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Clinica in regime di frontiera.
Il sistema di accoglienza e i problemi di salute mentale di richiedenti asilo e rifugiati

Autore


Riassunto

Il lavoro clinico con richiedenti asilo e rifugiati richiede la presa in considerazione dei fattori culturali e storico-politici che ne caratterizzano l’origine e il percorso migratorio, ma anche un’attenta valutazione del contesto di accoglienza. Da questo punto di vista, diventa importante analizzare la specifica esperienza dei migranti forzati nelle strutture di ricezione e, più complessivamente, nell’ambito dello spazio/tempo definito dal sistema di accoglienza. La confrontazione singolare del richiedente asilo o del rifugiato con questo sistema può essere considerata come uno dei fattori che contribuiscono alla produzione e alla messa in forma della sua sofferenza psichica. L’articolo si pone come riflessione sul funzionamento dell’accoglienza, al fine di contribuire al suo sviluppo come fattore di promozione della salute mentale di questa fascia di popolazione.


Summary

Clinical work with asylum seekers and refugees requires taking into account the cultural, historical and political factors that characterize their origin and migratory path, but also a careful assessment of the reception context. From this point of view, it is important to analyze the specific experience of forced migrants in reception centers and, more generally, within the space/time defined by the reception system. The confrontation of the asylum seeker – or refugee – with this system, as singular individual, can be considered as one of the factors contributing to the production and shaping of his psychic suffering. The article aims to propose a reflection on how the reception system works, in order to contribute to its development as a factor promoting mental health of this segment of the population.


I problemi di salute mentale dei richiedenti asilo e dei rifugiati richiedono un ragionamento clinico complesso e capace di prendere in considerazione una pluralità di dimensioni fra loro interconnesse e spesso articolate attraverso una temporalità che prevede un prima, un durante e un dopo la migrazione. In questo articolo si vuole appuntare l’attenzione sulla dimensione post-migratoria e in particolare sul sistema di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati. Questo sistema può essere pensato come una frontiera internalizzata al cui interno operano specifici processi di segmentazione che nel loro complesso articolano l’applicazione dei poteri dello stato moderno: sovrano, disciplinare e biopolitico (1) (nota 1). Nell’ambito di una simile frontiera, l’intervista in Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale (ovvero davanti al giudice ordinario, in seconda battuta) costituisce il momento in cui si dispiegano specifici giochi identitari e psicagogici (2).

Si inizierà descrivendo cosa ha comportato l’intenso sviluppo del sistema di accoglienza rispetto all’accesso ai servizi di salute mentale della popolazione migrante. Successivamente si metterà in evidenza come, parallelamente alla struttura dell’accesso, sia cambiata anche la domanda di cura che viene posta. In questo quadro, particolare attenzione sarà data al problema della certificazione richiesta spesso come documento da allegare alla domanda di protezione internazionale. Si arriveranno infine ad analizzare i problemi clinici che si incontrano nel regime frontaliero dell’accoglienza e come anche l’esperienza al suo interno contribuisca a produrre e mettere in forma la sofferenza dei richiedenti asilo e dei rifugiati.


1. L’accesso alle cure per problemi di salute mentale da parte di richiedenti asilo e rifugiati

Rispetto ai fenomeni migratori precedenti, quello attuale (e sicuramente quello che si è dato dal 2011 sino a tutto il 2018) presenta una peculiarità concernente l’accesso alle cure per problemi di salute mentale, effettivi o presunti. Esso è infatti mediato in modo strutturale e sistematico dal sistema di accoglienza. Fino a quando la migrazione è stata concepita e gestita come fatto economico, è esistito un problema dell’accesso dei migranti ai servizi di salute mentale o comunque alle cure per problemi di salute mentale (3). La competenza scientifica e tecnica della psichiatria e della psicologia stentava ad essere riconosciuta come risorsa praticabile da parte delle popolazioni migranti, sia per problemi di pertinenza percepita di quella competenza sia per problemi giuridico-amministrativi – il cui culmine era rappresentato dalla condizione di irregolarità (4). Il problema dell’accesso consisteva essenzialmente in un deficit di accesso a cui si affiancavano altri processi legati alla dinamica migratoria: la specializzazione territoriale dei flussi (per cui – fatte salve le realtà metropolitane maggiori – i territori conoscevano essenzialmente una gamma limitata di alterità culturale in conseguenza di un’autoselezione degli immigrati operata dalle catene migratorie) e la selezione territoriale dei flussi (per cui le dinamiche produttive o comunque di offerta lavorativa determinavano l’elezione di alcuni territori come recettori di flussi e l’esclusione di molti altri da un contatto significativo con l’alterità culturale). Tutti questi processi – accesso quantitativamente ridotto, specializzazioni e selezioni territoriali – facevano sì che la psicopatologia dei migranti non costituisse una questione rilevante per i servizi di salute mentale, se non in alcuni e limitati luoghi dove essa manifestava la sua cogenza e attualità, ovvero dove veniva promossa una specifica sensibilità.

Con il passaggio alla concezione e alla gestione della migrazione come fatto giuridico (vincolato cioè al possesso di uno specifico diritto a migrare in funzione del diritto internazionale o dei diritti nazionali), si è prodotta una serie di mutamenti a livello dell’accesso. In questo contesto, si vuole sottolineare in particolare come la mediazione istituzionale dell’accesso sia diventata strutturale e sistematica, poiché gli operatori delle strutture di accoglienza, le Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale ed eventualmente anche i servizi sociali delle Prefetture, sono diventati agenti di promozione e di facilitazione del ricorso alle competenze della psicologia e della psichiatria (in forma volontaria, privata, privata-sociale o pubblica). L’accesso di richiedenti asilo e rifugiati ai servizi di salute mentale è diventato così un fenomeno statisticamente significativo e diffuso, fino a coinvolgere anche territori marginali e periferici. Di conseguenza, la psicopatologia dei migranti è diventata una questione rilevante e cogente per il Sistema sanitario nel suo complesso.

La mediazione strutturale e sistematica riduce drasticamente il problema dell’accesso (in quanto deficit quantitativo), senza ovviamente eliminare quello della sua appropriatezza. Inoltre fra i due classici protagonisti dell’interazione clinica, il clinico e il paziente, si introduce un terzo in rappresentanza del sistema di accoglienza. L’operatore delle strutture di accoglienza – citato qui come rappresentante prototipico del sistema di accoglienza – si colloca in una posizione ambigua e ambivalente rispetto a tutti e due gli altri attori e a ciascuno di essi garantisce qualcosa e chiede qualcosa. Il sistema di accoglienza svolge innanzitutto una funzione di garanzia rispetto al percorso psicologico e/o psichiatrico. La garanzia è materiale e relazionale: accompagnamenti fisici presso i presidi sanitari o gli ambulatori, messa a disposizione di luoghi per l’attività clinica (svolta da volontari o da collaboratori), pagamento dei ticket sanitari, acquisto dei farmaci, fornitura della mediazione linguistico-culturale, incoraggiamenti ai richiedenti asilo e rifugiati rispetto alla funzione e all’utilità del ricorso specialistico, fino alla messa a disposizione stessa dei clinici (in forma volontaria o remunerata) (nota 2). Questa funzione o capacità di garanzia si basa, però, anche su altre qualità della relazione fra sistema di accoglienza e richiedenti asilo e rifugiati, maggiormente incentrate sulle capacità di pressione – implicita o esplicita – del primo sui secondi (ad esempio, cercare di legare la permanenza in struttura all’accettazione di un percorso di cura psicologico o psichiatrico). Complessivamente la capacità di garanzia dei percorsi di valutazione e cura si basa sul controllo sociale esercitato dal sistema di accoglienza e che prevede modalità di attuazione seduttive, dissuasive, ovvero costrittive (1). Il controllo sociale può rimanere del tutto implicito e taciuto e la sua azione negativa può pertanto presentarsi in modo inatteso nella relazione terapeutica – questo ovviamente anche nel caso agiscano le sole qualità maggiormente seduttive della relazione di accoglienza.


2. Le qualità delle domande di cura nel regime di frontiera

Nel paragrafo precedente si è visto come, nel periodo di accoglienza, l’accesso di richiedenti asilo e rifugiati sia legato sostanzialmente all’azione degli operatori dell’accoglienza. Nel momento in cui risolve il problema dell’accesso, il sistema di accoglienza avanza anche delle richieste. Nel caso dei richiedenti asilo e rifugiati, le richieste specifiche di aderire alla valutazione e alla presa in carico convergono sulle più generali richieste (e pressioni) acculturative e confluiscono nelle funzioni di controllo sociale che esso avanza ed esercita in quanto frontiera internalizzata (1; 2). All’operatore clinico, il sistema di accoglienza, oltre ovviamente ad una risposta di cura, chiede di contribuire al riconoscimento del diritto alla protezione internazionale o di un qualche diritto umanitario, da un lato, e di compartecipare alle proprie funzioni acculturative e di controllo sociale, dall’altro. Anche in questo caso, le richieste sono avanzate sia esplicitamente sia implicitamente.

Le caratteristiche relazionali dell’accesso si traducono in specifici temi problematici che confluiscono nella domanda di cura, a questo punto quanto mai sfaccettata e composita. Permane ovviamente la speranza di una guarigione (“di stare bene” dal lato del richiedente asilo o rifugiato e “di farlo stare bene” dal lato del sistema di accoglienza). Dal lato del sistema di accoglienza questa domanda di cura può arrivare fino alla richiesta, o comunque all’auspicio, che l’accoglienza si commuti in una residenzialità terapeutico-riabilitativa (quasi sempre prima e indipendentemente dalla sua fattibilità, dalla sua opportunità e dall’adesione dell’interessato). Questo auspicio è spesso legato a manifestazioni pantoclastiche o comunque di aggressività da parte del richiedente asilo o rifugiato verso gli operatori oppure verso altre persone accolte. Può succedere che le Prefetture arrivino a intervenire per far sì che i suddetti auspici si realizzino. Ma, più comunemente, e comunque in via preliminare, la speranza è che gli interventi psicologici e/o psichiatrici riescano a calmare la conflittualità esacerbata fra la persona accolta e la struttura di accoglienza o gli altri richiedenti asilo e rifugiati presenti. La preoccupazione e/o la paura degli operatori infiltrano la domanda di cura che avanzano per il richiedente asilo o rifugiato, mentre risulta più problematica da parte loro – e soprattutto da parte del sistema complessivo – la ponderazione del contributo che la situazione oggettiva e soggettiva di accoglienza apporta a quella conflittualità e aggressività.

La domanda di cura sfuma così più o meno impercettibilmente, e a seconda dei casi, in quella di controllo sociale, tanto più quando la conflittualità esacerbata non presenta alcuna qualità psicopatologica. In alcuni casi le tensioni sono tali da innescare giochi di forza – anche istituzionali – intorno al mantenimento o all’allontanamento delle persone dall’accoglienza. Le strutture di accoglienza o le Prefetture possono arrivare a chiedere ai clinici di certificare la non pericolosità sociale della persona, come condizione di un’eventuale riammissione, o al contrario di certificare stati di vulnerabilità al fine di mantenere la persona nella sua struttura di accoglienza o di trasferirla in un’altra presuntivamente più capace o attrezzata.

La collocazione del richiedente asilo nell’ambito di un percorso volto a valutarne la domanda di protezione internazionale (o “diversamente umanitaria”, in subordine) comporta l’inclusione della sua sofferenza fisica o mentale come elemento valutato dalle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale. La richiesta di una valutazione clinica e della relativa certificazione fa parte integrante della domanda di cura nel caso dei richiedenti asilo. Il certificato può essere o meno desiderato dal richiedente asilo, ma in modo costante è richiesto o auspicato dal sistema di accoglienza. Dal lato del clinico questo cambiamento può suscitare dubbi o fantasie di manipolazione, ma certamente il contributo di un’attenta valutazione dei sintomi, dei vissuti e delle esperienze biografiche personali, familiari e collettive, nell’ambito di una solida alleanza terapeutica, può contribuire in modo sostanziale al riconoscimento dei diritti del paziente. Questo riconoscimento a sua volta è un passo fondamentale, anche se purtroppo non risolutivo, nel percorso di superamento delle sofferenze e dei sintomi eventualmente presenti (9). Diventa pertanto fondamentale una piena consapevolezza, da parte del clinico, delle norme e delle prassi relative alla valutazione della domanda di protezione internazionale e umanitaria. L’azione di certificazione si inserisce dunque in un’attività e in un’attitudine generale di advocacy nei confronti dei richiedenti asilo e rifugiati, come da più parti messo in evidenza. In buona parte, anche se certo non completamente, la salute di questa fascia di popolazione e la possibilità di prendersi cura delle loro sofferenze e disturbi dipende dal contributo che gli operatori possono dare al riconoscimento dei loro diritti. Tradizionalmente, in salute mentale, l’azione è stata volta al riconoscimento dei diritti sociali: in particolare del lavoro. Nel caso dei richiedenti asilo, ancora prima, questa azione va rivolta al riconoscimento del diritto alla protezione internazionale ed eventualmente umanitaria (anche se, nella sua ultima versione di protezione “speciale” o per cure, quest’ultima offre scarse o inesistenti garanzie di effettuare percorsi terapeutico-riabilitativi minimamente efficaci). Il contributo che un’attenta presa in carico può offrire, in questo senso, riguarda non solo la specifica valutazione clinica ed il relativo giudizio di compatibilità con le vicende biografiche narrate – là dove una simile compatibilità possa essere attestata. La relazione terapeutica che si viene a creare nel contesto di presa in carico produce – benché non sempre – le condizioni per l’emersione di elementi biografici altrimenti taciuti o comunque non considerati: per il maggior tempo a disposizione, per il superamento dei fattori che ne bloccano normalmente la rievocazione (vergogna, dolore, colpa…) e per il fatto che diventano significativi e non banali (nel senso – se ci è consentita l’espressione – che spesso il “male” è considerato banale: scontato, automatico, non problematico né significativo). Il clinico viene a conoscenza delle sofferenze del richiedente asilo e di eventuali eventi traumatici. Può riuscire anche a comprendere altri elementi utili alla valutazione della domanda di protezione: in particolare può emergere l’appartenenza della persona a specifici gruppi sociali soggetti a discriminazione, emarginazione o persino a persecuzione (orientamento di genere, malattie stigmatizzanti e altro ancora). Discriminazioni e persecuzioni che in alcuni casi non sono prese in considerazione – perché “banali” – dallo stesso richiedente asilo, attento piuttosto ad altre dimensioni maggiormente valorizzate o abusate in sede di audizione. Tutto ciò però richiede di allargare la prospettiva, di inserire la sofferenza individuale in uno scenario e in un contesto più ampio che è antropologico, storico e politico. Questo allargamento di prospettiva richiede il parallelo allargamento degli orizzonti conoscitivi del clinico, ovvero la sua collaborazione con altre figure professionali (antropologi, avvocati o consulenti legali, scienziati politici). In passato, queste figure professionali erano spesso, e in una certa misura, assicurate dalle stesse strutture di accoglienza. Occorre sottolineare di nuovo, in questa sede, che i recenti provvedimenti legislativi hanno ridotto le possibilità dei servizi di agire nel senso della promozione della salute delle persone anche da quest’ultimo punto di vista.


3. Clinica della frontiera

Dopo aver descritto i mutamenti dell’accesso dei migranti alle cure psicologiche e psichiatriche, si sono messi in evidenza i cambiamenti della conseguente domanda di cura. Questi cambiamenti immettono il lavoro clinico in un processo complesso e delicato di advocacy, volto alla tutela dei diritti dei migranti forzati. Appare importante sottolineare come in questo caso il diritto alla salute converga verso quello alla protezione e viceversa. Alla luce di tutto ciò non sorprende che l’interazione clinica con richiedenti asilo e rifugiati sia attraversata dalla dimensione sociale, culturale e politica del sistema di accoglienza. Capovolgendo il noto paradigma della doppia assenza del migrante proposto da Sayad (10), nel regime frontaliero dell’accoglienza si viene a creare una sorta di doppia presenza delle dimensioni sociali, culturali e politiche in cui il richiedente asilo e rifugiato è inserito. Da un lato, come appena detto, la presenza del sistema di accoglienza. Dall’altro, la presenza delle dimensioni sociali, culturali e politiche di provenienza resa possibile dalle tecnologie portatili della comunicazione che contraddistinguono il paesaggio attuale della migrazione, così come quello sociale generale (11). Internet o le chat tramite telefono portatile assicurano quella “presenza magica dell’assente” e quella “negazione magica dell’assenza” che già Sayad (12) attribuiva alle audiocassette, ma con un surplus incomparabile di immediatezza, di visibilità e di realismo magico capace di restituire voce a quell’interlocutore che il precedente supporto tecnologico (di tipo magnetico) manteneva muto (nota 3).

Ciascuna dimensione esercita la sua presa sul richiedente asilo o rifugiato e, parallelamente, si radicano – si incorporano, si potrebbe dire – in lui tutte le possibili loro interazioni, più o meno conflittuali. Le dimensioni collettive possono contendersi il richiedente asilo o rifugiato, ma ciascuna può anche appropriarsi dell’altra a fini mimetici. In altre parole, la loro interazione può essere proficuamente letta secondo i processi dinamici dell’acculturazione antagonista messi in evidenza da Devereux e Loeb (13). Ad esempio, si può riconoscere l’azione dell’acculturazione negativa dissociativa, attuata attraverso il mezzo tecnico della regressione, nel processo di insediamento di un gruppo di somali in un Centro di Accoglienza Straordinario (14). In questo caso, la ripetizione irrisolvente e sintomatica di cicli di costruzione e distruzione di strategie e progettualità insediative di giovani somali provenienti dal Corno d’Africa ricalcano il modello originario del sogno del viaggio, effettuato in gruppo e scandito dalla masticazione del qaad (cfr. 15).

L’etnopsichiatria e la psicologia geopolitica clinica – seppure, quest’ultima, focalizzandosi maggiormente sui sistemi e dispositivi di violenza intenzionale – hanno messo in evidenza il ruolo della dimensione sociale, culturale e politica del paese di provenienza nella determinazione e nella messa in forma della sofferenza in corso di migrazione (16; 17; 18; 19). In questo articolo, il tentativo è quello di mettere in evidenza gli effetti psicopatologici e clinici della dimensione sociale, culturale e politica rappresentata dal sistema di accoglienza. Questa prospettiva di ricerca si basa ovviamente su aspetti della clinica transculturale già messi in evidenza da tempo, come ad esempio la tenuta del concetto di PTSD in confronto alla possibilità di ricorso e di elicitazione di eziologie tradizionali (20). Anche in quest’ultimo caso si tratta dell’interazione competitiva fra la dimensione sociale, culturale e politica moderna e quella tradizionale – per usare una dicotomia descrittiva forse eccessivamente semplificante. Nathan e Grandsard cioè comparano la capacità delle due dimensioni di rendere ragione e spiegare l’esperienza di malattia del singolo e di fornire leve terapeutiche adeguate. Sembra utile e necessario includere nel ragionamento clinico non solo le teorie e le tecniche di cura (moderne e tradizionali), ma anche i contesti sociali e istituzionali di origine e di accoglienza, con le relative dimensioni di potere. L’analisi clinica di tipo geopolitico deve cioè includere non solo i dispositivi di potere (e di violenza intenzionale) di provenienza, ma anche i dispositivi presenti nella società di accoglienza (21; 22). Anche questi ultimi infatti dimostrano di possedere una capacità di effrazione, o almeno di aggiungersi alle dinamiche psichiche ingenerate dalle effrazioni prodotte dalle violenze intenzionali pre-migratorie o migratorie.

Questa capacità di produrre effrazioni, di riattivarle o comunque di aggiungersi alle effrazioni già esistenti può essere connessa ad una serie di caratteristiche del sistema di accoglienza e dei suoi effetti di soggettivazione già in parte analizzati (cfr. 1; 2). Quella stessa capacità può anche essere connessa con una serie di fenomeni clinici.


3.1. La capacità del sistema di accoglienza di fare effrazione

La vita delle strutture di accoglienza è scandita da conflitti multipli e stratificati. Alcuni costituiscono la riverberazione di tensioni allogene: presenti nei paesi di origine, oppure nate in corso di migrazione. Ad esempio, le tensioni fra persone afferenti a gruppi sociali, politici, etnici o religiosi in contrapposizione – se non proprio in guerra – nei luoghi di provenienza.

Esistono tuttavia conflittualità endogene alle strutture di accoglienza, per come esse funzionano e sono organizzate e per i vincoli e le limitazioni più generali vigenti nell’ambito del sistema di accoglienza e derivanti da disposizioni legislative o amministrative. Complessivamente la conflittualità – che riguarda in verità tutti gli attori presenti al loro interno – deriva dall’azione convergente di diverse dimensioni sociali, culturali e politiche, le quali esercitano pressioni sui singoli e pongono richieste divergenti che “tirano” gli attori in direzioni diverse. Derivano anche dai tentativi, più o meno riusciti, o più o meno fallaci, dei singoli di ritagliarsi uno spazio personale di azione, di pensiero e di sentimento (morale). Questo vale ovviamente per i richiedenti asilo e rifugiati presi dalla doppia presenza più sopra evocata: dei dispositivi di potere di provenienza e del dispositivo di potere rappresentato dal sistema di accoglienza. Ma vale anche per gli operatori dell’accoglienza: anch’essi “effetto di potere” (cfr. 23) del dispositivo in cui lavorano e però anche legati ad altre dimensioni sociali, culturali e politiche determinate dai contesti familiari e sociali di provenienza, dai percorsi formativi e professionali (nota 4) o da specifiche appartenenze ideologiche o religiose.

Esistono tensioni fra gli attori che abitano il sistema di accoglienza, ma anche tensioni localizzate sui singoli attori. Le une e le altre possono arrivare ad alimentarsi reciprocamente (nota 5).

Si tratta a questo punto di riprendere sinteticamente le specifiche pressioni esercitate dal sistema di accoglienza sui richiedenti asilo e rifugiati, già esplicitate nei precedenti lavori (1; 2).

Innanzitutto, il sistema di accoglienza trasforma il movimento migratorio. Quest’ultimo presenta in varia misura qualità collettive ed è animato al suo interno da specifiche solidarietà parentali, interpersonali o gruppali già presenti prima della partenza o createsi durante il viaggio. La trasformazione del movimento migratorio procede nel senso di una sua strutturazione e messa in forma in quanto divenire individuale del singolo richiedente asilo e rifugiato. Si può pensare il sistema di accoglienza come un dispositivo che trasforma la molteplicità qualitativa interna al flusso migratorio – molteplicità di gruppi, di storie, di solidarietà e di conflitti – nella moltiplicazione quantitativa di storie individuali uniformate dal codice umanitario. Si possono citare numerosi esempi di questa pressione – più o meno esplicita e più o meno vincolante – a pensarsi come individualità: se si vuole, ad adottare un atteggiamento morale di tipo individualista. Ad esempio, l’operatore che invita, o incita, il richiedente asilo o rifugiato a non inviare i soldi alla famiglia o a inviarne il meno possibile, al fine di costituirsi una piccola riserva utile per il futuro fuori dall’accoglienza. Oppure, lo stimolo ad aderire ai percorsi formativi proposti in grado – almeno teoricamente – di renderlo maggiormente autonomo anche se solo in prospettiva, piuttosto che lavori in nero e sottopagati necessari per aiutare nell’immediato sé stesso e la famiglia. In questi casi, i vincoli e le pressioni del “qui” cercano di aprire uno iato fra soggetto e gruppi di riferimento. Seppure comprensibili da un punto di vista, questi vincoli e queste pressioni, agiti senza alcuna mediazione e senza la valorizzazione degli altri punti di vista in gioco, operano un attacco ai legami e alle solidarietà di provenienza. Non è detto che l’offerta di una prospettiva individuale, di un divenire singolare, sia percepita come pacifica, né è scontato che abbia un effetto pacificante. Tuttavia non è solo sulle azioni dei singoli operatori che va posta l’attenzione. È il movimento complessivo del sistema di accoglienza che spinge verso la singolarizzazione dell’esperienza e del divenire personale: dalla rottura dei legami di solidarietà nella distribuzione territoriale dei richiedenti asilo (con la sola eccezione di quelli con il coniuge e i figli), alla definizione di percorsi individualizzati, passando per i vincoli al movimento territoriale. Si possono comprendere gli effetti di questa strutturazione della vita del richiedente asilo e del rifugiato – che possiede, come già sottolineato, una sua razionalità e che può vantare delle “buone ragioni” – se si comparano con alcune strategie migratorie. Ad esempio, quella dei giovani somali nell’ambito di una cultura che concepisce e prospetta il viaggio come transito verso l’età adulta, foriero di esperienze e di saggezza. Nell’ambito di questa concezione, tra le strategie culturali previste e apprese si ritrova l’individuazione di referenti adulti adeguati in terra straniera (nota 6), come base di partenza per una maturazione personale che – però – viene ricercata soprattutto nell’interazione con il gruppo dei pari. Nell’ambito dei circuiti tribali e amicali, le principali strategie di sopravvivenza adottate sono costituite dalla rapida circolazione delle informazioni e dall’estrema mobilità geografica. L’una e l’altra sono rivolte al raggiungimento più rapido possibile di luoghi e situazioni in grado di assicurare autonomia economica al singolo e quindi risorse per la famiglia (26). La mobilità geografica va a confliggere con i vincoli amministrativi al movimento e il riferimento ai pari e alla comunità con il ruolo acculturativo e di orientamento degli operatori dell’accoglienza. Nel processo di definizione di percorsi di autonomia, si registrano spesso conflittualità anche intense fra quanto proposto dagli operatori (ad esempio, rispetto ai percorsi formativi in specifici ambiti lavorativi) e le informazioni raccolte dal migrante nella sua sfera amicale e di conoscenze. Anche nei giovani cadetti dell’Africa occidentale si ritrova una conflittualità similare fra la mobilità geografica sospinta dall’obiettivo di “cercarsi” – termine da loro usato per riferirsi all’uscita da una condizione di minorità di cui non vedono la fine (in patria), attraverso un viaggio capace di farli approdare ad una personalità sociale riconosciuta, sebbene pagando spesso alti costi – e i sistemi di trattenimento, di rallentamento e di blocco di quel movimento (27). La differenza, caso mai, è che nel caso somalo la mobilità geografica costituisce un mezzo e una risorsa conforme ai dispositivi di riproduzione sociale, mentre nel caso dell’Africa occidentale essa costituisce uno strumento di contestazione o comunque un’uscita di sicurezza rispetto ad essi.

L’attenzione non va posta quindi sulle interazioni terminali del sistema di accoglienza (fra operatore e richiedente asilo o rifugiato), ma sull’intero sistema di accoglienza che funziona come una frontiera internalizzata estesa nel tempo e nello spazio e che opera una serie articolata di processi di segmentazione (di tipo binario, lineare e circolare). Questi processi di segmentazione – e cioè di separazione, oltre che di articolazione – convergono verso il momento apofantico dell’audizione in Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale (1; 2). Si tratta del culmine del processo di individuazione proprio perché lo status giuridico è riconosciuto al singolo e sulla base della sua specifica storia personale. Più che di momento, d’altra parte, si deve parlare di periodo poiché l’audizione è il punto terminale di un lungo percorso durante il quale il richiedente asilo è chiamato ad una pluralità di interazioni (con operatori dell’accoglienza, consulenti legali, psicologi, psichiatri, medici legali o di altra specializzazione, avvocati, antropologi). Questo percorso è punteggiato da incontri volti a ricostruire la memoria biografica (in forma verbale o scritta) a sostegno della domanda di protezione e da valutazioni e certificazioni sanitarie, derivanti o meno da prese in carico terapeutiche, capaci eventualmente di supportarne la verosimiglianza. Nel suo complesso questo percorso mira a presentare il singolo bios secondo un logos che permetta di valutarne la rispondenza al nomos internazionale (per la protezione) ovvero a quello della terra di esilio (per un permesso di tipo umanitario). La biografia così costruita – indipendentemente dalla sua veridicità – si sovrappone nella storia individuale come nuovo progetto di soggettivazione alternativo e differente da quelli che lo hanno preceduto e che erano connessi ad altri dispositivi di potere, mitico-rituali e terapeutici.

Per comprendere la forza e l’impatto dei processi attivi nel sistema di accoglienza è forse necessario prendere in considerazione quanto succede in altri mondi. Il confronto con l’alterità permette di far emergere in modo ancora intenso lo stupore di fronte alle convergenze interistituzionali e interdisciplinari che si verificano nel nostro; convergenze che altrimenti passerebbero inosservate e non pensate. Si può notare infatti come le Commissioni territoriali indaghino la biografia e l’identità del richiedente asilo per valutare la fondatezza della sua domanda di protezione. La psicologia e la psichiatria contribuiscono a questa valutazione, convergendo sulla comune attenzione all’identità delle persone (vive) e alla narrazione delle vicissitudini individuali – fosse solo nei loro aspetti patobiografici. Poco supporto riceverebbero invece le Commissioni da dispositivi culturali e terapeutici che ricercano la cura di un popolo, di gruppi familiari o di singoli individui sottoposti alla violenza della guerra, interessandosi piuttosto all’identità dei morti (dei fantasmi) e al loro trattamento (28; 29; 30; 31).

Lo stupore tuttavia non va rivolto alle modalità di funzionamento dei mondi altri, ma proprio a come opera il nostro. Stupore nel senso di meraviglia rispetto alla pervasività e coerenza della razionalità che permea lo stato-nazione e le società occidentali, per altro già messe in evidenza dalle analisi foucaultiane. Il rischio da evitare, tuttavia, è quello di restare stupiti di fronte a questa razionalità, nel senso di storditi e intorpiditi mentalmente a causa del colpo ricevuto, o addirittura obnubilati nella coscienza a causa della tossicità di quella stessa razionalità. Proprio l’analisi delle discontinuità etnologiche può aiutare a mantenere la capacità di stupirsi nel primo senso, evitando di precipitare nello stato stuporoso caratteristico del secondo (cfr. 32; 33; 34).

Adottando una simile prospettiva, diventa forse opportuno, se non necessario, considerare lo stupore – inteso nei due sensi sopra menzionati – come condizione che coglie anche il richiedente asilo o il rifugiato quando viene posto di fronte al sistema di accoglienza. Assumono particolare significato alcuni aspetti intrinseci o comunque inerenti al processo di soggettivazione che esso propone e verso cui instrada i suoi ospiti, riprendendo anche alcune argomentazioni già introdotte in precedenza.

Prima di tutto, il processo di soggettivazione proposto va di pari passo con un tipo di esperienza e di esistenza che caratterizza la vita nelle strutture di accoglienza. Questa esperienza, come sostenuto da una pletora di pubblicazioni, è caratterizzata da una serie di elementi fra cui primeggiano l’attesa indeterminata e la situazione di dipendenza da una relazione di tipo umanitario e assistenziale. L’una e l’altra inoltre incentivano uno stato di passività e possono comportare per il migrante la perdita del proprio ruolo e del relativo statuto, o comunque la riduzione o la trasformazione del senso del proprio ruolo (nota 7).

In secondo luogo, la forza stupefacente del sistema di accoglienza deriva dal suo entrare in competizione con le dimensioni sociali, culturali e politiche del paese di provenienza. La competizione riguarda la presa sul soggetto migrante e quindi chiama in causa il suo senso di lealtà (cfr. 35). In un lavoro precedente, si è già messo in evidenza il valore eziopatogenetico di una simile competizione relativa alle donne che si trovano in uno stato di servitù prostitutiva a seguito della loro cattura in una specifica macchina astratta a matrice stregonesca (36). In questa sede, si vuole mettere in evidenza come questa competizione sia generalizzata ed interstiziale rispetto ai richiedenti asilo e ai rifugiati. Gli stessi aspetti seduttivi del sistema di accoglienza (l’offrire un luogo sicuro e accudente di vita) sono spesso fonte di sensi di colpa e di un senso generale di tradimento rispetto ad una causa che altri portano avanti in patria, oppure rispetto a familiari e amici che sono esposti ai pericoli della guerra, della repressione o della povertà (compresi i morsi della fame). In ultima istanza, si ritrova la colpa del sopravvissuto rispetto a chi è morto: in patria o nel viaggio (cfr. 37). Il sistema di accoglienza si pone come il rappresentante di un’istanza acculturativa e di territorializzazione proveniente dalla società di approdo, desiderosa che l’ospite apprenda e si conformi ai nuovi codici linguistici, lavorativi ed etici. Coerente con questa impostazione è l’eliminazione o il tentativo di circumnavigazione delle dimensioni storiche, politiche e culturali originarie dal panorama dell’accoglienza dei richiedenti asilo e rifugiati (si veda, tra gli altri, 38).

In terzo luogo, anche in assenza di un conflitto competitivo con le dimensioni sociali, culturali e politiche di origine, il sistema di accoglienza può comunque lasciare stupefatti poiché, più che aprire a nuove libertà e opportunità, reimmette giovani e meno giovani in una dimensione di attesa e di dipendenza nell’ambito di un nuovo assetto di potere e di controllo.

Alla fine, la capacità del sistema di accoglienza di fare effrazione può essere messa in relazione alla produzione di una soggettività singolarizzata e posta di fronte all’entità statale nel suo complesso (anche se rappresentata di volta in volta da semplici avatar umani: operatori dell’accoglienza, forze dell’ordine, commissari territoriali delle Prefetture, personale sanitario), in un confronto ad asimmetria totale di potere o comunque rispetto al quale il richiedente asilo o il rifugiato possiede scarsi strumenti di difesa o di negoziazione, ovvero non ne possiede affatto. Questa situazione investe oltretutto persone che possono portare in sé le ferite prodotte da guerre, torture e sfruttamenti in patria o in corso di migrazione e indebolite dai conflitti legati a quella doppia presenza a cui si è fatto riferimento più sopra. Questa situazione può ingenerare stupore: sia nel senso della meraviglia (e quindi eventualmente produrre nuove possibilità), sia nel senso dello stordimento o del vero e proprio obnubilamento.


3.2. Psicopatologia e sistema di accoglienza

Si pone a questo punto il problema di comprendere come il sistema di accoglienza – nella sua globalità o in alcuni suoi aspetti specifici (ad esempio, l’audizione in Commissione) – entri nella vita dei richiedenti asilo e rifugiati e in particolare nelle fenomenologie psicopatologiche che eventualmente presentano. L’analisi proposta si basa sull’esperienza clinica specificatamente maturata dal 2010 con richiedenti asilo e rifugiati inseriti nei progetti SPRAR (poi SIPROIMI) ordinari o per persone vulnerabili, negli ex Centri Polifunzionali, nei centri di accoglienza straordinaria, nei progetti FER e FAMI. Questa attività ha riguardato adulti (uomini e donne), minori stranieri non accompagnati, vittime di tortura e vittime di tratta a fini di sfruttamento sessuale.

Il contraltare della solitudine del richiedente asilo e del rifugiato di fronte al sistema di accoglienza (= stato) è costituito dall’occupazione del suo spazio psichico da parte di un qualche aspetto o di diversi aspetti di quel sistema. La preparazione della memoria, l’audizione in Commissione, la relazione con gli operatori dell’accoglienza, il rinnovo dei documenti provvisori e le sue lungaggini, le condizioni materiali delle strutture di accoglienza, e così via, costituiscono oggetti di interesse e contenuti ideativi assai presenti nel dialogo clinico e sono associati a intense emozioni di paura, di rabbia, di impotenza e risentimento nei richiedenti asilo e rifugiati. Il modo in cui questi oggetti, contenuti ed emozioni si presentano può variare molto e può essere utile provare a fornire alcune tipizzazioni derivate dalla generalizzazione di casi concreti. Sarà così più facile mettere in relazione questa presenza del sistema di accoglienza nella sintomatologia dei richiedenti asilo e rifugiati con quanto messo in evidenza nel paragrafo precedente.

Ad un primo livello, si presentano tutte le situazioni o gli aspetti del sistema di accoglienza che, direttamente, creano frustrazione e quindi preoccupazione mista a rabbia: attese per documenti o appuntamenti, condizioni alloggiative (qualità del vitto quando fornito dalla struttura, affollamento delle stanze o degli appartamenti, ecc.), vincoli (es., il coprifuoco nei CAS, le firme per ogni atto amministrativo anche più banale), e così via. Tipica da questo punto di vista è la vera e propria ansia connessa all’attesa dell’audizione in Commissione territoriale. Queste frustrazioni, i vissuti emotivi connessi e gli agiti aggressivi che ne possono derivare costituiscono evenienze abbastanza frequenti nella vita di una struttura di accoglienza. Possono avere una base oggettiva che le crea o le amplifica (ad esempio tempi di attesa della Commissione molto più lunghi della media senza alcuna spiegazione o per disguidi burocratici, standard qualitativi variabili da organizzazione a organizzazione, ecc.). Possono anche essere esacerbati da condizioni oggettive e/o soggettive del richiedente asilo o rifugiato (pressioni familiari rispetto al suo non ottemperare alle aspettative di ruolo o ai mandati affidatigli, disturbi psichici più o meno gravi, uso o abuso di alcol o altre sostanze, ecc.).

I conflitti connessi a questa tipologia di situazioni e soprattutto gli agiti aggressivi (verbali, verso cose e a volte verso persone) testimoniano delle difficoltà insite nella vita nelle strutture di accoglienza e rendono il lavoro degli operatori particolarmente gravoso e delicato.

Non sono tuttavia questi i modi e le forme attraverso cui il sistema di accoglienza entra per così dire nella vita (anche psichica) dei richiedenti asilo e rifugiati su cui si vuole attirare l’attenzione, almeno non in via prioritaria. Certamente, anche questi conflitti testimoniano dell’azione del sistema di accoglienza; di ciò che produce o di ciò che si riproduce al suo interno. D’altra parte, queste evenienze si possono ridurre facilmente, e con grande economia esplicativa, alla realtà oggettivamente frustrante e limitante del sistema di accoglienza (in qualche caso, anche a condizioni degradate e degradanti di accoglienza), ovvero alla psicopatologia dell’ospite (aumento della reattività e del nervosismo legato a stati post-traumatici, interpretazioni persecutorie, ecc.). Sembra invece maggiormente interessante e proficuo focalizzarsi su quelle che possono essere considerate delle elaborazioni secondarie di questo primo livello. Si possono così mettere in evidenza altre tipologie di casi il cui nodo problematico è costituito dall’intenzionalità (sostanzialmente malevola) che i richiedenti asilo e rifugiati attribuiscono al sistema di accoglienza (o ad una qualche sua parte). Intenzionalità che ovviamente è desunta da una serie di dati o di evidenze portate a dare testimonianza e che sono rappresentate dalle conseguenze o dagli effetti sulle loro vite.

In primo luogo, si possono indicare tutti quei casi in cui gli operatori dell’accoglienza (tutti in generale o qualcuno in particolare: spesso i consulenti legali) sono ritenuti capaci di influenzare le Commissioni territoriali. Tale capacità di influenza andrebbe dalla possibilità di ritardare indefinitamente l’audizione in Commissione territoriale o l’udienza presso il giudice ordinario, fino al trattenimento o al nascondimento della decisione sulla richiesta di protezione, ovvero fino alla capacità di ribaltarne l’esito in senso negativo (diniego).

In secondo luogo, vanno considerati quei casi in cui gli operatori o l’ente gestore sono accusati di lucrare sui rifugiati e sottrarre risorse pubbliche che sarebbero destinate loro. Questa attribuzione può allargarsi fino ad includere gli attori più vari, oppure può risalire la catena gerarchica del sistema di accoglienza fino all’attribuzione di colpe e responsabilità ai massimi livelli istituzionali, rispetto a risorse pubbliche nazionali o addirittura derivanti da finanziamenti sovranazionali (europei o dell’Organizzazione delle Nazioni Unite). Viste le cronache giudiziarie di questi anni, il tema è ovviamente delicato e per altro le accuse o recriminazioni hanno diverse sfaccettature e sfumature. Sebbene non si possano non considerare le deviazioni accertate nel sistema, è altrettanto vero che queste non possono che essere considerate eccezioni che non inficiano un suo normale funzionamento (comprese le inefficienze, gli sprechi e le cupidigie che normalmente si incontrano in ogni ambito lavorativo). Chiariti questi aspetti, si possono però mettere in evidenza una serie di articolazioni o di sfumature nell’ambito di questo tipo di casi. Le suddette attribuzioni si ritrovano come interpretazioni generali attraverso cui i richiedenti asilo e rifugiati decifrano il sistema in cui sono inseriti. Dal loro punto di vista, si tratta in qualche modo di un luogo comune, del tutto auto-evidente, che può non essere condiviso da tutti ma che comunque è ampiamente diffuso. Di fatto, questo luogo comune – che è anche senso comune – converge o si avvicina a molte critiche sorte in questi anni – da destra e da sinistra – nei confronti del sistema di accoglienza. In ultima analisi, al sistema di accoglienza è imputato di costituire un sistema economico che – benché in larga parte connotato in senso sociale, anche se non totalmente – estrae un surplus di valore non dal lavoro dei richiedenti e rifugiati, ma dalla loro nuda vita, dal solo fatto di essere accolti (nota 8). Questo tipo di contenuti, d’altra parte, possono presentarsi come semplici valutazioni più o meno investite affettivamente, ma anche come vere e proprie convinzioni del richiedente asilo e rifugiato, espresse in modo rivendicativo e capaci di alimentare un vissuto complessivo nell’ambito del sistema di accoglienza che viene a colorarsi persecutoriamente. In questo senso, l’intento fraudolento dell’operatore, dell’ente gestore o dello stato nel suo complesso finiscono per costituire la ragione ultima di azioni od omissioni che direttamente o indirettamente avrebbero ripercussioni lesive sull’ospite.

Questi ultimi, infine, sono i casi in cui la struttura di accoglienza nel suo complesso, una parte degli operatori o anche un’entità accogliente non meglio specificata sono ritenuti operare in modo da creare al richiedente asilo o al rifugiato un qualche tipo di nocumento, di danno, di ostacolo, di blocco o di discriminazione (ad esempio rispetto ad altri ospiti della struttura – generici o di specifiche nazionalità – per l’accesso a percorsi formativi, stage, lavori…). Ad esempio, il richiedente asilo può sentire che gli operatori lo tengono vincolato alla struttura, senza prendersi cura di lui nel modo adeguato o minimamente giusto; denuncia che la struttura non lo lascia andare, arrivando pertanto a chiedere o rivendicare in modo esasperato di essere “liberato”. In questo caso, letteralmente, il rifugiato sente e vive il sistema di accoglienza come una forza che ha una presa su di lui ed a cui può sfuggire solo se esso volontariamente acconsente ad aprire la mano. L’unica possibilità di azione, dal lato del rifugiato, è la richiesta di essere liberato espressa nella forma della supplica o dell’invettiva, spesso innescata dal ripresentarsi puntuale di quelle frustrazioni e limitazioni a cui si è fatto riferimento più sopra e che derivano direttamente da come è organizzata la struttura o il sistema di accoglienza. In assenza di una risposta positiva alla sua richiesta esasperata, si possono verificare aumenti delle lamentazioni somatiche, degli stati di preoccupazione ansiosa, dell’aggressività verbale o agita fisicamente, fino anche al presentarsi di crisi pantoclastiche arricchite eventualmente da ideazioni persecutorie. Sono tutti vissuti e sintomi che, da una parte, esprimono la subordinazione al sistema. Dall’altra, costituiscono anche una resistenza ad esso ed un’implicita sua delegittimazione (cfr. 40).

Questo vissuto di essere bloccato si lega in qualche modo al luogo (e al senso) comune più sopra descritto e relativo alla capacità del sistema di accoglienza di estrarre ricchezza dalla nuda vita del richiedente asilo o del rifugiato. L’una e l’altra lettura dell’esperienza di accoglienza, rilevabile etnograficamente in particolare nelle persone provenienti dall’Africa Occidentale, rinviano ad una visione della relazione di accoglienza come di una condizione di dipendenza personale, declinata anche nelle sue forme estreme di asservimento o di vera e propria schiavitù (41; 42). Ad esempio, un giovane edo arrivato in una città toscana ancora minorenne esprimeva tranquillamente la seguente visione: gli uomini che hanno ucciso il padre e il fratello e che lo hanno rapito, lo hanno successivamente ceduto ad un “tuareg” che lo ha portato con sé attraverso il Sahara. “L’uomo dalla pelle né chiara né nera” lo ha quindi ceduto ad un “libico” che lo ha fatto lavorare nei suoi orti (senza remunerazione ma solo a fronte di vitto e alloggio in un capanno), fino a che, giunti i combattimenti in quella zona, lo ha fisicamente messo su un gommone affidandolo ad altre persone. Il giovane è poi passato ai militari italiani che hanno tratto in salvo l’imbarcazione e quindi è stato trasferito di struttura di accoglienza in strutturazione di accoglienza, fino a giungere in quella toscana in cui lo incontro. Nella descrizione da lui fornita è evidente la continuità di logica attraverso cui interpreta la sua relazione con tutte queste figure: i nigeriani che lo hanno prelevato inizialmente e poi il “tuareg”, il “libico”, i “militari italiani”, fino agli operatori delle varie strutture di accoglienza attraversate. In altre parole, non c’è una sostanziale differenza di qualità fra il tuareg, il libico e gli operatori; per altro anche le prime due figure lo hanno trattato sostanzialmente bene. Semplicemente lui è passato di mano in mano, restando invariata – dal suo punto di vista – la relazione (di dipendenza personale e sostanzialmente di servitù) in cui è stato di volta in volta collocato, sempre al di là della sua volontà. Se questo può essere considerato un caso particolare ed estremo (nota 9), è però vero che si può riscontrare con una certa frequenza una visione omologa per cui il passaggio da una struttura di accoglienza all’altra risponde ad una logica di trasferimento di ricchezza per regolare rapporti esistenti fra diversi enti gestori.

Il potere riconosciuto all’interlocutore può comportare l’obbedienza e l’adozione di atteggiamenti di rispetto, eventualmente colorati in senso filiale. Può assumere caratteri maggiormente vincolanti, rispetto ai quali il richiedente asilo o rifugiato può mostrare acquiescenza oppure una più o meno eclatante recalcitranza. Può arrivare infine ad essere vissuto in modo decisamente oppressivo e ad esso possono essere attribuiti i caratteri dell’onniscienza e dell’onnipotenza. Questi caratteri possono assumere forme riconoscibili quando la struttura di accoglienza – o qualche sua articolazione – arriva ad essere considerata come emanazione di servizi segreti o polizieschi in azione, oppure può essa stessa essere considerata all’origine di un sistema di controllo persecutorio pervasivo capace di assoldare interlocutori anonimi sparsi nel territorio circostante o proiettarsi addirittura in patria. Viceversa, la struttura di accoglienza o il sistema di accoglienza possono essere considerati come manovalanza inconsapevole o collusa di un potere – sostanzialmente occulto – residente nei luoghi di origine e interno o meno al gruppo familiare.

Si tratta, ovviamente, di costruzioni deliranti rientranti in una complessiva dimensione paranoicale in cui il richiedente asilo o il rifugiato viene a trovarsi. In questi casi, le interpretazioni persecutorie possono attraversare tutti gli ambiti di esperienza, coinvolgendo le relazioni amicali, gli ambiti lavorativi o la società nel suo complesso. Se questa fosse la situazione costante, non avrebbe forse senso o utilità ritagliare e mettere in evidenza l’ambito esperienziale specifico della vita nel sistema di accoglienza. Tuttavia, è necessario sottolineare al riguardo come non siano rari i casi in cui simili interpretazioni e vissuti sono confinati all’esperienza con il sistema di accoglienza, la quale può arrivare per altro a coincidere con l’esperienza di vita tout court (in un movimento di ripiegamento e di incistamento al suo interno). In molti altri casi, inoltre, una dimensione paranoicale complessiva sembra costituire il punto terminale di un percorso che all’inizio prevedeva una focalizzazione ideativa sul sistema di accoglienza. Non bisognerebbe, per altro, spingere più di tanto la contrapposizione, poiché il sistema di accoglienza altro non è che l’acceleratore dell’incontro che i richiedenti asilo e i rifugiati hanno con la società di approdo, un concentrato frontaliero perdurante nel tempo ed esteso in uno spazio incistato del territorio nazionale che prelude a ciò che li attende dopo. Ma fra lo spazio frontaliero dell’accoglienza e quello sociale che lo seguirà c’è una sostanziale omologia (in particolare, ma non esclusivamente, per chi riceverà un qualche tipo di protezione). La sottolineatura della differenza mira semplicemente a evidenziare il ruolo della frontiera internalizzata che accoglie i richiedenti asilo e i rifugiati e che deriva da questa sua capacità di accelerazione dell’incontro asimmetrico fra culture e di concentrazione e intensificazione dei processi di acculturazione.


4. Conclusioni provvisorie

Il panorama complessivo definito – in modo sicuramente parziale – dalle tipologie individuate prevede diversi livelli esperienziali e ideativi. Si va dal senso comune endemico o assai diffuso nella popolazione richiedente asilo e rifugiata ai vissuti e alle ideazioni deliranti (di tipo primario o secondario), passando per le ipotesi e le accuse rivendicative supportate in misura maggiore o minore da dati di realtà. La rilevanza di questo panorama emergente, per altro, non risiede nel grado di verità che esso esprime, quanto nel connotare il sistema di accoglienza come uno strumento di controllo dotato di un potere di condizionamento delle vite delle persone in esso inserite. Questo potere, capace di agire in senso costruttivo e propositivo, e operante spesso effettivamente in tal senso, può però rivelare un lato oscuro vissuto da chi vi è sottoposto all’insegna della predazione, della sottrazione di vita da un lato della relazione e dal parallelo accumulo di ricchezza e forza dall’altro. Siamo ben lontani quindi da una visione irenica dell’accoglienza. Le tipologie di casi descritte mettono in risalto aspetti latenti e impliciti dell’accoglienza, che l’utilizzo di quest’ultima parola – per indicare il complessivo dispositivo di ricezione e di risposta a popoli in fuga – tenderebbe a escludere, ovvero ad occultare. Si possono certamente mettere in relazione i vissuti descritti alle esperienze traumatiche attraversate dai richiedenti asilo e rifugiati in patria o in corso di migrazione, oppure a condizioni psicopatologiche da esse indipendenti. Tuttavia simili spiegazioni non appaiono esaurienti o capaci di saturare il campo dei fenomeni osservati. Per una piena comprensione clinica e per entrare in una relazione terapeutica efficace è necessario considerare il lato latente dell’accoglienza e cioè la sua funzione di controllo derivante dall’esercizio dei poteri statali: sovrano, disciplinare e biopolitico (1). I conflitti, le tensioni, gli agiti aggressivi di tipo verbale o fisico (verso cose e raramente verso persone) ed anche una serie di sintomi diffusi non possono essere letti al di fuori di questo paesaggio complessivo e, soprattutto, dei suoi versanti oscuri e controllanti. Sarebbe limitante, e in definitiva fuorviante, ricondurli esclusivamente alla psicologia o alla psicopatologia dei singoli, oppure a pseudo-spiegazioni culturali che finiscono per far riemergere gli spettri erratici e dolenti dell’antica caratteriologia nazionale (i nigeriani, i gambiani, i pakistani, i siriani…). Entrambe spiegazioni prêt-à-porter di uso corrente nell’ambito dell’accoglienza.

In questo senso, questo articolo cerca di integrare la psicopatologia della migrazione forzata (cfr. 43; 44), andando a specificare come la dimensione frontaliera del sistema di accoglienza contribuisca alla determinazione o alla messa in forma della sofferenza dei richiedenti asilo e dei rifugiati. Ovviamente, l’integrazione apportata non costituisce il tutto e per una comprensione clinica complessiva occorre sempre tenere presente il contributo delle dimensioni culturali e geopolitiche dei paesi di provenienza (18; 19; 20; 39; 45), oltre al ruolo delle evenienze traumatiche in corso di migrazione (38; 46; 47).

Tra i momenti eziopatogenetici che queste diverse prospettive mettono in risalto si possono individuare interazioni plurime e sfaccettate. Ad esempio, si può individuare un effetto di risonanza ritraumatizzante: i richiedenti asilo e i rifugiati possono percepire nel sistema di accoglienza – o in qualche sua parte – qualità o aspetti che richiamano le violenze subite in patria o nel corso della migrazione. Ovviamente, non quelle fisiche, ma altre forme più sottili di violenza che hanno a che fare complessivamente con il misconoscimento della loro specifica umanità (intrisa di aspetti ed elementi culturali, storici, politici…) e in ultima analisi con la riduzione di quest’ultima alla versione proposta dalla società di accoglienza o – in modo ancora più limitante e limitato – alla versione espressa dal sistema di accoglienza (eventualmente in quella promossa dalle recenti disposizioni legislative e amministrative). In fondo, seppure in modo implicito, non intenzionale e a minori livelli di intensità, anche tutto ciò può rientrare nei processi di deumanizzazione e deculturazione (si veda anche: 48). In questo senso, molti anni addietro, Sironi (49) ammoniva che l’universalità può costituire una tortura. Secondo questa possibilità interattiva, l’esperienza attuale del sistema di accoglienza riattiva vissuti e sintomi legati ai traumi passati. Altra possibilità è che il sistema di accoglienza (o alcuni suoi aspetti) sia usato come interlocutore con cui rimettere in scena esperienze traumatiche precedenti, eventualmente invertendo i ruoli. Ancora, le difficoltà e i conflitti attuali – realistici e non realistici, ovvero pretestuosi – con il sistema di accoglienza possono essere usati come difesa per proteggersi dalla riemersione di esperienze traumatiche passate. Tuttavia, in ultima analisi, non può neanche essere esclusa una capacità autonoma del sistema di accoglienza di agire in senso stressante e produrre sofferenze e disturbi. Anche di questo occorre tenere conto nell’elaborazione di strategie generali e locali di risposta ai bisogni di salute mentale di richiedenti asilo e rifugiati (50).


Note

1) Ulteriori elementi rispetto a questo tipo di analisi si possono trovare anche in Kreichauf (5). In questo articolo viene descritto un lavoro di ricerca qualitativo che permette di osservare il processo di trasformazione a livello europeo dell’accoglienza, con politiche e leggi che l’hanno sempre più portata a fondarsi sul modello del “campo” con un abbassamento qualitativi degli standard garantiti (campization).

2) Tutto ciò è ancora vero – almeno in teoria e in larga parte anche in pratica – per le persone accolte nell’ambito dei progetti SIPROIMI (già SPRAR). Non è più vero – fattivamente a partire dal 2019 – per quelle persone accolte nei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS), in conseguenza delle modifiche legislative introdotte dal cosiddetto Decreto Sicurezza e di quelle amministrative volute dall’allora Ministro degli Interni (cfr. 6; 7; 8). Il risultato è un sempre più frequente accoppiamento di vulnerabilità e marginalità (potenziale o effettiva). Un’ulteriore conseguenza consiste nel ripresentarsi, almeno parziale, del problema dell’accesso cui si è fatto più sopra riferimento. In altre parole, rispetto all’accesso, si può prevedere lo svilupparsi di una situazione ibrida e intermedia fra quanto accadeva in epoca di “migrazione economica” e quanto è stato messo in evidenza rispetto all’epoca della “migrazione umanitaria”.

3) Nell’articolo citato, Sayad documenta l’uso dell’audiocassetta come strumento di comunicazione fra l’emigrato e la famiglia rimasta in patria, comparando il tipo di relazione fra gli interlocutori permesso da questo nuovo strumento tecnologico a quello consentito da quelli precedenti e che continuavano comunque ad esercitare la loro funzione: la lettera e il messaggio orale affidato ad un intermediario. Occorre inoltre sottolineare – benché sia possibile farlo solo in modo sintetico e allusivo in questa sede – che l’ulteriore sviluppo tecnologico costituito dalla rete informatica globale permette un cambiamento radicale nelle comunicazioni in corso di migrazione. Le precedenti forme di comunicazione – tramite intermediario umano, lettera o audiocassetta – erano confinate ad una strutturazione bipolare dello spazio: il migrante all’estero e la famiglia in patria. I vecchi strumenti non permettevano in sé altre possibili aperture geografiche e non permettevano di coinvolgere altri interlocutori se non successivamente (ad esempio, inoltrando, la lettera o l’audiocassetta ad una terza persona insediata in un luogo terzo). Il web invece consente di immettere la comunicazione in uno spazio multipolare immediato. Questo nuovo spazio moltiplica gli agenti acculturativi, non più limitati alla società di accoglienza. Lo scenario attuale perciò prevede agenti inculturativi nella società di provenienza (per altro a sua volta attraversata dalle reti di comunicazioni globali, vettori di molteplicità ideologica e politica) e una pluralità di agenti acculturativi contemporaneamente attivi su un medesimo soggetto, aumentando considerevolmente la variabilità delle traiettorie identitarie.

4) Si veda ad esempio il dibattito ospitato dalla rivista Antropologia pubblica (volume 3, numero 1 del 2017; https://riviste-clueb.online/index.php/anpub/issue/view/12) sull’eventuale ruolo degli antropologi (o di laureati in antropologia) nel lavoro con richiedenti asilo e rifugiati e più in generale nell’ambito del sistema di accoglienza. In particolare si rimanda alle analisi di Saitta e Cutolo (24) e Sbriccoli (25).

5) In questo contesto mi occuperò solo dei richiedenti asilo e rifugiati, mentre sono costretto a rimandare ad altra sede una riflessione riguardante gli operatori delle strutture di accoglienza.

6) In particolare, secondo gli autori canadesi citati, questa ricerca avviene nell’ambito del gruppo di pagamento Dia (termine usato nel sud della Somalia) o Mag (termine usato al nord), definito a partire da un antenato comune nell’arco di 4-8 generazioni precedenti. Le conoscenze genealogiche di ciascuno permettono un rapido confronto per l’individuazione di tali intersezioni nelle ascendenze in linea paterna.

7) Questo è vero ad esempio per il ruolo di padre o di marito, in assenza di un lavoro: situazione che sposta il potere economico dal genitore agli operatori dell’accoglienza che materialmente erogano i rimborsi e “decidono” sulla loro ammissibilità (ovviamente sulla base di regole generali di ammissibilità, ma anche sulla base di economie indicate dagli enti gestori). Questo spostamento è avvertito dall’interessato come sottrazione di potere personale (di tipo genitoriale o di genere) e di fatto modifica le relazioni interne alla famiglia. Per altro verso, le donne possono vedere modificati, o ampliati, i propri compiti di madre, ad esempio includendo compiti di tipo lavorativo. Questi cambiamenti possono essere vissuti positivamente, come apertura di nuove possibilità, ma anche negativamente, per una serie variegata di ragioni (che vanno dalla non valorizzazione della dimensione lavorativa come mezzo di affermazione di sé, alla difficoltà ad assumere posture assertive nella sfera pubblica).

8) In modo più o meno paradossale, a seconda dei punti di vista, il Decreto Sicurezza e le decisioni amministrative connesse realizzano ciò che queste critiche stigmatizzavano, facendo dei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS) dei luoghi cui è richiesto – per non dire permesso – di garantire solamente vitto e alloggio, cioè la sussistenza in vita. Al riguardo, si può mestamente dire che nello spazio frontaliero dell’accoglienza si riconoscono come attivi molti dei processi acculturativi descritti da Devereux, e in particolare quelli adottati dalla società americana nei confronti dei nativi indiani o della popolazione afroamericana (39). Si pensi ad esempio al problema dell’apprendimento della lingua italiana. Si può considerare questo come il passaggio di un item culturale da una cultura (dominante) ad altre in posizione subalterna. La lingua italiana può essere appresa in diversi modi fra loro in contraddizione. Ad un estremo, si possono trovare le concezioni e i vissuti per cui essa costituisce una delle “difese eccellenti” che permette a un qualunque membro della cultura subalterna di agire nel nuovo contesto. All’altro estremo, emergono le concezioni e i vissuti per cui essa finisce per costituire un’imposizione opprimente. Queste concezioni e questi vissuti dipendono da una pluralità di fattori oggettivi e soggettivi concernenti i singoli rifugiati, i collettivi di rifugiati nelle singole strutture o ancora l’insieme dei rifugiati appresi come collettività. Si possono prendere in considerazione le modalità effettive di erogazione dei corsi di italiano, spesso non particolarmente invitanti o comunque non riconosciuti dagli interessati come utili o interessanti. Si possono considerare le valutazioni dei richiedenti asilo e rifugiati rispetto alle effettive possibilità di inserimento nella società di accoglienza e all’utilità della lingua italiana in questo senso. Da questo punto di vista, ad esempio, almeno in alcune realtà toscane, sarebbe forse preferibile per loro imparare il cinese (sic!). Di fatto, quando nei CAS i corsi di italiano erano obbligatori, spesso i richiedenti asilo sembravano comportarsi rispetto alla lingua come i marinai di un tempo – quando i naufragi erano evento relativamente frequente – che rifiutavano intenzionalmente di imparare a nuotare per evitare di soffrire nell’inutile attesa di un aiuto in mare aperto. Col nuovo assetto amministrativo – che non prevede più risorse per i corsi di italiano – la società di accoglienza, ovvero il suo livello politico, decide di non fornire più quei mezzi culturali che, se efficacemente investiti, costituirebbero dei validi strumenti di difesa in mano ai richiedenti asilo e ai rifugiati. In sostanza, è stato deciso di impoverire ulteriormente, dal punto di vista sociale e culturale, il settore della società al cui interno si verificano i processi di acculturazione e di adattamento – se si vuole – di questa fascia di popolazione. Detto in altri termini, si allestiscono processi acculturativi in luoghi di vita, di apprendimento e di crescita che si possono considerare vieppiù marginali e marginalizzati.

9) È da sottolineare che il ragazzo, prelevato intorno ai 15 anni, da una zona impervia della Nigeria da cui non si era mai allontanato, ignorava di essere “nigeriano”: cioè di essere cittadino di quello stato. Erano state altre persone che parlavano la sua lingua a spiegarglielo una volta giunto in Italia. Di fatto, tutto il mondo che si trovava di fronte in Italia era per lui del tutto sconosciuto: persino gli oggetti più banali del quotidiano. Allo stesso modo, l’identificazione del “tuareg”, piuttosto che del “libico” o dei “militari italiani” è stata effettuata sulla base delle sue descrizioni dell’aspetto fisico e dell’abbigliamento di queste persone e rimane del tutto ipotetica, benché altrettanto verosimile. Lo stesso si può dire dei luoghi da lui attraversati: il Sahara e la Libia.


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