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Relazioni di cura: dal rapporto individuale ai gruppi terapeutici e multifamiliari. L’esperienza in un Servizio di Salute Mentale

Autori


Corresponding author:
Sandro Domenichetti, psichiatra, Resp. UFSMA Mugello, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo., cell. 333 3145527, fax 055 8451566


Riassunto

Gli autori descrivono la cornice teorica necessaria ad iniziare la sperimentazione presso il Servizio di Salute Mentale della zona Mugello (USL Centro Toscana) di gruppi multifamiliari secondo l’approccio di Mendelbaum. Il gruppo multifamiliare è costituito infatti da un “incontro di gruppi di persone unite da vincoli familiari (di sangue o di alleanza) e legate a un membro sintomatico, intente esplicitamente o implicitamente a stabilire una rete sociale che fornisca coesione e supporto reciproco e un’accoglienza della sofferenza con l’aiuto di un equipe professionale. Possiamo affermare che la condivisione dell’esperienza psicoterapeutica di gruppo sta operando come potente strumento di cura degli utenti di un Servizio di Salute Mentale e come dispositivo di trasformazione della cultura e dell’operatività del nostro Servizio e ha obbligato il Servizio di Salute Mentale del Mugello ad una ridefinizione del suo assetto istituzionale e culturale favorendo la sua trasformazione da agenti inconsapevoli della resistenza ad agenti consapevoli di cambiamento.


Abstract

The authors describe the theoretical framework necessary to begin experimentation at the Mental Health Service of the Mugello area (USL Centro Toscana) of multi-family groups according to the Mendelbaum approach. The multi-family group consists of a "meeting of groups of people united by family ties (of blood or alliance) and linked to a symptomatic member, intent explicitly or implicitly to establish a social network that provides cohesion and mutual support and a acceptance of suffering with the help of a professional team. We can affirm that the sharing of the group psychotherapeutic experience is working as a powerful tool for the care of users of a Mental Health Service and as a device for transforming the culture and operation of our Service and has forced the Mental Health Service of Mugello a redefinition of its institutional and cultural structure, encouraging its transformation from unconscious agents of resistance to agents aware of change.


Introduzione

L’interesse per il lavoro psicoterapeutico di gruppo e per una sua applicazione all’interno di un Servizio di Salute Mentale è da porre in relazione a concetti teorici che vedono l’appartenenza a un gruppo come preesistente alla soggettivizzazione dell’individuo (“L’essere umano, prima di diventare soggetto, appartiene ad un gruppo, anzi, nello stato di indifferenziazione che precede la distinzione io – non io, egli è il gruppo. Sono infattii gruppi primari che formano gli individui e non viceversa”, J. Bleger) e che quindi individuano la stessa psicopatogenesi in contesti gruppali (famiglia, comunità di vita, luogo di lavoro, ecc.) e lo stesso spazio di cura in un setting gruppale in un ambulatorio specialistico, in una sorta di “come se” (“L’uomo si ammala in gruppo e solo nel gruppo può trovare la sua guarigione”, E. Mandelbaum). Le opportunità di investire su un lavoro terapeutico gruppale nel Servizi di Salute Mentale si correla inoltre al bisogno di ripensare alcuni aspetti significativi della pratica psichiatrica quotidiana avvertiti come insufficienti, soprattutto di fronte al problema della cronicità, oltre che con il particolare momento storico che i nostri servizi attraversano, carenza di risorse a fronte di una tendenza ad un notevole aumento delle richieste. Il tema della cronicità riguarda non solo l’utente, ma soprattutto la relazione operatore-utente e in ultima analisi il gruppo di lavoro nelle sue stereotipate forme di intervento terapeutico, tipicamente strutturate sulla relazione duale.Tale assetto relazionale tende a limitare nella sua immodificabilità nel tempo e quindi a cronicizzare la possibilità di risposta ai bisogni sia degli operatori appartenenti al gruppo di lavoro stesso sia a quelli portati dagli utenti durante il loro percorso di cura.In questa fase inquadriamo quindi nell’elemento “gruppo” la necessaria risorsa su cui investire per affrontare la situazione: innanzitutto il gruppo di lavoro che ha la possibilità di cogliere una grande opportunità di reinvestimento nella sua competenza professionale; il ricorso ai gruppi terapeutici come strumento che combina l’elemento di efficienza con l’opportunità di effettuare una perturbazione strategicamente orientata che modifichi l’equilibrio andato in crisi (l’impantanarsi sulla cronicità della relazione di cura, l’elevato numero di richieste in carenza di offerta, la psicopatogenesi in contesti gruppali) in una direzione di riorganizzazione evolutiva e con quello di efficacia terapeutica.

Dobbiamo in sostanza chiederci se noi, nella nostra pratica quotidiana attiviamo sufficientemente una funzione gruppale nella mente degli operatori del Servizio, così come nella mente del paziente e dei familiari.

L’assetto gruppale, rispetto a quello individuale, ci aiuta a mettere insieme più angolature e livelli di lettura delle situazioni: è proprio quando crediamo di sapere qualcosa che dobbiamo iniziare a guardarla da un’altra prospettiva. Questo, a nostro avviso, è il modo per avviare un processo di cambiamento del “cronico che avanza”.

Perché allora la difficoltà a passare in un Servizio di Salute Mentale da una relazione di cura individuale ad una fase gruppale?

Evidenziamo più livelli problematici nell’invio da una fase individuale ad un gruppo terapeutico:

  1. Istituzionale: L’assetto tradizionale è indubbiamente quello della relazione duale, in un rapporto vincolato e vincolante terapeuta-paziente;se l’istituzione si burocratizza e ostacola il suo aggiornamento induce una resistenza al cambiamento e un mantenimento dell’offerta “tradizionale” (rapporto di cura individuale) a cui si adegua la domanda. L’Interazione fra domanda e offerta è strutturata in maniera tale che si modifica l’istituzione modificando l’offerta: devi conoscere qualcosa per poterla desiderare. L’offerta può indurre la domanda o creare resistenza. Se non si abbassa il livello di resistenza non si può ottenere un processo di cambiamento culturale. Se invece l’istituzione è in grado di formulare una nuova offerta si realizza la possibilità di cambiare vincolo. Dobbiamo avere il coraggio di rivedere i vecchi modelli burocratizzati, a volte troppo sacralizzati, non per smantellarli, ma per migliorarli e renderli più adeguati alle nuove richieste.
  2. Gruppale (è il gruppo di lavoro): la difficoltà è quella di lavorare per uscire da un rapporto di cronicizzazione degli utenti con il Servizio, cioè una relazione talmente stereotipata da non permettere di intravedere alcun cambiamento di sorta. Se il gruppo di lavoro non esiste o non funziona abbastanza non possiamo fare terapia di gruppo con i pazienti. I gruppi di lavoro, come così i gruppi terapeutici devono essere dei luoghi transizionali, di passaggio; all’interno di un gruppo terapeutico il paziente può fare esperienza di altri modi di convivenza e di nuovi assetti relazionali. Quanto un gruppo terapeutico viene considerato da un gruppo di lavoro non coeso e diviso un “immondezzaio” o piuttosto “specchio delle brame”o “lusso improponibile” del singolo terapeuta? Si passa da svalutazione a invidie all’interno di un gruppo di lavoro “conservatore”, rispetto ai “modernisti” proponenti la formazione di un gruppo terapeutico; in’ultima analisi è nel gruppo di lavoro stesso che si gioca la formazione o meno del gruppo terapeutico. Dobbiamo riuscire a creare un gruppo di lavoro, un lavoro gruppale condiviso, tenendo insieme due aspetti: il tu della responsabilità (mia come operatore e tua come utente) e il noi del gruppo.
  3. Individuale: Si tratta di un problema speculare che coinvolge operatori e pazienti e che si traduce in una dipendenza degli operatori dai pazienti e dei pazienti dai terapeuti e dai farmaci. Possiamo dire che non vi è alcun avanzamento terapeutico senza l’analisi del rapporto vincolare che pazienti e terapeuta hanno con la malattia e la cura. Più in specifico intravediamo le rispettive seguenti difficoltà:
    1. Terapeuta: difficoltà di separazione dal paziente, sfiducia nel gruppo di lavoro, difficoltà di delegare ad altri operatori. Quanto consideriamo “nostri” i pazienti e quanto piuttosto in cura ad un Servizio?
    2. Utente: un vincolo relazionale con il terapeuta, ma soprattutto con un istituto burocratizzato. I ricorrenti temi abbandonici e paure del paziente in questa fase di passaggio sono frequenti ed è necessario accoglierli, ma anche aiutare ad affrontarli per liberarsi dal “vincolo” per avviarsi ad essere più autonomo e responsabile nella cura.

In sostanza, dobbiamo lavorare in gruppo senza avere paura del gruppo.


Discussione

Per quanto riguarda i gruppi terapeutici in formazione, ci siamo rifatti alla tecnica del gruppo operativo ideato da Pichon Riviere e dalla sua scuola, individuando alcuni punti cardine che ne rappresentassero il minimo comune denominatore: una configurazione che oltre ai parametri canonici del setting (spazio, tempo, ruolo, compito) include tutte quelle latenze che attengono appunto all’implicazione del paziente e del terapeuta con la dimensione istituzionale e transferale della cura; vincoli in cui non si può certo considerare estraneo l’esito stesso della terapia.

  1. Invio: in “toto”. L’invio è pensato non a “pezzi”, ma per intero, quando un utente viene inviato in un gruppo la sua tappa di cura verrà rappresentata unicamente dal gruppo terapeutico per tutta la sua durata.
  2. Ruolo: la Coordinazione: ridistribuzione e restituzione di quello che si muove nel gruppo (non direttivo, essere “dentro”, testimoni diretti e agenti consapevoli dei processi di cambiamento, paziente “protagonista” della propria cura). In genere la coordinazione è composta da un coordinatore e un osservatore, in alcuni gruppi terapeutici abbiamoprevisto la presenza di un terzo operatore che funga da cocoordinatore.
  3. Spazio: CSM o Centro Diurno di Borgo San Lorenzo
  4. Tempo: incontri di un’ora con successiva ridiscussione degli operatori nella mezz’ora successiva. In particolare il setting è stato predisposto in modo da prevedere l’inclusione di uno spazio-tempo utile ai fini della trattazione delle terapie psicofarmacologiche assunte dai pazienti. Questa inclusione, fortementeinnovativa e potenzialmente in grado di favorire l’elaborazione all’interno dello spazio terapeutico del gruppo del rapporto dei pazienti con i farmaci, consiste nel riservare il primo o l’ultimo quarto d’ora di ogni incontro alla discussione sui medicinali assunti dai pazienti.
  5. Compito: la definizione di un contratto terapeutico con gli utenti del gruppo, stabilito attraverso una fase di contrattazione che prevede un lavoro di costruzione di obiettivi e durata del lavoro terapeutico.

Dobbiamo tuttavia, affrontare dei cambiamenti definibili come economico-strategico-evolutivi all’interno del Servizio: non solo la frequenza (gruppi terapeutici a frequenza classica settimanale, ma anche in alcuni casi con frequenza una volta ogni due settimane in situazioni meno acute e più “diluibili”, in questo caso con durata di un’ora e mezzo della seduta), ma anche la coordinazione non più esclusivo appannaggio del medico, ma più in generale dell’operatore della salute mentale (infermiere o educatore) che funge per lo più da cocordinatore e/osservatore.

Tipicamente, all’avvio di ogni gruppo terapeutico ed in particolare proprio al primo incontro, di fronte alle rituali domande concernenti le motivazionie le aspettative riposte nella terapia di gruppo, gli utenti si trincerano dapprima dietro risposte del tipo: “Sono qui perché mi ha mandato il Dottore”, e poi dietro a più esplicite richieste rivolte al coordinatore affinché prenda in mano la situazione e dica lui perché erano lì e che cosa avrebbero dovuto fare. Gli utenti cioè, con il loro atteggiamento, in genere negano con forza che si tratti di un primo incontro, che ci si trovi di fronte ad una situazione nuova e perfino che loro possano avere una qualche contrattualità esprimibile almeno in un’accettazione o in un rifiuto. Nel corso del processo terapeutico dei gruppi terapeutici, questi ed altri aspetti di cronicità istituzionale si ripresentano continuamente costringendo il coordinatore a ripetuti “non so”, “non conosco”, “può spiegare?”, nel tentativo di favorire il lavoro di discriminazione tra vecchio e nuovo, passato e presente, dentro e fuori. È tipico che i primi mesi dall’avvio del gruppo a più riprese alcuni pazienti telefonicamente o di persona, si rivolgono al Servizio al di fuori degli appuntamenti concordati, ora con richieste sui farmaci, ora segnalando uno stato di malessere, ora semplicemente per parlare. Con il tempo gli utenti imparano a tollerare meglio sia l’astinenza del rapporto, che i rinvii allo spazio e al tempo terapeutici del gruppo.

Sicuramente un altro momento particolarmente delicato e significativo è nella chiusura dei gruppi. Già a qualche incontro dal termine dei rispettivi gruppi, gli utenti iniziano a chiedere con maggiore insistenza notizie sulla possibilità di continuare la terapia, ovvero se debbano tornare al precedente terapeuta o cos’altro li attenda. Di fronte al richiamo dei rispettivi coordinatori al qui e ora dell’esperienza di separazione, sovente i pazienti reagiscono riproponendo aspetti regressivi, propri della fase iniziale della terapia. Permettere al gruppo la possibilità di affrontare una separazione ed implicitamente riconoscere il percorso degli utenti richiede la massima fermezza del coordinatore di non accettare alcuna forma di ricontrattazione prima del termine del gruppo. Possiamo dunque dire che non vi è alcun avanzamento terapeutico senza l’analisi del rapporto vincolare che pazienti e terapeuta hanno con la malattia e la cura.


Conclusioni

In genere per tutti i pazienti che portano a termine la terapia gruppale osserviamo una significativa riduzione dell’assunzione degli psicofarmaci, così come risulta evidente il miglioramento della sintomatologia e soprattutto il miglioramento nelle modalità delle relazioni interpersonali.

Per questi motivi l’esperienza sta assumendo, accanto alla naturale connotazione terapeutica, anche il significato di momento di ricerca, di confronto e di riflessione sia per gli operatori direttamente coinvolti che per tutto il Servizio, in modo da modificare l’equilibrio andato in crisi in una direzione di riorganizzazione evolutiva del Servizio e quindi convertire una necessità di cambiamento in termini economici in un una grandeopportunità di ridefinizione istituzionale e culturale per il Servizio di Salute Mentale.

Nel corso del biennio maggio 2015-maggio 2017 abbiamo costituito, svolto e concluso tre gruppi terapeutici. Complessivamente gli invii sono stati di 42 utenti: con 36 abbiamo definito un contratto terapeutico, e hanno concluso il percorso 22 pazienti mentre durante il biennio 12 sono stati i drop out. Allo stato attuale è stato avviato di recente (novembre 2017) un nuovo gruppo terapeutico e ne verrà avviato un secondo nel gennaio 2018.

Tali considerazioni e applicazioni attinenti alla pratica clinica quotidianasui gruppi terapeutici si combinano con riflessioni culturali e teoriche che vedono nel lavoro famiglia un ruolo terapeutico centrale. La famiglia infatti è per definizione il “gruppo primario” e funziona come un setting terapeutico dove gli integranti si sentono “contenuti” (funzione istituzionale di deposito e blocco delle parti più immature della personalità) e quindi più liberi di “avventurarsi” nella sperimentazione di percorsi di crescita. Quando la famiglia attraversa fasi di instabilità o cambiamento il membro che si è fatto maggiormente carico delle ansie e dei conflitti famigliari, può veder crollare le proprie difese e divenire il depositario del ruolo di malato (capro espiatorio).

Abbiamo quindi pensato di combinare nella pratica clinica la variabile “gruppo terapeutico” e la variabile “famiglia” avviando anchegruppi composti da famiglie, definiti in letteratura come “multifamiliari”. Il gruppo multifamiliare (GMF) è costituito infatti da un “incontro di gruppi di persone unite da vincoli familiari (di sangue o di alleanza) e legate a un membro sintomatico, intente esplicitamente o implicitamente a stabilire una rete sociale che fornisca coesione e supporto reciproco e un’accoglienza della sofferenza con l’aiuto di un equipe professionale” (A. Canevaro), Il GMF rappresenta dunque un vero e proprio “gruppo di gruppi”, suggerendone con tale definizione uno strumento e spazio di cura dalle alte potenzialità terapeutiche.

Rispetto ai gruppi terapeutici“classici” i GMF hanno, secondo Mendelbaum, tre meccanismi di azione specifici:

  1. Comunicazione interfamiliare: rispetto e dignità per quello che ogni partecipante esprime, favorire l’innesco dei processi di elaborazione di gran parte del dolore presente.
  2. Risonanza:straordinaria carica emozionale dovuta a dinamica intra e interfamiliare presente nel gruppo che accelera i processi di cambiamento.
  3. Modeling: Sviluppo di un comportamento più adeguato alle necessità emozionali dei propri membri, capacità diversa di risolvere la conflittualità e di affrontare in maniera più sana le situazioni di crisi.

Nei GMF tipicamente nella fase di precompito i “cosiddetti sani”, tentano sempre una ridefinizione dell’invio qualificandosi come “accompagnatori” dei “cosiddetti malati”; i “malati” accettano passivamente questo ruolo, lasciandosi trattare, senza reagire, come “bimbi deficienti”.

Le famiglie tendono a prendere posto, in cerchio, senza mescolarsi; presto i membri “sani” iniziano la descrizione delle “mancanze” di cui si renderebbero “colpevoli” i membri “malati”; gli sforzi compiuti, le terapie inutilmente tentate, il sentimento di impotenza che li attanaglia…per concludere con la richiesta rituale, rivolta ai terapeuti, di fare qualcosa per “guarirli”!”. Nella fase di precompito la funzione della coordinazione sarà pertanto quello di “dar voce” a tutti i membri del gruppo, stando ben attento a non “schierarsi”, più o meno consapevolmente, con un sottogruppo o con un altro (per rinforzare il setting come luogo in grado di contenere le ansie degli integranti del gruppo). Se in questa fase, che tenderà a ripresentarsi tutte le volte che il gruppo si troverà di fronte ad un cambiamento, la coordinazione riuscirà a non cedere né alle lusinghe collusive dei “sani” né alle richieste di “dipendenza” dei “malati”, il gruppo potrà avviarsi nel difficile percorso che, nel migliore dei casi, produrrà una crescita (nel senso di una maggiore discriminazione, differenziazione, personificazione) in ciascuno dei suoi membri.

Il favorevole ingresso nella fase di compito, mediato dal lavoro interpretativo del coordinatore, ma anche favorito della funzione contenitiva espressa dal setting, ci verrà segnalato dal manifestarsi di una posizione depressiva legata alla percezione della perdita della precedente posizione di dipendenza dal gruppo famigliare ma anche da un’attenuazione della posizione paranoidea di fronte alla minacciosità del nuovo. La funzione della coordinazione nella fase di compito sarà quindi quella di aiutare e sostenere il gruppo ad affrontare ed elaborare le ansie e le angosce derivanti dalla rottura dello stereotipo e all’apertura, rottura e trasformazione dei vincoli con i gruppi primari, accompagnando i singoli soggetti (in particolare i cosiddetti “malati”) dall’indiscriminazioneverso la discriminazione.

Nel nostro Centro di Salute Mentale abbiamo appena costituito e avviato, nel corso del bimestre novembre-dicembre 2017, due gruppi multifamiliari composti complessivamente da 15 famiglie.

In conclusione possiamo affermare che la condivisione dell’esperienza psicoterapeutica di gruppo sta operando come potente strumento di cura degli utenti di un Servizio di salute mentale e come dispositivo di trasformazione della cultura e dell’operatività del nostro Servizio e ha obbligato il Servizio di Salute Mentale del Mugello ad una ridefinizione del suo assetto istituzionale e culturale favorendo la sua trasformazione da agenti inconsapevoli della resistenza ad agenti consapevoli di cambiamento. In un prossimo articolo porteremo una prima descrizione e riflessione sulla nostra esperienza di Gruppo Multifamiliare.


Riferimenti bibliografici

1) José Bleger. Psicoigiene e psicologia istituzionale. Psicoanalisi applicata agli individui, ai gruppi e alle istituzioni. Meridiana, 2011

2) Eduardo Mandelbaum. Teoria e Pratica dei Gruppi Multifamiliari. Nicomp Saggi.2017

3) Didier Anzieu. L’Io-pelle. Raffaello Cortina, 2017

4) Alfredo Canevaro, Stefano Bonifazi. Il gruppo multifamiliare. Un approccio esperienziale. Armando Editore, 2011