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Elementi di ricerca e documentazione fotografica delle ex strutture manicomiali in Italia

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La fotografia ha un potere: fermare il tempo. Caratteristica che non possiamo minimamente mettere in discussione.
Adoro il linguaggio fotografico per la sua capacità di diffusione: la fotografia è una lingua universale che non conosce confini geografici, non conosce differenze etniche e non conosce età. La fotografia comunica indipendentemente tutto questo e oggi viviamo in un periodo storico estremamente prolifico per questo linguaggio: basti pensare che solo dal cellulare, nel 2014, sono state scattate circa 880 miliardi di fotografie. (1)

Mi chiamo Giacomo Doni, sono un fotografo e dal 2006 porto avanti un progetto di tutela della memoria manicomiale in Italia.

Io, classe 1980, sono nato in un epoca “ufficialmente” senza manicomi e mi rendevo conto di non sapere praticamente niente su questi luoghi di confine, periferie sociali dove si incontrano i tre attori protagonisti: i pazienti di questi ospedali, i loro lavoratori e tutte le figure occulte che vivevano fuori dalla mura, “i normali”, i veri protagonisti invisibili del mondo manicomiale.

Il linguaggio fotografico ha il potere di creare relazioni - “Se la foto non è buona, vuol dire che non eri abbastanza vicino” diceva Robert Capa - di portarti esattamente dentro la storia che vuoi raccontare e di fermare il tempo, rendendolo eterno e riproducibile; decido così di intraprendere un percorso che mi porti alla scoperta di questo mondo “sommerso” che non ho potuto vivere e conoscere per motivi cronologici.
Muoversi dentro queste zone di confine raccogliendo immagini di architetture che furono, ci fa capire quanto i meccanismi di esclusione siano sempre stati presenti nella storia dell’uomo.
A differenza dell’archeologia industriale, raccontare questo spaccato di storia sanitaria ha una portata emotiva incredibilmente più vasta e lo possiamo riscontrare in primis sulle persone che l’hanno vissuto attivamente: durante le mie ricerche fotografiche ho chiesto sempre di essere accompagnato da personale che ha vissuto il posto e ho sempre trovato persone che non si sono mai trattenuti dal raccontare. Come se si togliesse il tappo alla scatola delle emozioni e fuoriuscissero tutte fuori senza controllo. Un mondo che segna il paesaggio periferico delle città quanto il cuore di chi l’ha vissuto.

Scoprirò sulla mia pelle l’importanza di questo genere fotografico quando, chiedendo un secondo permesso per una nuova sessione fotografica, mi venne negato perché la struttura fu dichiarata inagibile e non più visitabile. E quelle fotografie che avevo fatto le potevo considerare come ultima rappresentazione di quello spazio manicomiale, un epitaffio visivo di un modello di esclusione morto nel 1978. E insieme alle loro geometrie architettoniche anche le storie che popolavano il silenzio di quei corridoi.

figura 1

Fare fotografia della memoria è combinare le informazioni di queste strutture e le immagini di ciò che resta con le storie di chi ha vissuto questi luoghi.
Perché se definiamo la fotografia un corpo, i racconti sono indubbiamente la loro anima.

Decido così di arricchire questi scatti recuperando anche le storie, le testimonianze, gli sguardi. Parallelismi che riescono a offrire diversi punti di vista su questo svariato e vastissimo argomento, capaci anche di farci leggere la realtà in un modo differente.

Ragionare in termini di fotografia di memoria ci mette nella condizione di ricercare tutti gli elementi capaci di generare un discorso nel presente che sia in grado di avere un valore nel futuro, istantanee di realtà che si arricchiscono con storie che devono ancora accadere.
Storie che possono rafforzare il loro significato originale o addirittura stravolgerlo, ma che in ogni caso non lo lasciano mai nella stessa posizione storica ed emotiva in cui l’abbiamo trovato.

La fotografia acquista così un valore diverso, nuovo, perché va a nutrirsi di tutto quello che il passare del tempo le riserva.
Nel corso della mia ricerca ho fotografato 14 manicomi e 2 OPG disseminati sul territorio nazionale ma quello che ha fatto la differenza sono stati proprio i racconti, perché qualsiasi spazio in cui sono vissute delle persone si trasforma inevitabilmente in una biblioteca di storie.

Ecco qualche esempio: durante la sessione fotografica nell’ex manicomio di Mombello, la guida mi mostrò un vecchio album di fotografie realizzato da Vincenzo Aragozzini, che ritraeva il manicomio durante il periodo fascista. Decisi di digitalizzare quel patrimonio culturale sia per conservarlo che per studiare e divulgare la storia di quegli scatti perché, essendo un reportage realizzato sotto il regime, tutte le immagini che lo compongono sono state costruite prima di ogni scatto.
Manicomio, distorsione della realtà e immaginario collettivo: tutti argomenti che possono diramarsi in molteplici discussioni. (2)

figura 2

Nel 2007 mi trovo nel manicomio di Cogoleto, in Liguria, quando vedo per la prima volta il Presepe: una gigantesca composizione artistica che si estende dentro i 500 mq. del padiglione che lo ospita, realizzato nella prima metà degli anni 80. Opera collettiva di pazienti ed infermieri, il Presepe viene alla luce con lo scopo di mostrare al mondo il quotidiano dentro il manicomio più esteso d’Italia.
Non essendo stato possibile recuperarlo e neppure restaurarlo, il manicomio di Genova Quarto ha deciso di iniziare una sua ricostruzione moderna per non perdere completamente questa importante testimonianza storica e umana. (3)

figura 3

Alcuni pazienti alfabetizzati ricoverati in manicomio erano soliti scrivere lettere che non venivano mai spedite fuori dall’istituto. Ho fotografato e trascritto alcune di queste trasformandole in un reading, per renderci tutti quanti destinatari involontari, di voci che non sono mai state in grado di parlare. (4)

figura 4

Il linguaggio fotografico ha il potere di creare relazioni, e il mondo della salute mentale ne è incredibilmente pieno: storie uniche di un’umanità che non possiamo trovare in altri ambienti, un mosaico di relazioni che ci mostra quanto le problematiche del mondo siano rimaste invariate nonostante l’andare avanti degli anni.

La mia ricerca però non vuole essere circoscritta alle storie del passato che sono legate alle fotografie che scatto, chi racconta qualcosa che sta scomparendo ha il dovere di trasformare la narrazione su un piano più attuale, ha il dovere di raccontare nel linguaggio contemporaneo ciò di cui è stato testimone, di creare un tessuto di divulgazione capace di combattere lo stigma e la paura, ostacoli per qualsiasi forma di integrazione.

Continuerò a raccontare manicomi e a salvare storie inascoltate attraverso canali diversi e non convenzionali: in sinergia con la fotografia, sono al lavoro per creare una piattaforma che raccolga e conservi le memorie orali di chi ha vissuto il manicomio, altro immenso patrimonio umano che il tempo non risparmierà, e la creazione di un gioco da tavolo sulla legge 180, per diffondere questa nostra grandissima conquista sociale a chi, come me, è nato dopo la riforma.

Perché chi fa fotografia di memoria ha il dovere di salvare e rendere noto a più persone possibile queste storie.

Perché una cosa muore solo quando viene dimenticata. E noi questo, non possiamo proprio permettercelo.


Note

1) https://www.huffingtonpost.it/luca-romano/880-miliardi-di-foto-in-un-anno-ecco-come-cambia-la-fotografia-nellera-dei-cellulari_b_9166662.html

2) ERA MOMBELLO - https://www.giacomodoni.com/era-mombello/

3) ANIME DI CARTAPESTA - https://www.giacomodoni.com/anime-cartapesta/

4) PERDONA IL MAL SCRITTO - https://www.giacomodoni.com/pims/