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EDITORIALE - Etica e complessità: una sfida per i Servizi pubblici di salute mentale

Autori


Nostro intento, in questo numero della rivista, è sottolineare, attraverso gli articoli proposti, la necessità di un sistema pubblico per poter generare benessere e salute mentale e rimarcare le pratiche “etiche” disseminate nei nostri Servizi, improntate alla cura (intesa come premura e presa a cuore) delle persone, delle relazioni dei contesti in modo sistemico, multidisciplinare e multiprofessionale e mantenendo la prospettiva della deistituzionalizzazione, dei principi di inclusione e dei diritti sociali e di cittadinanza.

In questo momento storico i servizi pubblici di salute mentale sono in grande difficoltà in relazione alla crisi economica ed alla contrazione di risorse, alla non sostenibilità degli attuali modelli organizzativi, alla insufficienza di teorie e prassi capaci di accogliere e lavorare le profonde e rapide trasformazioni sociali, antropologiche e culturali in atto.

I Servizi Pubblici hanno innanzitutto necessità di essere rafforzati, soprattutto in termini di risorse di personale, ma hanno anche necessità di essere ripensati, rimodulati e riorganizzati in modo da preservare da un lato l’eredità, di inestimabile valore, della storia italiana di deistituzionalizzazione, e dall’altro in modo da poter affrontare le attuali ed inedite sfide.

Pensiamo che prospettiva sistemica e logica della complessità vadano sostenute contro visioni lineari e semplificanti a partire dal linguaggio utilizzato, dagli spazi e dalle architetture dei servizi, ma soprattutto attraverso connessioni e contaminazioni consapevoli della ricchezza insita in ogni diversità e dell’appartenenza ad una comune umanità.

Non si può negare che la situazione dei Servizi sia profondamente segnata da una progressiva perdita di senso, ciononostante riteniamo decisivo tenere al centro della nostra riflessione le buone pratiche e tutte quelle esperienze che possono esserci utili per sostenere e rigenerare il Servizio Pubblico di Salute mentale.

Certamente la riuscita non è assicurata ma riteniamo che affrontare in questo modo il momento storico che stiamo vivendo corrisponda ad un’istanza etica rispetto alla quale non possiamo sottrarci.


Paola Daniela Turilli, Cristina Sorio Maria e Paola Carozza affrontano in modo molto articolato il difficile tema del trattamento psicosociale rivolto a persone con comorbidità psichiatrica e uso di sostanze, nelle strutture residenziali psichiatriche. In particolare sottolineano la necessità di evitare percorsi residenziali che alimentano dipendenza istituzionale e meccanismi di delega, dove le persone sono sistematicamente “etrodirette”, con penalizzazione di ogni autonoma capacità di problem solving; in contesti di questo tipo si realizzano infatti nuovi fenomeni di istituzionalizzazione, dove si amplificano “stigma interno” e processi di separazione dalla famiglia e dalla comunità.

Al contrario, il concetto di “struttura capace di collocare, tenere, proteggere, difendere” deve essere sostituito da quello di “servizi capaci di offrire un trattamento intensivo riabilitativo” ai pazienti che non riescono a svolgere le attività e ad organizzare la propria vita quotidiana senza un supporto intensivo. Si definisce così un setting psicosociale evidence-based orientato alla recovery, dove obiettivo del trattamento diventa l'apprendimento di abilità finalizzato a riacquisire un efficace ruolo sociale nella propria comunità di appartenenza, attraverso programmi orientati fin dall’inizio, concretamente, all’esterno e all’inclusione sociale.

Gli autori indicano quindi le specificità dell’intervento residenziale per le persone con comorbidità psichiatrica e uso di sostanze, descrivendo tra l’altro: - le strategie generiche per la costruzione di una valida partnership tra persona e operatori e per lo sviluppo della motivazione; -le strategie specifiche per la costruzione di un rapporto di fiducia, all’interno di precise regole; -i trattamenti residenziali evidence-based appropriati per queste specifiche problematiche.


Raffaele Barone e Angela Volpe propongono una rielaborazione dei contributi presentati da Rex Haigh, Laura Liverotti, Geoff Dennis e Natasha Berthollier, al convegno “La frattura dei legami psicosociali”, organizzato a dicembre 2021 dall’MDSM calatino 1 in collaborazione con la rete internazionale delle comunità terapeutiche INDTC.

Gli autori ripercorrono l’esperienza inglese della comunità Embrace nella città di Slough Town, una città di 164.000 abitanti, vicino Londra, che presenta vari livelli di complessità (una popolazione interetnica dove si parlano oltre cento lingue, un alto livello di povertà e disoccupazione). In questo contesto è stato realizzato un modello di comunità terapeutica applicata alla comunità locale, che si basa sulla co-creazione e co-produzione attuata da tutti i protagonisti, sui concetti di salutogenesi, senso di appartenenza, comunità abilitante e su una costante connessione con tutte le agenzie sociali.

Gli autori quindi, a partire dall’esperienza inglese, evidenziano il processo in atto da alcuni anni nel territorio italiano, centrato su una nuova vision dei servizi di salute mentale e sulla necessità di rispondere ai bisogni complessi di benessere mentale di comunità. Evidenziano inoltre come l’esperienza della pandemia abbia fatto emergere ancor più la stretta interdipendenza tra salute dell’individuo e salute della comunità e la necessità quindi di interventi di benessere mentale di comunità. In questo contesto sono essenziali percorsi fondati sulle prassi democratiche e dialogiche, dove venga privilegiata un’attiva e responsabile partecipazione ai processi di cura da parte di utenti, famiglie e operatori, e dove sia alimentata reciproca fiducia e speranza, per promuovere resilienza e recovery.

L’esperienza inglese ci propone la sfida di superare la dimensione residenziale della comunità terapeutica intesa come struttura, realizzando piuttosto un approccio centrato sulla rete di relazioni tra dipartimenti di salute mentale, cittadini, famiglie, utenti, comunità locale, ovvero un approccio che produce benessere e salute per l’intera comunità.


Luca Amoroso, Beatrice Caiulo, Matteo Galanti, Matilde Ardito e Laura Belloni propongono una riflessione sui percorsi territoriali dei pazienti psichiatrici autori di reato, osservando come di fatto la legge 81/2014, che ha sancito la chiusura degli OPG, abbia implicato importanti cambiamenti nella prassi operativa dei Servizi, ma anche un cambiamento culturale che coinvolge diverse istituzioni e diversi professionisti (operatori sanitari, magistrati, periti, personale dei Servizi Sociali, amministrazione penitenziaria).

In questo contesto, gli autori riportano le opinioni dei professionisti dei Servizi raccolte a distanza di alcuni anni dall’entrata in vigore della legge, dal Centro Regionale sulle Criticità Relazionali (CRCR), struttura di coordinamento regionale sui temi della salute e della qualità delle relazioni nelle reti dedicate alla cura.

Il CRCR ha realizzato, dopo la Legge 81/2014, inizialmente cicli di colloqui/interviste rivolti a figure chiave coinvolte nei percorsi; successivamente focus-group per i professionisti della Salute Mentale e dei Servizi Sociali; percorsi di accompagnamento e formazione relativi alle REMS aperte nella Regione ed attività di supporto ad altre strutture del SerD e dei Servizi di Salute Mentale.

Gli autori propongono quindi un follow-up condotto a distanza di alcuni anni dall’inizio di tali percorsi, per rilevare quali siano le principali difficoltà affrontate dai professionisti. Tra le criticità rilevate in particolare emerge la difficoltà di mantenere distinzione tra ruoli dell’Amministrazione Penitenziaria e ruoli degli operatori sanitari e la tendenza a considerare sistematicamente aggressività e violenza come un problema di salute mentale, sottovalutando la genesi complessa di tali comportamenti. Ulteriori criticità possono essere rilevate: -nei rapporti con la Magistratura e con i Periti; -nella difficoltà di agire una misura di sicurezza anche in strutture che di per sé non sono state pensate per funzioni di controllo e contenimento; -nelle difficoltà di collegamenti nelle reti intra ed extra sanitarie; nella complessità di alcune definizioni psicopatologiche e diagnostiche; nella carenza di strutture (insufficiente disponibilità di posti letto presso le REMS o presso le Strutture Intermedie territoriali) e di risorse disponibili, in un’epoca di marcata depauperazione dei Servizi.


Simone Marino osserva che in Australia molte persone affette da demenza hanno background culturali e linguistici diversi, poiché di fatto una persona su tre di età superiore ai 65 anni è nata all'estero; in particolare i migranti italiani sono uno dei più grandi gruppi di anziani in Australia. In questa cornice, l’autore sottolinea che in letteratura si rileva come nei paesi di lingua inglese, i migranti siano a maggior rischio di demenza per varie motivazioni, tra cui l’isolamento sociale, la scarsa padronanza della lingua inglese, la difficile integrazione e la lontananza dal luogo di origine con regressione, in situazioni di declino cognitivo, alla lingua madre e al passato culturale. In questo contesto emerge a necessità di un’appropriata comprensione della cultura di origine e conseguente riconoscimento delle differenze.

L’autore, facendo quindi riferimento all’antropologia culturale, esplora il tema della migrazione e della etnomusicologia in relazione a invecchiamento, demenza e benessere, per soggetti provenienti da contesti migratori, mediante un progetto pilota condotto ad Adelaide, nell'Australia meridionale, dove obiettivo è rilevare se la musica e la lingua (lingua madre) possano svolgere un ruolo nel migliorare la qualità della vita degli ospiti. In particolare nello studio proposto, si osserva che la produzione di canzoni composte e cantate nella lingua madre dei partecipanti, con testi adattati al soggetto mediante il metodo “comusichiamo” (neologismo che tiene insieme i concetti di comunicare e musicare), può migliorare il benessere delle persone affette da demenza, provenienti da ambienti migranti.


Andrea Baroncelli e Giulio D’Anna propongono una riflessione sul tema della formazione specialistica in psichiatrica, sottolineando come il decreto ministeriale che ha recentemente incrementato il numero degli specializzandi, abbia determinato anche una necessaria estensione della rete formativa ai Servizi, oltre che alle Cliniche Universitarie. In questo contesto è stata definita inoltre una maggiore trasparenza nell’accreditamento delle Scuole di specializzazione in relazione al conseguimento degli obiettivi formativi, seppure con margini di discrezionalità per ciascun Ateneo.

Gli autori evidenziano come la Scuola di Specializzazione in Psichiatria di Firenze già da qualche anno preveda l’obbligo per lo specializzando di frequentare i Servizi territoriali e sottolineano i punti di forza di tale esperienza tra cui: a)acquisire competenze sul campo per lavorare in equipe multiprofessionali e sviluppare rapporti con la comunità; b)offrire opportunità di ricerca nell’ambito della real-world practice, favorendo tra l’altro una riflessione che valorizzi i numerosi dati disponibili nei Servizi, per tradurli in una conoscenza non “aneddotica”, ma bensì spendibile in un ambito scientifico evidence-based.


Piera Strano, Francesco Baccetti, Margherita Papa ed Edvige Facchi propongono una riflessione sul tema della disforia di genere, sottolineando la necessità di divulgare nei diversi contesti sanitari l’importanza di de-patologizzare e normalizzare un modo di essere e di percepirsi in linea con il proprio sentire, per prevenire problemi di salute mentale. Gli autori considerano quindi un progetto pilota della ASL Toscana sud est, che propone un intervento sperimentale finalizzato ad esplorare le tematiche relative alla disforia di genere ed a promuovere il miglioramento della qualità̀ di vita delle persone LGBTQ +. In particolare gli autori propongono, nella cornice teorica della Schema Therapy, la realizzazione di interventi di gruppo inerenti l’incongruenza di genere, e la creazione di una rete professionale con il centro regionale di riferimento (CRIG - Centro di coordinamento Regionale per le problematiche relative all'Identità di Genere).


Miriam Gualtieri propone una dissertazione sulla normalità/stigma/diversità, sottolineando come di fatto la nostra modalità di osservare l’altro, sia orientata dalle categorie ed esperienze frutto dalla cultura nella quale siamo immersi e come ciascun uomo, ogni giorno, diventi un “particolare tipo di uomo”, in funzione del lavoro di “plasmazione” prodotto dalla cultura. Tale processo rende ogni uomo un individuo che appartiene ad una specifica cultura, ma anche un individuo radicalmente unico entro la sua cultura.

Normalizzare presuppone agire un processo di “correzione di ciò che è deviato”, dove in ogni società, l’anormalità viene intesa come elemento che contrasta il processo di costruzione e ordinamento della cultura. Per altro il giudizio di normalità varia da contesto a contesto, da cultura a cultura ed è legato al periodo storico. La soglia tra normalità e anormalità è diversa per ogni società e determina il grado di tolleranza verso le deviazioni. In questo contesto, in relazione a stereotipi e pregiudizi, si produce lo stigma, che infine può arrivare a deformare l’identità sociale del soggetto, poiché il soggetto stigmatizzato spesso interiorizza il punto di vista (discriminatorio) degli altri.

Sottolinea infine l’autrice che un paradigma alternativo della diversità è quello ad esempio della “neurodiversità”, promosso nel contesto dello spettro autistico, che considera le differenze come “aspetti universali della variabilità degli esseri umani” e la disabilità come derivante da un’interazione disfunzionale con l’ambiente.


Giuseppe Cardamone, Felicia Di Francisca, Francesco Raimondi, Alessandra Fini, Caterina Barbani, Agnese Ciberti, Carlo Battaglia, Vania Barbieri, Michela Picchetti e Sergio Zorzetto propongono una riflessione sulla salute mentale in epoca di pandemia, facendo riferimento in particolare al servizio di Prato.

Gli autori osservano come di fatto la crisi pandemica abbia evidenziato quanto sia stata fondamentale la collaborazione fra Stati, Istituzioni e ricercatori capaci di coinvolgere le comunità locali e virtuali nella lotta alla pandemia; una collaborazione però spesso limitata da interessi geopolitici o economico-commerciali ed anche da atteggiamenti improduttivi di sospettosità e bellicosità verso l’alterità (altri popoli, migranti).

Per contro, gli autori sottolineano la necessità di una politica basata sulla costruzione di alleanze, una politica territoriale e decentrata, che attraverso il coordinamento di intenti e di azioni per un fine comune, sia capace di contrastare la pandemia e promuovere la salute collettiva. In questo senso gli autori sottolineano come sia fondamentale passare da una reazione bellicosa ad una strategia politica di risposta al SARS-CoV-2, modificando anche il registro emotivo e la strategia comunicativa adottati a livello sociale.

Nello specifico del Servizio di salute mentale di Prato, gli autori descrivono poi una serie di azioni finalizzate a perseguire alcuni obiettivi quali: -assicurare la continuità terapeutica; -garantire la salute degli operatori e delle persone che accedono al Servizio; -contribuire alla tenuta complessiva del Sistema Sanitario locale; -rispondere alle esigenze di salute mentale correlate alla pandemia.


Giulio D’Anna e Giuseppe Cardamone offrono una riflessione sugli antipsicotici long-acting (LAI) di seconda generazione che, inizialmente usati per gestire le problematiche correlate all’aderenza terapeutica nei pazienti con lunga storia di malattia, sono oggi sempre più utilizzati anche in situazioni di recente esordio ed in generale nella terapia di mantenimento dei disturbi dello spettro schizofrenico, con l’obiettivo di ottimizzare le cure e promuovere recovery. In particolare gli autori sottolineano come più spesso il consenso al trattamento sia negato per la presenza di effetti collaterali, piuttosto che per una carente efficacia del trattamento stesso e come base della compliance per qualsiasi trattamento in salute mentale, sia una buona relazione terapeutica. In questo contesto, in ottica di recovery, è essenziale operare una costante condivisione delle scelte di trattamento (shared decision-making) mediante un rapporto sistematico con gli operatori. D’altro lato, sostengono gli autori, con la somministrazione dei LAI, si liberano risorse da destinare ad interventi non farmacologici multiprofessionali.


Augusto Iossa Fasano ci propone la trascrizione del dialogo effettuato con Sergio Piro nell’estate del 1995 nella casa di quest’ultimo a Santa Lucia, Napoli; due anni prima, era stato pubblicato “Antropologia trasformazionale” di Sergio Piro, per FrancoAngeli.

Il dialogo tra Sergio Piro e Augusto Iossa Fasano appare di particolare attualità e si rivolge al fenomenologo, allo psicoanalista e più in generale all’operatore della salute mentale contemporaneo, affrontando tematiche complesse relative alla formazione ed alla cura, ma anche relative alle radici di eventi tragici di dimensioni geo-politiche, come le guerre e i genocidi. In particolare Sergio Piro considera la guerra come una grande crisi della collettività umana, cui poi il singolo si lega ineluttabilmente; in questo contesto le guerre (nelle quali sono straordinariamente accelerati tutti i mutamenti), le rivoluzioni e le carestie scandiscono la storia dell'umanità, per il loro carattere di drammaticità deterministica e ineluttabile, coinvolgente il singolo e i gruppi.

In un ulteriore passaggio di questo dialogo, si sottolinea come il divenire umano sia necessariamente migrazione, miscuglio, insieme di traiettorie incrociate: mescolanza necessaria per la stessa sopravvivenza della specie umana.


Mauro Camuffo propone una breve riflessione sull’universo dei ragazzini, penalizzato dalle restrizioni in epoca di pandemia. L’autore parte da una citazione del maestro Alberto Manzi - che più di trenta anni fa sottolineava come per i ragazzi, il miglior giocattolo in assoluto, fossero gli spazi aperti senza sovrastrutture e le strade libere -, e da una citazione di Giovanni Bollea che sottolineava l’importanza di disporre di spazi sicuri per giocare, ampli e recintati tra i palazzi, come un tempo erano i cortili. In questo contesto si sottolinea come le esigenze dei ragazzini (soprattutto tra i 6 e i 13 anni), già poco considerate prima del Covid, siano state del tutto “dimenticate” durante la pandemia. In particolare con le varie restrizioni, i ragazzini sono stati privati della possibilità di stare assieme, mentre è ormai evidenza scientifica che in questa fascia di età, le competenze relazionali e sociali possono adeguatamente svilupparsi solo all’interno del gruppo, e che il gioco nello spazio libero è essenziale per lo sviluppo cognitivo. L’autore propone quindi la creazione di spazi aperti sicuri, per una “città a misura di ragazzini”.


Giuseppe Corlito assieme ad altri colleghi e operatori propone la Dichiarazione di Intenti di un Gruppo di studio e di ricerca per il Superamento del concetto di dipendenza.

Si sottolinea in particolare come relativamente all’uso di sostanze e più generale alle condotte additive, sia in corso di un cambio di paradigma, ovvero si affermi il concetto trans-nosografico di continuum tra condotte patologiche e comportamenti normali, sostenuto anche da evidenze neuroscientifiche. Tale cambio di paradigma deve necessariamente tradursi, attraverso lo studio delle evidenze disponibili e attraverso azioni di ricerca, in un processo di riorganizzazione dei Servizi territoriali.


Infine Luca Negrogno, a partire da un suo intervento alla giornata di apertura della Settimana della Salute Mentale di Modena del 2021, propone una breve riflessione in vista del World Summit sulla salute mentale di ottobre 2022. In particolare l’autore sottolinea come “non vi sia salute mentale senza salute pubblica”, intesa come forma di azione riconoscibile in termini di processi, spazi ed esiti. Relativamente al “processo” è essenziale una reale partecipazione della comunità alla lettura ed analisi dei problemi sanitari e della componente sociale ad essi correlata; in termini di “spazi”, l’autore sottolinea come questa partecipazione alla definizione dei bisogni e alla programmazione degli interventi, crei uno spazio politico inedito dove è possibile mettere in discussione l'organizzazione sociale complessiva; infine, in termini di “esiti”, una “salute pubblica” dovrebbe porsi l’obiettivo di ridurre le disuguaglianze sociali esistenti.