alla teoria del campo e a quella della relatività di Newton. Questa idea viene usata come teoria per comprendere la comunità, dove tutto è connesso ed in interrelazione. E questo è un modo per cominciare a capire un po’ come ci integriamo nella comunità, come siamo parte di una comunità.

La salutogenesi è un concetto, un approccio nel quale della persona si valorizza l’aspetto della salute anziché quello del disagio o della malattia. Quindi è un modo molto diverso di approcciarsi nella città di Slough. Salutogenesi è un termine coniato da Aaron Antonovsky nel 1979, professore di sociologia medica. Il termine descrive un approccio che si focalizza su quei fattori che sostengono la salute e il benessere dell’essere umano, piuttosto che concentrarsi su quei fattori che sono cause di malattia, appunto la patogenesi.

Così la salutogenesi guarda al benessere mentre la patogenesi si focalizza sulla malattia.

Questo modo di pensare richiede naturalmente un cambiamento di mentalità di tutti quelli che vi sono coinvolti, in quanto iniziano a vedere le persone come le risorse di cui abbiamo bisogno affinché il benessere, la salute mentale sia incoraggiata o comunque sostenuta.

Ciò richiede un cambiamento della mentalità; prende in considerazione gli individui e le comunità in quanto entrambi sono co-produttori della salute e del benessere, piuttosto che essere recettori dei servizi, e potenzia o rafforza, di conseguenza, la capacità delle comunità di controllare e determinare anche il loro futuro. La capacità di prendersi la responsabilità, piuttosto che la dipendenza che i servizi, a volte, incoraggiano.


“La salute è un bene che può essere definito come quel fattore o risorsa che valorizza le abilità degli individui, dei gruppi, delle comunità e delle popolazioni, dei sistemi sociali e delle istituzioni, in modo tale da mantenere e sostenere la salute e il benessere e contribuire a ridurre le diseguaglianze e gli squilibri.” (Morgan e Ziglio, 2007)

La co-produzione è un aspetto del futuro dove c’è molta condivisione tra tutte le parti del sistema. I principi che sono alla base della co-produzione sono l’essere e l’appartenere. Quindi essere riconosciuto come individuo, ma anche avere il senso di appartenenza; orientarsi verso un approccio basato sulle risorse e quindi sul valore sociale e le risorse che sono disponibili; costruire, sulle competenze e le capacità che sono già esistenti, quindi usare le risorse, le capacità degli individui. La co-produzione dunque è basata sui valori che già sono conosciuti, non c’è da inventare niente di nuovo.

Si contrappone al modello della patogenesi che si focalizza molto sull’aspetto del deficit e della carenza.

Una parte essenziale della co-produzione è creare una rete di contatti cui tutta la città prende parte, non soltanto la comunità, con lo spirito di lavorare insieme, “con” le persone e non “sulle” persone. Quindi, nel caso specifico, della città abilitante di Slough, tutti i servizi sono basati sulle risorse che sono co-prodotte. Ci sono, per esempio delle connessioni tra HOPE, che è un’istituzione educativa, un college, THE CIRCLE WORKS (significa “lavorare, con le persone, in cerchio”), che prova ad abbattere l’idea dell’ “io e te”, per promuovere il “noi” dove tutti sono parte dello stesso cerchio, e questo crea co-produzione.

Nella città di Slough hanno inoltre sviluppato e aperto delle residenze, per esempio una HOPE House e una HOPE Place, che hanno 10 posti letto. E hanno creato anche degli appartamenti per quegli utenti che sono pronti a vivere più indipendentemente. Le persone che hanno avuto questi servizi, hanno precedenti penali o comunque hanno bisogni molto complessi. Fino ad adesso questo modo di approcciare i loro bisogni ha prodotto dei risultati molto positivi, che nessun altro servizio è riuscito ad ottenere.

EMBRACE è il programma terapeutico di gruppo. C’è anche un grosso numero di esperti per esperienza che erano utenti in precedenza e che co-facilitano workshop e training per i nuovi utenti. BRAVE è un programma per l’abuso o la violenza domestica.

Successivamente è stato attivato insieme il sito ENABLING TOWN SLOUGH, interessante da consultare su internet.


Il “paese abilitante di Slough”, che cos’è? È una pratica relazionale, della relazione e della connettività, però l’aspetto relazionale non è visto soltanto come l’aspetto terapeutico che viene attuato con il paziente o comunque con l’utente, bensì l’obiettivo da raggiungere (e che è stato raggiunto in un certo senso) è il modo in cui i vari settori si relazionano e comunicano tra di loro. Per esempio i servizi di salute mentale con i comuni, il settore del volontariato, le comunità e anche altri partner, altri gruppi che partecipano a questa esperienza. Quindi questa pratica relazionale è stata un modo per rompere e per superare gli ostacoli e cercare di “rompere il muro”, come dicevamo prima; cercare di creare dei servizi che prima di tutto fanno risparmiare moltissimi soldi, e aggiungono anche molto benessere e senso di valore delle comunità locali. È un modello sistemico che è fondato sulla formulazione clinica, sulle risorse, sulla co-produzione e sull’aspetto relazionale; si focalizza sulla guarigione ed il recupero e la consapevolezza dell’impatto del trauma e dell’aspetto psicosociale.


Essere Insieme per creare questa filosofia del servizio che viene co-prodotto e chiamato Stronger Together, quindi “più forti insieme”. C’è una citazione che riguarda questa modalità di lavoro: “Io non sono la mia diagnosi, invece guarda il mio stato di benessere”.

Questa filosofia dà molto valore al senso di appartenenza e al valore sociale di tutti coloro che ne sono coinvolti. Ha dato vita a una campagna contro la solitudine e l’isolamento che, appunto, sono fattori molto importanti nel creare disagio psichico e che si chiama NotAlone, quindi “non da solo”.


Con “Benvenuti al Futuro” si promuove veramente l’idea che la salute, sia mentale che fisica, è responsabilità di tutti, non soltanto di un individuo o di un servizio. Il coinvolgimento di tutti dà anche un senso di responsabilità e di appartenenza, aiuta a cambiare il senso, il modo di pensare rispetto alla salute mentale, che tante volte rende la persona incapace di prendere decisioni per la propria vita. Al contrario l’obiettivo è rendere la persona capace di prendere decisioni per sé e contribuire alla vita di tutti.


Lo stesso modello qui descritto è stato realizzato anche nella popolazione della parte Est della città di Berkshire di 432.000 abitanti. Le persone con cui si lavora di solito non rientrano o non soddisfano i parametri prestabiliti dai servizi generali o da un ospedale. Gli utenti sono persone che hanno già precedentemente provato o comunque partecipato a diversi trattamenti psicologici, che hanno avuto molte e ripetute ammissioni ospedaliere nell’arco di un anno. Sono pazienti comunque non psicotici. Spesso hanno diagnosi di disturbo di personalità. Hanno una storia di trauma complesso, alta comorbidità, doppia diagnosi e il rischio di suicidio è molto alto.

Il modello interpersonale del suicidio è stato sviluppato da Joiner, che è uno psicologo americano. È stato adottato nel progetto ASSiST adattato ai bisogni degli utenti. Questo prevede la consapevolezza e la percezione di un senso di oppressione che può portare all’idea del suicidio e di agirlo e all’assenza oppure perdita del senso di appartenenza.


Il modello interpersonale del suicidio, di Joiner ha dato vita al programma di trattamento che viene basato su questi tre aspetti che sono:

Adesso guardiamo al trattamento. Primo: costruire relazioni positive con facilitazione della connessione sociale e quindi la pratica relazionale come trattamento in se stesso; costruire relazioni tra individui. Secondo: il bisogno di avere un proposito, di avere uno scopo nella vita. E ASSiST ha creato questa possibilità per gli utenti, di avere un senso di appartenenza e di sapere che vale la pena di vivere. Cos’è che li ha aiutati? Li ha aiutati l’idea della co-produzione come trattamento, quindi fare le cose insieme e offrire quello di cui si è capaci, i valori, le capacità che sono innate e le risorse esistenti negli individui. Terzo: il programma centrato sui bisogni dell’individuo e i trattamenti psicosociali scelti sono basati sui dati già comprovati e su studi svolti. Quindi ci sono delle evidenze che dimostrano che questi hanno degli effetti positivi sugli utenti.

Il coinvolgimento iniziale e la valutazione dei bisogni prevede un certo percorso affinché l’utente venga olisticamente trattato e considerato.

Quindi innanzitutto c’è una divulgazione e anche una sensibilizzazione abbastanza forte di quello che è il lavoro svolto, e una buona promozione di questo programma.

Questo piano d’intervento naturalmente è basato sulla co-produzione, non soltanto dell’individuo e del personale, ma c’è anche una collaborazione con il medico di base, che è molto importante.

Il programma coinvolge anche sessioni con professionisti, o comunque con gli operatori. C’è un aspetto del programma che si occupa della regolazione delle emozioni e alla tolleranza del malessere; poi c’è un aspetto che guarda alla cura del sonno, alla gestione degli impulsi e così via.

La tecnica usata dagli operatori è l’intervista motivazionale.

Tutto ciò ha un orientamento verso il programma di gruppo; sono coinvolti anche gli esperti per esperienza che supportano gli utenti e tutte le altre strutture che sono parte di questo sistema, EMBRACE, RECOVERY College ecc. già menzionati prima.


Adesso parliamo un po’ della connessione sociale, che prevede la connessione di tutte le aree presenti nel paese di Slough, affinché questa comunità venga creata. La comunità terapeutica EMBRACE si basa sulle relazioni come trattamento, quindi le relazioni sono il trattamento in se stesso. Tutto ciò che avviene poi, facilita lo sviluppo di queste relazioni.

Il gruppo di EMBRACE è composto non soltanto da professionisti della salute mentale, ma da tutti quelli che partecipano.

Come si sviluppa questa connessione sociale? Ci sono quattro fasi che l’utente attraversa. Innanzitutto, tramite gli esperti per esperienza, l’individuo viene a contatto con la comunità quando ancora è in ospedale. Questi mentori vanno in ospedale e parlano, si presentano a questa persona e creano il primo legame.

Dopodiché, tramite i gruppi psicosociali di psicoeducazione, c’è una forte focalizzazione sullo sviluppo della resilienza, la capacità di recupero e la sostenibilità psicologica. Creare un senso di coesione che dura nel tempo e che dà senso di appartenenza e diventa quasi una passione, essere parte di qualcosa.

Tutto ciò è possibile, perché la pratica delle relazioni non è finalizzata solo alla comunità, bensì a tutta la città, come dicevamo prima, tutti i servizi, il settore del volontariato, del comune e così via.

Questo senso di appartenenza al gruppo e alla comunità favorisce il senso di essere parte della città, appunto, abilitante, com’è quella di Slough.


Per quanto riguarda la co-produzione come trattamento e come questo si basa sulle risorse esistenti, innanzitutto bisogna capire che cos’è, cosa significa co-produzione. Prima di tutto bisogna crederci, bisogna creare il campo dove mettiamo le basi, affinché questa co-produzione si possa sviluppare.

La co-produzione non è una cosa che viene fatta una volta per tutte. È un continuo lavorarci, creare e mantenere questo campo fertile, in un certo senso.

C’è una lista di tutte le parti che contribuiscono alla co-produzione, ma anche quello che la co-produzione poi crea: il senso di auto-iniziativa, il senso di efficacia, un incremento progressivo dei ruoli di responsabilità all’interno della comunità; lo sviluppo, il contributo che gli utenti possono dare nel diventare esperti per esperienza, e quindi assistere i nuovi utenti; il college recovery.

Abbiamo parlato della comunità più ampia, includendo il volontariato, le persone che sono impiegate, che hanno un lavoro, coloro che fanno training e così via; anche la possibilità, per gli utenti o comunque per altri servizi, di contribuire alla comunità tramite il volontariato, per poi tornare anche come personale retribuito.

Una difficoltà è data dal fatto che molte volte, in alcuni servizi, gli utenti hanno paura a lasciare, non vogliono andare via perché non sanno dove andare, non sanno cosa succederà, hanno paura che le cose tornino a essere negative per loro.

Nel sistema di Slough questo è stato un successo perché, appunto, l’utente può reintegrarsi, può sempre essere parte, in un modo diverso, però sempre essere parte di un sistema che non lo abbandona completamente.

Tabella 1
Tabella 1

Questa tabella mostra lo studio su 103 pazienti. Sono stati prese 5-6 categorie come riferimento: il numero di ammissioni all’ospedale, il numero di giorni passati in ospedale, il costo dei giorni trascorsi in ospedale, l’uso del Team della crisi (Crisis Team) e l’uso del Pronto Soccorso.

Quindi, come si vede nella seconda colonna, nei 12 mesi prima della partecipazione al programma ASSiST c’erano 173 ammissioni contro le 15 dopo 12 mesi dalla partecipazione al programma ASSiST.

Se scendiamo alla riga successiva, il numero di giorni di ricovero da 4786 sono diminuiti a 312; il costo addirittura è diventato 1/10 di quello che era prima del progetto; anche l’uso dei servizi di emergenza ha registrato una diminuzione significativa e, per esempio, l’ultimo (del Pronto Soccorso) da 203 è sceso a 37. Quindi è un risultato molto significativo.

Tabella 2
Tabella 2

C’è stata anche una importante riduzione dei costi economici, soldi risparmiati o non spesi, nel primo anno dall’introduzione del progetto ASSiST: più di 1 milione di sterline di risparmio, quindi una cosa veramente interessante soltanto in un anno.

Tabella 3
Tabella 3

Non soltanto l’aspetto economico, finanziario, è importante, ma è importante valutare anche quanto le persone stanno meglio, quanto si sentono meglio. È stato utilizzato un test psicometrico (CORE) che è sulla percezione del rischio su se stessi. Come si vede, all’inizio della loro partecipazione ad ASSiST il valore era 0.61; alla fine dei 12 mesi era 0.29. L’altro è il valore medio: si registra anche qui una notevole differenza.

Tabella 4
Tabella 4

Anche questo, HoNOS, che compara in questo caso i risultati all’inizio e alla fine del trattamento in questo senso. Come si può notare, tutti i 103 pazienti riportano un miglioramento.


Quello che vi stiamo presentando è una nuova forma di comunità terapeutica, dove c’è più coinvolgimento di coloro che vi partecipano; sono anche capaci di avere momenti divertenti insieme, non è soltanto una cosa triste. C’è più flessibilità rispetto all’adattamento, ai cambiamenti costanti che la comunità e anche la società intorno a loro comporta.

Questo modello permette di usare molto di più la co-creazione di quella che è la comunità terapeutica. Guarda al potere e alle relazioni in modo diverso; crea un maggior senso di appartenenza, di coesione, cioè un senso di continuità, che non finisce quando l’utente lascia la comunità; un uso innovativo delle risorse comunitarie, un’integrazione relazionale su tutto il territorio. C’è una citazione, dice “una volta che sei ospite, sei sempre un membro della comunità”; promuovere l’idea che la salute è un movimento sociale.


Adesso vogliamo approfondire l’idea di Rex Haigh secondo cui il modello della comunità di Slough può essere allargata anche ad altri paesi, magari guarderemo un po’ all’Italia per esempio attraverso il Visiting e con altri progetti.


Il modello democratico britannico può essere brevemente riassunto sottolineando ciò che non è. È un modello non biomedico quindi non è basato su diagnosi, farmaci e così via.

Ha una struttura gerarchica appiattita; è un’esperienza di Living and Learning, cioè di apprendimento vivendo l’esperienza. Il trattamento include anche momenti più informali, di gioco, di divertimento, nel trascorrere il tempo insieme. Promuove una cultura dell’indagine, dove tutto può essere messo in discussione. Naturalmente prevede anche la condivisione del processo decisionale, quindi c’è il voto, che è previsto per qualsiasi cambiamento, qualsiasi cosa che la comunità deve fare.

Poi c’è l’aspetto della responsabilità rispetto alle regole, ai limiti, condividere i pasti insieme, decidere che cosa si cucina, come vanno gestiti i soldi e così via. La terapia è prevista come un aspetto paritario dove i terapeuti non sono coloro che danno le risposte, bensì si coinvolgono in un dialogo con il paziente. Non viene svolta terapia individuale e tutto viene fatto in gruppo.

Le comunità terapeutiche adesso in Inghilterra non sono più residenziali. Così la vita di tutti i giorni è parte integrante dell’esperienza terapeutica, quindi tutto viene preso in considerazione.


Come si sono sviluppate negli ultimi 50 anni le comunità terapeutiche in Inghilterra? All’inizio erano residenziali, cioè i pazienti vivevano all’interno delle residenze. Adesso queste non esistono più, a parte l’ospedale di Cassel che è l’unico ospedale residenziale ancora attivo.

Dal 1990 circa si è sviluppato il formato tradizionale, diciamo, della comunità terapeutica aperta 5 giorni alla settimana. Le chiamano comunità terapeutiche a tempo pieno e sono aperte dal lunedì al venerdì dalle 9,30 alle 15,30 e si svolge un certo programma. Però purtroppo, a causa della crisi finanziaria e delle restrizioni economiche, il programma è stato ridotto a 3 giorni alla settimana, dove 2 giorni alla settimana il personale deve fare altre attività e i pazienti si recano lì 3 volte la settimana soltanto.

Successivamente c’è stata un’ulteriore riduzione, che si chiama “comunità terapeutica a 1 giorno alla settimana”, dove tutti si incontrano insieme e i pazienti s’incontrano tra loro successivamente un’altra volta, per un gruppo alla settimana. Questa viene chiamata “Mini Comunità Terapeutica”.

Infine c’è l’ultima variante che prevede 2 ore e mezza la settimana e questa viene chiamata la “Micro Comunità Terapeutica”, quella di Slough, appunto. E questo è l’unico momento in cui le persone, i pazienti si incontrano con gli operatori.


Rex Haigh chiama questa “Micro Comunità Terapeutica”, mentre Geoff Dennis la chiama “Macro” perché, appunto, è tutto un paese che si connette, anche se s’incontrano insieme soltanto per 2 ore e mezza la settimana.


Com’è stato possibile quindi creare questa comunità terapeutica dell’intera città? È stato possibile usando i principi e i metodi della comunità terapeutica al di fuori della comunità terapeutica stessa, nella tradizione di quello che Basaglia e la sua équipe di Gorizia cercavano di fare negli anni Settanta; quello che Maxwell Jones ha proposto in Scozia e poi anche di persone come Alberto Fergusson che, in Sopo (Bogotà), ha creato un paese abilitante. Slough è un esempio di questo nuovo modo di fare comunità.


Nella creazione della città di Slough, cioè di quest’idea della comunità di Slough, sono stati presi in considerazione due filoni delle teorie della Comunità Terapeutica: una, quella americana di George De Leon, che si focalizza soprattutto sulle dipendenze e con cui Geoff Dennis ha anche collaborato; l’altra teoria è quella descritta nel libro sulle Comunità Terapeutiche Democratiche, di Steve Pearce e Rex Haigh.


Un altro aspetto importante che i colleghi inglesi hanno preso in considerazione è quello dell’ambiente, la Green Care. Rex Haigh era parte di un gruppo, EU COST, che è una cooperazione europea della scienza e della tecnologia. Ne era parte circa 10 anni fa. Rex descrive come la natura in se stessa molto importante per gli individui e il benessere.


Grande attenzione viene data anche alla valutazione dei processi di queste comunità terapeutiche. Si fa riferimento, a tale scopo, alle Communities e anche ai progetti “Visiting Project” di valutazione tra pari, attivi anche in Italia e in Australia, basati sull’idea appunto, di visitare le comunità a vicenda e imparare dalle pratiche degli altri.

Quello degli ambienti abilitanti è un progetto, che si basa sulla qualità delle relazioni come elemento fondamentale del trattamento. Però questo aspetto può essere applicato a tutti i tipi di servizi. E quando Rex parla della ‘comunità terapeutica nella testa’, ‘nella mente’, intende che non è una comunità terapeutica vera e propria, bensì è un servizio che basa le proprie pratiche sulla relazione, senza essere una comunità terapeutica residenziale.

Questi sono i valori e i principi su cui si basa il progetto degli ambienti abilitanti: il senso di appartenenza; i limiti; la comunicazione tra gli individui; come le opportunità si sviluppano, la spontaneità; il coinvolgimento attivo di ognuno; l’aspetto della sicurezza, del sentirsi sicuro; la struttura, quindi la partecipazione e avere un senso di propositività nel partecipare, nel volerlo fare; la responsabilizzazione, quindi l’aspetto del potere e dell’autorità, sono aperti al dialogo; l’aspetto della leadership; infine un atteggiamento aperto tra le persone e nei rapporti umani.


Il “Living-Learning Experience”, è un’esperienza molto importante per i partecipanti per capire com’è vivere nella comunità terapeutica, per provarlo in prima persona. Rex Haigh ne ha fatte tantissime, è da circa che 20 anni che organizza queste esperienze formative, molte delle quali anche in Italia.


Non parliamo dell’aspetto locale, di cui abbiamo già parlato, però globalmente le cose stanno cambiando, per esempio con l’Open Dialogue, con la nuova classificazione dei disturbi mentali; anche con i movimenti associativi internazionali per il ritiro dei farmaci, in particolare un’associazione psichiatrica che promuove la salute mentale senza l’uso dei farmaci.

Quello di cui abbiamo parlato fino adesso si rifà ad un modello inventato tanti anni fa, circa 70 anni fa, quando l’Organizzazione Mondiale della Salute, nel 1953, appunto, ha pubblicato questo resoconto.

Dice così: “Il singolo fattore più importante, nell’efficacia del trattamento ospedaliero, appare alla nostra Commissione come un elemento intangibile, che può essere descritto solamente come la sua atmosfera. Quindi prima di cercare di descrivere ciò che influenza e va a creare questa atmosfera, dobbiamo dire che più l’ospedale psichiatrico cerca di imitare l’ospedale generale – come avviene attualmente – minore sarà il suo successo a creare l’atmosfera di cui ha proprio bisogno. Troppi ospedali psichiatrici danno l’impressione di essere un facile compromesso tra un ospedale generale e una prigione, mentre infatti il ruolo che hanno è diverso da entrambi, è quello della comunità terapeutica”.

Riassumono quelli che sono i punti della comunità terapeutica: la conversazione, l’individualità, il comportamento e così via.


Però ci sono ancora molti problemi e criticità, nonostante ne parliamo e nonostante i progressi fatti.

In un resoconto indicato dalle Nazioni Unite nel 2017 si dice: “gli interventi dei servizi sulla salute mentale sono in crisi, ma non una crisi di sbilanciamenti chimici, bensì uno sbilanciamento di potere. C’è bisogno di un impegno coraggioso, risposte politiche urgenti e di azioni immediate. C’è bisogno di qualcosa non lontano da una rivoluzione all’interno dell’assistenza, della salute mentale, affinché si possa porre fine a decenni di noncuranza, abuso e violenza”.

È ancora triste la situazione.


Ma che cos’è questo filo d’oro che passa attraverso tutto? La chiamiamo la “pratica relazionale” e una “salute mentale democratica”. Significa rendere prioritarie le relazioni umane con la compassione, invece che dare la priorità ai sistemi e alle esigenze organizzative del sistema economico.

Ce ne sono molte altre di organizzazioni che stanno lavorando sulla stessa causa. Quindi c’è un mondo che esiste, dove le priorità sono diverse.

Siamo grati ai colleghi inglesi perché hanno una capacità di sistematizzare le esperienze che molto serve, per esempio, nel nostro territorio. E ciò ha delle assonanze, delle similitudini con quella che è la realtà che si sta sviluppando nel territorio italiano, per esempio in Sicilia a Caltagirone già da alcuni anni e più di recente si sta introducendo ad Agrigento; lo sforzo di Raffaele Barone e del suo gruppo di lavoro, ma anche di chi nelle comunità terapeutiche residenziali lavora; la fatica e la possibilità di mettere insieme, di integrare l’approccio della Comunità Terapeutica Democratica con l’Open Dialogue, con i Gruppi di Psicoanalisi multifamiliare, con l’inclusione socio-lavorativa. A livello nazionale si sta sviluppando una rete di otto servizi di salute mentale pubblici basata su una visione della salute mentale molto vicina alla realtà narrata dai colleghi inglesi. In particolare lo scambio costante con Giuseppe Cardamone, direttore di dipartimento a Prato, e con il suo gruppo di lavoro.

Quando si riesce a realizzare questo sforzo di integrazione si crea benessere, non solo nei pazienti, ma anche in chi nel campo della salute mentale ci lavora. Il libro di Raffaele Barone ‘Benessere mentale di comunità’ racconta questo sforzo che è molto vicino ed evidentemente coglie un bisogno, trasversale ai territori, di rivoluzionare la dimensione epistemologica, passare da un’idea di centratura sulla patologia al guardare alla sofferenza; dal malessere al benessere; dal blocco e dall’inibizione, alle possibilità; al considerare il paziente e l’operatore soprattutto come persone al di là del ruolo; e l’operatore mette a disposizione la sua esperienza professionale non come tecnico, ma come “esperto nel non essere esperto”. I contenuti di questo libro sono collegati a quelli esposti da Rex Haigh e Steve Pearce nel volume “The theory and practice of Democratic Therapeutic Community Treatment”, del quale ci auspichiamo al più presto una traduzione in italiano. Così come ai concetti espressi nel libro “Green Care. Un contributo dalle comunità terapeutiche” curato dalla rete internazionale delle comunità terapeutiche democratiche INDTC.

È possibile sviluppare questi valori e queste pratiche, dove ci si può rendere conto che è la qualità della relazione ad essere centrale e quali setting costruiamo, nei diversi ambienti; quali setting possiamo costruire avendo la Comunità Terapeutica Democratica nella mente, e potendola portare in tutti i luoghi: nella comunità come struttura, nel Servizio di Salute Mentale, ma anche negli altri luoghi della città; come la città possa veramente diventare un setting, un ambiente terapeutico.

I contributi di Geoff e Rex sono fondamentali. Nessuno si salva da solo e la sofferenza mentale non è un fattore che riguarda solo la persona che la esprime o la famiglia che è coinvolta, ma è qualcosa che riguarda tutta la comunità. E questo lo stiamo vedendo anche in questo tempo di pandemia, che ci sta insegnando – se vogliamo cogliere questa cosa – che siamo tutti interdipendenti. E se questa cosa non la guardiamo, non ci prendiamo la responsabilità anche di quello che riguarda il pezzo dell’altro, oltre che il proprio, diventa tutto più complicato.


Va sottolineata la necessità di pensare alle nostre comunità – e la pandemia ce lo fa vedere – le nostre comunità devono riorganizzarsi in termini di trovare dentro di sé le soluzioni per vivere bene. E il Covid-19 ce lo sta dimostrando: se non abbiamo una comunità, se le nostre città non sono organizzate per preservare la salute comunitaria, a rischio c’è la vita. La positività di questo approccio è poter pensare al contributo che possiamo dare noi alla società e alla collettività.

Inoltre colpisce che questi approcci costano molto meno. Dovremmo essere bravi a far comprendere anche ai nostri amministratori e ai nostri colleghi che non solo costano molto meno, ma ci si diverte molto di più. Sono meno pesanti.

Infine è importante pensare che ogni persona che arriva al servizio, ogni famiglia, è una risorsa. Solitamente quante più persone arrivano più ci stanchiamo. E invece pensare che ogni persona che arriva al servizio è una risorsa, una risorsa possibile per promuovere il benessere mentale collettivo. Questa sembra la risposta possibile alla crisi attuale della psichiatria, una modalità portatrice di speranza, di coinvolgimento e partecipazione, di benessere per tutte le persone coinvolte e rispetto alla quale ci auspichiamo che la politica, a livello locale e nazionale, possa comprendere e sostenere il valore del benessere mentale di comunità con adeguati finanziamenti utili a sviluppare il welfare di tutta la comunità globale.


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