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Antipsicotici long-acting e psicosi croniche: il passaggio da un approccio farmaco-centrico a quello di “cornice terapeutica”

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Ricevuto il 03/07/2022 – Accettato il 03/08/2022



Riassunto

I farmaci antipsicotici long-acting injectable (LAI) hanno acquisito crescente spazio nella terapia farmacologica di mantenimento dei disturbi dello spettro della schizofrenia. Nati per risolvere problemi di aderenza in pazienti con lunga storia di malattia, oggi sono al centro di una pratica clinica orientata alla recovery e all’ottimizzazione delle cure. In questo contesto, la somministrazione periodica a cura dei sanitari e la chiarificazione del rapporto tra compliance e risposta clinica costituiscono proprietà emergenti del trattamento, tali da influenzarne l’esito anche mediante fattori relazionali e aspecifici. Ciò configura una “cornice terapeutica” per gli interventi multiprofessionali.


Abstract

Long-acting injectable (LAI) antipsychotics are a current backbone of the pharmacological maintenance treatment of schizophrenia spectrum disorders. Initially developed to target non-adherence in patients with a long history of illness, they are now prescribed in a recovery-oriented therapy optimisation. In this regard, the periodical administration and the clear relationship between compliance and clinical response can be seen as emerging properties of the treatment. This may positively influence therapeutic outcomes through relational and non-specific factors which function as a framework for multi-professional interventions.


Negli ultimi anni, gli antipsicotici long-acting (LAI) di seconda generazione hanno acquisito uno spazio crescente nella terapia di mantenimento dei disturbi dello spettro della schizofrenia (Brissos et al., 2014). Attraverso la somministrazione periodica di un principio attivo antipsicotico da parte del personale sanitario, questi presidi permettono di ottimizzare la compliance alla farmacoterapia (Higashi et al., 2013), la cui carenza costituisce uno dei principali determinanti di ricaduta clinica (Kane, Kishimoto & Correll, 2013) e quindi di progressione e cronicizzazione del quadro psicopatologico (Emsley et al., 2013). In questo senso, il razionale di un intervento periodico a protezione dell’aderenza era già presente nelle più datate formulazioni depot a base di neurolettici di prima generazione (De Risio & Lang, 2014), non costituendo di per sé un elemento di innovazione.

D’altra parte, l’aderenza ottimale a un trattamento cronico è un costrutto multidimensionale e dinamico che dipende da una serie di fattori quali il compenso clinico, la disponibilità alle cure e un buon grado di relazione tra sanitario e paziente. Questo è vero in tutte le condizioni mediche, ma assume particolare rilievo in salute mentale, dove a maggior ragione la compliance non può essere banalmente confusa con la possibilità di garantire la somministrazione di un farmaco, né esaurirsi nella passiva disponibilità del paziente a iterare una procedura terapeutica che dovrebbe essere costantemente risignificata e discussa.

In effetti, anche i farmaci depot possono essere rifiutati qualora i pazienti non prestino adeguato consenso alla terapia – consenso che spesso viene negato dagli utenti alla luce di una scarsa tollerabilità degli effetti collaterali, più che per un mancato riconoscimento dei benefici clinici (Huhn et al., 2019). A questo proposito, i depot di prima generazione condividono con la controparte orale un profilo di tollerabilità particolarmente gravoso, che include peraltro crescenti evidenze di possibile neurotossicità legata alla somministrazione in cronico (Nasrallah & Chen, 2017), nonché un elevato rischio di incorrere un’esperienza soggettiva negativa – la cosiddetta “disforia indotta da neurolettici” – i cui correlati cognitivi, emotivi e motori mediati dall’elevata occupazione recettoriale D2 possono mettere a repentaglio l’aderenza ai trattamenti stessi (Naber et al., 2001; Awad & Voruganti, 2013).

Di qui il progressivo emergere di una preferenza per i nuovi LAI, sulla cui valenza clinica è presente una florida letteratura scientifica (Correll et al., 2016). A suffragio di questo orientamento terapeutico troviamo infatti un’accertata capacità di ridurre outcomes negativi come ricadute e ospedalizzazioni in ampi studi naturalistici (Tiihonen et al., 2017; Huang et al., 2021) e un potenziale impatto farmaco-economico positivo al netto del maggior costo del prodotto iniettivo rispetto alla controparte orale (Kaplan, Casoy & Zummo, 2013). Simili riscontri, emersi in modo progressivo nella real-world practice ancor più chiaramente rispetto agli studi randomizzati controllati (Haddad et al., 2016), hanno portato a valutare un impiego relativamente precoce di tali farmaci nel decorso di malattia (Stahl, 2014), spostando il focus da una prospettiva di gestione della cronicità e della non aderenza, a quello di un’ottimizzazione delle cure orientata alla recovery (Correll & Lauriello, 2020).

Il concetto di recovery va tuttavia ben oltre il conseguimento della remissione clinica che può derivare da una corretta e regolare assunzione della terapia antipsicotica (Liberman & Kopelowicz, 2005), in quanto prevede anche il conseguimento di un adeguato funzionamento personale e sociale ed una soddisfazione per la propria vita – fattori da perseguirsi necessariamente attraverso altri dispositivi del processo di cura multimodale rivolto a questo tipo di utenza. Quali proprietà dei LAI, dunque, possono favorire questa evoluzione prognostica positiva? L’idea qui proposta è che, qualora ci si limiti ad una prospettiva biologico-riduzionista, il LAI rappresenta di fatto una formulazione tecnologicamente avanzata di principi attivi noti che (anche quando correttamente assunti) non garantiscono di per sé sistematiche ripercussioni positive sull’adattamento psicosociale dell’individuo che li riceve: anzi, la ridotta disponibilità di prodotti e la scarsa flessibilità posologica rischiano di fornire risposte stereotipate a situazioni cliniche marcatamente eterogenee. Piuttosto, per sua stessa natura, la somministrazione periodica di una terapia LAI permette di aprire spazi terapeutici più ampi a diversi livelli. Tra questi risaltano la costante riformulazione di una scelta di trattamento condivisa (cosiddetto shared decision-making), la discussione esplicita dell’aderenza alla terapia, e la creazione di una regolare interazione con gli operatori del Servizio di Salute Mentale.

In primo luogo, proporre una somministrazione periodica di un farmaco che nella sua forma orale ha dato un beneficio clinico permette di identificarne il ruolo portante nella terapia di mantenimento, creando uno spazio semantico diverso da quello delle somministrazioni al bisogno o dell’assunzione di farmaci per una fase specifica di malattia (p.e., augmentation in caso di recrudescenza sintomatologica): condividere la scelta di un farmaco chiarendo che la sua assunzione avverrà in modo ricorrente e protratto nel tempo consente di sottolineare senza ambiguità il suo valore profilattico sul mantenimento del compenso psicopatologico, specie in quei pazienti che potrebbero essere portati ad abbandonare il trattamento orale nelle fasi di benessere (Higashi et al., 2013; Fiorillo et al., 2020). Per le medesime ragioni è nostra opinione che – ove possibile – il trattamento LAI dovrebbe essere iniziato in regime ambulatoriale o di day hospital: in tali contesti, infatti, il passaggio da terapia orale a iniettiva assume più facilmente il significato di ottimizzazione della cura di un paziente che ha maggior potere contrattuale e disposizione dialogica rispetto a una degenza volontaria o coatta, dove potrebbe emergere il vissuto di una “punizione” legata al recente scompenso e di una necessità di subordinarsi alla proposta del curante.

In merito alla discussione dell’aderenza alla terapia, un’affermazione lapalissiana è che la mancata compliance al trattamento LAI è per definizione esplicita, corrispondendo a un mancato contatto sanitario e/o a una mancata somministrazione. Di contro, la totale o parziale non-aderenza alla terapia orale è più spesso un fenomeno meno evidente, carsico, soggetto a fluttuazioni nel tempo ed associato ad una sofferenza psicopatologica subacuta che rischia di essere affrontata solo nello scompenso conclamato (Velligan et al., 2009). In questo senso, la terapia LAI permette una diagnosi differenziale più accurata tra il persistere della sintomatologia e una pseudo-resistenza derivante dall’assunzione non idonea del trattamento, favorendo interventi decisi e tempestivi a tutela del paziente. Questo valore dovrebbe essere reso esplicito all’utente quando si propone un LAI, portando un incremento del potenziale di dialogo soprattutto in quadri clinici quali le atmosfere di chiusura e di ritiro, l’ideazione paranoide incentrata su persecuzione e veneficio, nonché una gamma di sintomatologia positiva e negativa che concorre a rendere inaccessibile il paziente e scivoloso il setting: in questi casi, infatti, le fasi di recrudescenza in terapia per os vedono spesso lo spazio terapeutico e relazionale comprimersi sull’indagine sull’aderenza alla terapia, finendo per suonare inquisitori, coercitivi, e in un’ultima analisi confirmatori delle tematiche dell’utente privo di insight. Di contro, mettendo “in vista e al sicuro” il tema della compliance, si liberano risorse e tempo da destinare al dialogo e al potenziamento dell’alleanza terapeutica.

Infine – elemento ancora più suggestivo, vera e propria “proprietà emergente” dei LAI al netto della loro farmacologia – la somministrazione periodica crea una cornice di contatto ricorrente con il Servizio di Salute Mentale, consentendo un incontro regolare con diversi profili professionali: il medico che effettua una valutazione clinica, l’infermiere che somministra il farmaco, ma anche altri operatori che in tale occasione di accesso al Centro di Salute Mentale possono effettuare interventi terapeutici o riabilitativi. Tale incontro serve, nella più elementare delle forme, a rinforzare l’attitudine del paziente verso il trattamento, a migliorare l’esperienza soggettiva e a rafforzare la percezione del proprio funzionamento in corso di terapia antipsicotica, come dimostrato in studi sulla real-world practice ambulatoriale (Pietrini et al., 2018; Pietrini et al., 2021). Di fatto, l’attitudine verso le cure mostra di essere un parametro dinamico, plastico, su cui agisce proprio la qualità dell’alleanza terapeutica. A fronte dei considerevoli tassi di discontinuazione dei trattamenti LAI – specie quando iniziati in regime di degenza e durante l’acuzie (Rittmannsberger et al., 2017) – è stato recentemente mostrato che proprio un’attitudine negativa verso il trattamento, insieme all’assenza di occupazione, è il principale predittore di interruzione di tali terapie (Tatini et al., 2021). Questo richiama la dimensione prima enunciata di una regolarità di contatto come catalizzatore di una serie di interventi riabilitativi e multiprofessionali come l’inserimento socio-terapeutico o la protezione ed il potenziamento di un adeguato funzionamento lavorativo – elemento che ci avvicina sensibilmente alla definizione di recovery.

In definitiva, la terapia LAI può essere descritta come una risorsa farmacologica che, diversamente dalla controparte orale, presenta una serie di proprietà emergenti legate alla negoziazione esplicita dell’aderenza, alla periodicità di somministrazione e alle occasioni di monitoraggio che questa fornisce, creando una cornice per gli imprescindibili interventi multimodali che caratterizzano la presa in carico di questo tipo di utenza. Le più recenti linee guida danno ormai ampio spazio alla preferenza del paziente in questo senso (Llorca et al., 2013), allontanando l’idea dei vecchi depot come misura terapeutica residuale, coercitiva e stigmatizzante (De Risio & Lang, 2014) per approdare ad uno shared-decision making orientato alla recovery (Correll & Lauriello, 2020; Fiorillo et al., 2020). Fermi restando i principi di appropriatezza clinica – per cui questi farmaci risultano prescrivibili in-label nel solo spettro della schizofrenia – le evidenze disponibili depongono per la valutazione di uso anche precoce di questi presidi, allo scopo di influenzare positivamente la prognosi attraverso la riduzione di ricadute e ospedalizzazioni (Tiihonen et al., 2017). Sta poi all’équipe del Centro di Salute Mentale mettere a frutto questa periodicità che, quanto più viene arricchita di interventi complementari e integrativi, tanto più (paradossalmente) rende “periferica” la farmacoterapia, presidio imprescindibile per ridurre quelle ricadute ricorrenti che da sole sono in grado di inficiare gravemente l’intero processo terapeutico-riabilitativo – gravando in modo negativo sull’esperienza di malattia della persona, sul suo adattamento psicosociale e sulla dialogicità con il Servizio. Questo si embrica con il monitoraggio della terapia stessa, intendendo con ciò una costante attenzione alla rivalutazione della posologia, della tollerabilità, e del rapporto costi-benefici, ricordando che il vantaggio farmaco-economico dei LAI emerge soprattutto nel medio-lungo termine, quando i costi legati alla somministrazione controbilanciano quelli delle ospedalizzazioni e delle ricadute da essi evitati. Proprio mediante quest’ultima valutazione, il dirigente medico può collocarsi al crocevia tra razionale terapeutico e sanitario della prescrizione di un LAI all’interno del Servizio, consapevole che si tratta di una delle componenti di un trattamento multimodale complesso e protratto nel tempo.

Per citare Awad & Voruganti (2013), “i farmaci, al più, possono permettere di massimizzare l’impatto di altri interventi quali riabilitazione e supporto psicosociale, allo scopo di conseguire una migliore qualità della vita”: la rilevanza epidemiologica del problema trattato, nonché le possibili criticità farmaco-economiche e di allocazione delle risorse legate a questa utenza ad alto carico assistenziale, rendono a nostro avviso opportuna una riflessione accurata su caratteristiche qualitative che rischiano di essere scotomizzate da approcci clinici e organizzativi che diano risalto ad aspetti tecnici, riduzionistici e non attenti al decorso longitudinale.


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