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In memoria di Marta Marri

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Marta Marri ci ha lasciato l’8 giugno 2020 a 91 anni, dopo un’intera vita dedicata ai pazienti psichiatrici, agli ultimi tra gli ultimi. Profondi legami affettivi mi legano a lei, che mi ha accolto in due circostanze difficili della mia carriera e anche della mia vita. Non posso che esserle riconoscente. Mi ha meravigliato l’ultima volta che abbiamo parlato: la ringraziavo di quanto aveva fatto (anche per me) e lei di rimando mi ringraziò; mi sembrò strano. La dottoressa colse l’espressione del mio volto e specificò: “è reciproco”. Si riferiva al lavoro comune fatto per la costruzione del servizio di salute mentale di Grosseto, rivolto all’intera comunità.

A lei e alla sua famiglia la città di Grosseto deve molto. Marta Marri apparteneva ad una famiglia di solide tradizioni democratiche ed antifasciste. Il padre e la sorella maggiore, Mara, insegnante e dirigente del liceo cittadino, avevano dato il loro contributo alla Resistenza. Al padre, Gino, dobbiamo la costruzione del nuovo ospedale della Misericordia con un finanziamento privato e liberale. Essi facevano parte di un gruppo di amministratori e professionisti impegnati e lungimiranti, che hanno impegnato alcuni decenni del secondo dopoguerra alla rinascita della città e al superamento di alcune arretratezze storiche, costruendo le basi di una rete di servizi sociali e sanitari. Tra questi va ricordata nel 1958 la costituzione di uno dei primi Centri di Igiene Mentale in Italia, dieci anni prima che venisse approvata la legge nazionale che li istituiva: era il primo avvio del superamento degli ospedali psichiatrici. All’epoca la dottoressa Marri era una giovane psichiatra che si votò a quest’impresa. Lo stesso gruppo di amministratori e professionisti riuscì ad evitare la costruzione di un nuovo manicomio a Grosseto e a programmare l’alternativa territoriale e comunitaria all’ospedalizzazione psichiatrica con un progetto avveniristico, alla cui realizzazione Marta Marri ha dedicato l’impegno di una vita, superando difficoltà di ogni genere. Ella insieme ai suoi collaboratori ha riportato a casa i cinquecento cittadini maremmani, che languivano dagli anni Cinquanta tra le mura dell’OP S. Niccolò con notevole dispendio di denaro pubblico e pochi risultati.

È stata una psichiatra, che pur venendo da una formazione medica tradizionale, era attenta a quanto in quegli anni stava avvenendo di innovativo in campo psichiatrico sia all’estero che in Italia. Basti considerare il patrimonio di riviste, che custodisce la biblioteca del Centro di Salute Mentale di “Villa Pizzetti”, che fu costruito sotto la sua direzione. L’archivio storico del servizio, testimonianza di una storia di oltre sessant’anni, attende in gran parte di essere esplorato, anche se alcuni giovani storici vi hanno messo mano pur con grandi difficoltà. Ricordiamo i rapporti frequenti tra il servizio grossetano e alcune delle esperienze psichiatriche avanzate, in primo luogo Perugia ed Arezzo. Non solo fu costruito il servizio ospedaliero di diagnosi e cura all’Ospedale della Misericordia secondo la legge 180, ma soprattutto una rete articolata di oltre cinquanta posti letto nelle strutture residenziali inserite nel contesto cittadino. Un patrimonio ancora esistente, che abbiamo cercato di estendere e consolidare negli ultimi venti anni dopo il suo pensionamento. A quest’opera contiamo di dedicare un volume monografico nel primo anniversario della morte.

La dottoressa Marri si muoveva nel suo lavoro professionale con grande attenzione ai bisogni dei pazienti psichiatrici, in primo luogo quello del lavoro e della casa, senza pensare che il lavoro di salute mentale si esaurisse tutto nel sociale, ma garantendo anche una risposta terapeutica e assistenziale, non solo farmacologica, tecnicamente e professionalmente attrezzata. A buon titolo faceva parte di quella “terza psichiatria”, che si distingueva sia dal tradizionale approccio medico-biologistico che da quello riduzionista per cui la questione della salute mentale si restringe alla devianza sociale. Rimane difficile in città, in provincia ed anche a livello toscano dimenticare il suo contributo appassionato. A buon titolo ha detto a chi le stava vicino nel momento estremo: “quello che dovevo fare l’ho fatto”, un’affermazione in cui la riconosco tutta per l’impegno etico, che metteva nel suo agire.