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Servizio «forte» ed integrazione: organizzare le risorse

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Contatti: Roberto Mezzina, Direttore Dipartimento di Salute Mentale – ASUITS/WHO Collaborating Centre for Research and Training. Mail to: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.; Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.


1. I servizi di salute mentale: la realtà del FVG.

A seguito della riforma sanitaria regionale avviata nel 2015, nella Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia sono state costituite 5 aziende miste, di cui sono in fase di accorpamento le aziende sanitarie territoriali e le aziende sanitarie ospedaliere, e che a Trieste e Udine includono anche l’Università, cui corrispondono altrettanti DSM. Essi sono composti da 16 CSM sulle 24 ore, dotati di complessivi 113 p.l., in cui operano equipe multi professionali relativamente numerose rispetto ad altre realtà della nostra nazione, con buona proiezione territoriale. In quanto dipartimento strutturale, ha un suo budget che viene negoziato annualmente. In regione vi sono solo 3 SPDC, con 36 p.l. (a regime 30), e 3 REMS con 6 p.l. complessivi (10 a regime). E’ in corso un processo di superamento delle strutture residenziali con l’utilizzo della metodologia Budget individuale di salute. L’attività del CSM 24 ore è rivolta ad accogliere la domanda di cura delle persone adulte del territorio di riferimento, e non sono necessarie particolari procedure: la richiesta può essere posta direttamente dalla persona interessata e/o da terzi coinvolti (congiunti e familiari, parenti, amici, vicini di casa, persone a vario titolo coinvolte) al CSM competente per una data e definita area territoriale. Il primo contatto, nella realtà del FVG, può avvenire anche in sedi diverse da quella del CSM, presso il Distretto, a domicilio, o presso altre agenzie, istituzioni o strutture sociosanitarie. L’arrivo al CSM tramite il SPDC riguarda esclusivamente persone la cui domanda – generalmente d’urgenza o d’emergenza – sia pervenuta alle strutture di pronto soccorso dell’ospedale. I CSM si caratterizzano come luogo d’incontro e di scambio, offrendo prestazioni, interventi e programmi sia per gli utenti che per i familiari. Sono attivi sulle 24 ore, con 6-8 posti letto per l’ospitalità diurna e notturna; svolgono attività di emergenza e urgenza, ambulatoriali, di day hospital e di centro diurno, accogliendo domande molto diversificate. Gestiscono inoltre situazioni di abitare assistito, quali gruppi - appartamento, piccole comunità terapeutiche e gruppi di convivenza. Lo stile di lavoro privilegia la continuità dell’intervento terapeutico - riabilitativo, specie per le persone che soffrono di disturbi mentali gravi. Tale criterio prevede di sostenere la persona nell’esercizio di fondamentali diritti e nell’accesso a opportunità sociali (casa, istruzione, formazione al lavoro, gestione della salute, attività del tempo libero), accompagnandola nei suoi percorsi abilitativi e orientandola nel rapporto con altri servizi e istituzioni. Per le stesse ragioni il servizio è organizzato per intervenire nei diversi luoghi in cui l’utente si trova: non solo la sua abitazione, ma anche l’ospedale, le case di riposo, fino eventualmente al carcere e alla REMS (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza). I CSM assicurano interventi che comprendono programmi di cura, progetti assistenziali, programmi psicosociali e riabilitativi personalizzati, elaborati per ciascun utente attraverso l’attività multidisciplinare svolta dall’équipe, anche in rete con le altre agenzie territoriali (Ambito socio-assistenziale, Distretto, Comune). Il numero totale dei CSM in Regione FVG è di 22, numero adeguato a costituire una rete territoriale di servizi di prossimità con l’utenza e la comunità di pertinenza, anche se 6 sono ancora aperti solo in orario diurno. I bacini di utenza sono molto disomogenei e andrebbero ridefiniti secondo standard di popolazione compresi tra i 50000 e gli 80000 abitanti, questo al fine di garantire responsabilità diretta e presa in carico reale del territorio di competenza (vi sono punte per il CSM UD Nord – 98.000 ab; CSM PN città 97.000). Va tenuto conto che il modello del CSM 24 ore, che pur riferendosi a modelli internazionali di lavoro territoriale (ACT, FACT, Crisis Resolution Team, half-way house, case di crisi, trattamento residenziale intensivo etc) che superano lo schema del lavoro territoriale o ambulatoriale di base, rappresenta uno sviluppo realizzato a Trieste per la prima volta negli anni ’70 e successivamente esteso a tutta la regione. Presso tutti i Dipartimenti di salute mentale sono attivi programmi articolati di abilitazione, riabilitazione, formazione ed integrazione sociale per le persone con disagio psichico. Le attività di riabilitazione si svolgono, solitamente, come attività di tipo residenziale, attività in centri diurni e attività di formazione di inserimento al lavoro.


2. I dati e le tendenze a Trieste ed in regione.

I dati generali del DSM di Trieste (ASUITs) nel 2016 mostrano: • 4.470 in contatto con i servizi di salute mentale territoriali, età media 55 anni, 56% sono donne. o persone visitate in luoghi diversi dalla sede del servizio • 23 persone in TSO (10/100.000 abitanti adulti) di cui 1/3 attuati nei CSM 24 h • Porte aperte ovunque e non uso di alcuna contenzione fisica • 316 utenti impegnati nella formazione e nell’inserimento lavorativo nelle cooperative sociali e nelle imprese for profit, di cui 25 assunti. • 151 Budget di salute per programmi terapeutico riabilitativi individuali. • 18 persone accolte finora con un programma semestrale (gruppi di 6) nell’esperienza innovativa della Recovery House. L’attività delle equipe territoriali è a nostro parere ben descritta sia dai tassi di prevalenza ed incidenza che dalla loro proiezione territoriale. Trieste presenta 4 CSM 24 ore (1/60.000 abitanti), con complessivi 26 p.l. La tendenza riferita agli ultimi anni mostra una sostanziale riduzione sia dell’utenza accolta che degli episodi di cura, come pure del numero complessivo delle giornate, a testimoniare l’ottima copertura territoriale garantita dagli interventi e l’efficienza ed efficacia della scelta di affidare alla stessa equipe sia presa in carico della crisi che continuità di cura e attività di prevenzione secondaria e terziaria. La gestione della crisi attraverso il Trattamento Sanitario Obbligatorio vede un tasso contenuto a livello triestino ma anche regionale, con un impiego dei CSM 24 ore come luoghi dove si gestiscono TSO non in degenza ospedaliera. I dati dei diversi DSM della Regione FVG mostrano dati comparabili per prevalenza ed incidenza, ed un tasso estremamente basso di ospedalizzazione e di TSO, a fronte di un ampio uso del posto letto nei CSM come accoglienza sulle 24 ore. La regione mostra tassi (non standardizzati) di ospedalizzazione per TSO per 100.000 residenti al più basso livello italiano secondo i dati del Ministero della Salute (elaborazione banche dati SDO 2010 e 2014/ popolazione ISTAT). Per quanto riguarda le risorse del personale, vi è una tendenza costante alla contrazione delle risorse umane nella ASUI di Trieste e conseguentemente del bilancio in toto.


Organizzare le risorse: l’esperienza di Trieste.

Il Dipartimento di Salute Mentale – ASUI Trieste si fonda su alcuni criteri, o principi, della pratica territoriale (Mezzina, 2014, 2016): 1. Responsabilità sulla salute mentale dell'area territoriale 2. Presenza attiva del Servizio e mobilità verso la domanda 3. Accessibilità (e modello di riconoscimento) 4. Continuità terapeutica 5. Centralità della crisi nel servizio territoriale 6. Globalità/integrazione 7. Lavoro di èquipe. Lo scopo è di determinare un approccio centrato sulla persona, di sistema, orientato alla vita intera. Uno degli strumenti per l’attività di riabilitazione è infatti il progetto personalizzato, che prevede anche specifici supporti economici (budget di salute) sugli assi della casa, del lavoro e della socialità. A partire da questi principi, e tenuto conto della dotazione di risorse umane ed economiche che si attesta al disotto della media Italiana (3,43 a fronte di 3,49% del FSN, secondo i dati ricostruiti dalla SIEP), con lieve maggior spesa a Trieste, si è lavorato per ottenere maggior efficienza del pubblico – organizzando al meglio le risorse. Uno degli aspetti centrali è il cambiamento dell’organizzazione del lavoro nel CSM 24 ore, in modo da assicurare una presa in carico efficace, non solo nella crisi, ma negli interventi e nei supporti di più lungo periodo. Va certamente garantita una dotazione adeguata di partenza, ovvero equipe multi professionali comprendenti almeno 5 psichiatri (1/10.000), 2 psicologi, 2 educatori e/o tecnici della riabilitazione psichiatrica, 2 assistenti sociali, 24-26 tra infermieri e OSS (per una staff ratio media di 1,2 operatori/1000), ma certamente in riferimento alle funzioni-cardine così definite: (a) accoglienza e orientamento della domanda; (b) risposta alla crisi e ospitalità diurna e diurno notturna; (c) continuità terapeutica, lavoro territoriale e di rete con integrazione distrettuale e intersettoriale. Per la garanzia del lavoro territoriale e della continuità assistenziale, l’organizzazione messa a punto prevede la suddivisione del territorio di competenza del CSM in due sotto zone per le quali viene individuato il team di riferimento. A partire dalle liste delle persone in trattamento presso il CSM e residenti nella sottozona, si realizza una selezione dell’utenza e l’inserimento nei gruppi della Continuità Monitorata. Le riunioni settimanali dei due team discutono le singole situazioni e definiscono le tempistiche degli interventi a domicilio. In funzione della frequenza delle visite l’utenza viene classificata in: • ALTA PRIORITÀ interventi domiciliari quotidiani, • MEDIA PRIORITÀ 2 – 3 interventi domiciliari alla settimana, • BASSA PRIORITÀ 1 visita settimanale e/o quindicinale. L’attribuzione ad uno dei tre gruppi indicati varia nel tempo ed è in funzione dello stato di benessere della persona. I dati dello studio sono riferiti al 2015, anno in cui sono entrate in contatto con i CSM 3.959 persone. Tra queste sono state individuate 377 persone (10% dell’utenza dei CSM) per le quali le sotto equipe territoriali hanno ritenuto opportuno l’ingresso nei gruppi della continuità monitorata sulla base di criteri predefiniti, simili a quelli dell’ACT. Il 55% di tale utenza è composta da uomini (206) con un età media di 45 anni. Le donne risultano un po’ più avanti negli anni (età media 49 anni). Al gruppo della continuità monitorata appartengono anche 22 giovani under 25 (6%) tra i quali vi è un ragazzo non ancora maggiorenne. Inoltre 16 persone, pari al 4% delle persone entrate nei gruppi delle priorità, erano pazienti al primo contatto con i CSM, 10 uomini e 6 donne. Il 76% dell’utenza così monitorata a domicilio (287 persone) soffre di un disturbo mentale severo (F2, F3, F6). 133 persone (35%) sono persone con bisogni complessi per i quali è necessaria la presa in carico integrata con altre agenzie del territorio. La valorizzazione degli interventi domiciliari multiprofessionali per le persone della continuità monitorata (n=33.734) (Bracco e Zanello, comunicazione personale) mostra un costo relativamente basso (euro 709.625) se paragonato a quello di soluzioni d’accoglienza per l’acuzie (SPDC) e la cronicità (Strutture Residenziali 24 ore), e che andrebbero a coprire i bisogni assistenziali in contesti istituzionali, e non nel contesto di vita, di un numero incomparabilmente più limitato di utenti. E’ necessario comunque lavorare per integrare risorse altre, e realizzare forme di co-produzione. Ci riferiamo qui a soggetti quali: 1) Altri servizi sociosanitari (distretti, servizi sociali) 2) Stakeholders come: • Associazioni volontariato e promozione sociale, cooperative, ONG etc • Persone con esperienza, utenza dei servizi, self-help, peer support • Familiari organizzati e non • Cittadinanza attiva. Per co-produzione si intende la creazione di servizi e programmi insieme con gli stakeholders (utenti, familiari, comunità in generale). Il termine é stato coniato in USA dal Premio Nobel per L’economia Elinor Ostrom (Ostrom & Baugh, 1973; Parks et al.,1981), ed è stato definito come la fornitura di servizi pubblici in un rapporto equo e reciproco tra professionisti, persone che utilizzano servizi, le loro famiglie ei loro vicini (dove le attività sono co-prodotte in questo modo, i servizi e i quartieri diventano agenti di cambiamento molto più efficaci, Boyle e Harris, 2009). Essa implica riconoscere le persone come risorse, promuovere la reciprocità, dare e ricevere (fiducia tra le persone e il rispetto reciproco) e costruire reti sociali, perché il benessere fisico e mentale delle persone dipende da relazioni durature (Boyle e Harris, 2009). Tra le funzioni, programmi ed attività del Centro di Salute Mentale 24 ore a Trieste in particolare, vanno qui aggiunte la promozione del protagonismo, partecipazione e coinvolgimento dell’utenza, l’in/formazione per i familiari, e una serie di interventi realizzati in collaborazione con altri servizi sociosanitari, in particolare i distretti, nelle aree della salute mentale degli adolescenti e giovani adulti (team funzionali congiunti per il riconoscimento degli stati mentali a rischio e la presa in carico precoce dell’esordio psicotico, con 83 gg in media di DUP), degli anziani, dei disabili, nelle cure primarie, nelle comorbidità con le dipendenze etc. Sono stati effettutati nel 2016 interventi nelle case di riposo e nelle residenze polifunzionali per 191 persone, la collaborazione con l’ICS per le persone richiedenti asilo (45 persone nel 2016) e il Progetto “Stella polare” a favore di persone straniere soggette a sfruttamento (5 persone). Anche i programmi di Centro diurno, realizzati con le associazioni della salute mentale e più in generale del territorio, si sono organizzati come “co-produzione” allo scopo di coprire aree specifiche di abilitazione e di inclusione sociale, che sono di seguito descritte come componenti di un Centro diurno diffuso (“Cantieri sociali”). 1. “Benessere”: consapevolezza, conoscenza e rispetto del proprio corpo, promuovendo attività - di gruppo e individuali - di educazione motoria generale, l'organizzazione di corsi e attività attinenti alla motricità generale; 2. “Aggregazione, socializzazione ed inclusione”: attività e programmi di socializzazione, relazionali, di sostegno al fine di promuovere e sviluppare capacità e attitudini espressive e relazionali, di riappropriazione di identità, iniziative di carattere culturale e aggregativo; 3. “Espressione e lotta allo stigma“: programmi a carattere espressivo culturale, con particolare riferimento a percorsi di laboratorio di carattere teatrale, musicale, pittorico e più in generale artistico, finalizzati all'organizzazione di performance, mostre, piece teatrali, concerti nonché partecipazione ad eventi cittadini, nazionali ed internazionali, rivolti alla sensibilizzazione sul tema dell'inclusione sociale e del contrasto a forme di emarginazione e pregiudizio, in collaborazione con teatri, locali pubblici, associazioni e altri soggetti pubblici e privati; 4. ”Partecipazione”: gruppi trasversali di protagonismo della specifica utenza, costituiti da familiari e persone con esperienza nel campo del disagio psichico, da operatori del settore, da rappresentanti di associazioni e da cittadini, promozione del “sostegno tra pari”, alla valorizzazione dell'esperienza soggettiva del disagio, ai percorsi di recovery, alla lotta allo stigma ed al pregiudizio; percorsi formativi finalizzati a valorizzare la figura del peer supporter nei servizi di salute mentale, per un coinvolgimento nell'attività di accoglienza, nell'organizzazione di gruppi di self help e nella costruzione di ricerche partecipate sulla qualità dei servizi; 5. “Specificità di genere”: crescita della consapevolezza di genere - per il rafforzamento dell'identità soggettiva e di gruppo -; scambio e sostegno tra pari nonché impulso di attività culturali e di sensibilizzazione sulle tematiche di genere in rete con altre organizzazioni associative ed istituzionali del territorio; 6. “Formazione ed inserimento lavorativo”, attraverso l’attivazione di percorsi individualizzati di formazione, preformazione e di inserimento lavorativo - sostenuti da ”borse di formazione al lavoro” o da “budget di salute” - finalizzati allo sviluppo di abilità e di competenze relazionali e lavorative in molteplici settori di attività, in collaborazione con enti del territorio e di formazione.


3. I riferimenti internazionali dell’integrazione in salute mentale.

Se confrontiamo questi aspetti di organizzazione con quanto afferma l’OMS, possiamo ritenere come fondamentale punto di partenza la Vision del Piano d’Azione Salute Mentale 2013-2020: “Un mondo in cui la salute mentale sia valorizzata, promossa e protetta, nel quale i disturbi mentali siano prevenuti e le persone affette da questi disturbi siano in grado di esercitare appieno tutti i diritti umani e di accedere in tempo utile a servizi di cura sanitari e sociali di alta qualità e culturalmente appropriati che promuovano la recovery, affinché possano ottenere il più alto livello possibile di salute e di partecipare pienamente alla vita sociale e lavorativa, libere da stigma e discriminazione.” I sei approcci e principi trasversali dello stesso Piano d’Azione sono:

  1. Accesso e copertura sanitaria universale: senza discriminazioni per età, sesso, situazione socioeconomica, razza, etnia di appartenenza oppure orientamento sessuale, e secondo il principio di uguaglianza, le persone con disturbi mentali dovrebbero poter accedere, senza correre il rischio di impoverirsi, ai servizi sanitari e sociali essenziali che consentano loro di guarire e di godere della migliore condizione di salute possibile.
  2. Diritti umani: le strategie, le misure e gli interventi di trattamento e cura, di prevenzione e di promozione applicati in salute mentale devono rispettare la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità e gli altri strumenti internazionali e regionali in materia di diritti umani.
  3. Interventi basati su prove di efficacia: le strategie e gli interventi di trattamento e cura, di prevenzione e di promozione applicati nell’ambito della salute mentale devono basarsi su dati scientifici e/o sulle best practice e tenere conto delle considerazioni culturali.
  4. Approccio orientato a tutte le fasi della vita: le politiche, la pianificazione ed i servizi di salute mentale devono tener conto dei bisogni sanitari e sociali relativi a tutte le fasi della vita – prima e seconda infanzia, adolescenza, età adulta e vecchiaia.
  5. Approccio multisettoriale: un approccio globale e coordinato in materia di salute mentale presuppone il coinvolgimento di vari settori pubblici quali quello della sanità, dell’educazione, del lavoro, della giustizia, dell’abitazione, dell’azione sociale ed altri settori coinvolti, nonché del settore privato, a seconda della situazione del paese.
  6. Empowerment delle persone con disturbi mentali e disabilità psicosociali: le persone con disturbi mentali e disabilità psicosociali dovrebbero ottenere gli strumenti di partecipazione alle azioni di sensibilizzazione, alle politiche, alla pianificazione, alla legislazione, alla prestazione di servizi, alla sorveglianza, alla ricerca ed alla valutazione in materia di salute mentale.

In tema di integrazione, l’approccio multisettoriale ci rimanda a quelle che erano sin dalle origini le sfere di intervento sui bisogni nel percorso di deistituzionalizzazione e costruzione dei servizi sul territorio, in particolare i CSM 24 ore:

Il tema della multisettorialità, o intersettorialità, si pone sia all’interno del Welfare (mix), sia in rapporto ai servizi di Salute generale (mainstreaming). Quali criteri la guidano? Innanzitutto la rilevazione dei bisogni e delle disuguaglianze, collegati alla persona, la cui centralità (al posto della malattia come entità astratta del pensiero positivista) é il vero cambio paradigmatico. Per fare ciò, dobbiamo interrogare i sistemi e i determinanti sociali (cui in nuce lo stesso Basaglia si riferiva, vedi la sua riflessione su manicomio e la miseria). L’integrazione secondo l’OMS (WHO, 2008) si declina come integrazione tra politiche e gestione, ad esempio per una determinata popolazione che contratta servizi pubblici e privati, considerando i livelli di pianificazione, formazione, supervisione, gestione economica etc. I rischi sono i gap tra le diverse strutture, che invece vanno viste come continuum. La gestione e l’erogazione di servizi sanitari vanno realizzate in modo che il cliente riceva un continuum di interventi preventivi e curativi, secondo l’evoluzione del bisogno nel tempo e attraverso differenti livelli del sistema di salute. Per l’utente deve realizzarsi un sistema scorrevole, facile da navigare, coordinato, con gli operatori sanitari consapevoli della sua salute come un tutto (non guardando solo a singoli aspetti clinici), con continuità di cure. Per i provider, servizi tecnici separati vanno offerti, gestiti, finanziati e valutati insieme, in un modo strettamente coordinato. L’integrazione organizzativa si ha quando ci sono fusioni, contratti e alleanze strategiche tra diverse istituzioni. L’integrazione professionale si realizza quando differenti professioni sanitarie lavorano insieme per offrire servizi unitari (es prenatale e pediatria). La prima sfida è di avere un appropriato range di competenze disponibili; la seconda di far collaborare in modo efficace differenti figure professionali. L’integrazione, secondo l’OMS, non è sempre buona, come non è sempre cattiva. Bisogna impiegare diverse figure e assegnare un ampio ventaglio di compiti a ciascuna professione (skill mix). Le prospettive di integrazione dell’utente e del provider sono diverse. Possono essere povere per l’utente anche se appaiono alte come in certe reti di servizi di cure primarie. Gli argomenti a favore di una buona integrazione sono la costo-efficacia, orientata al cliente, equa e padroneggiata localmente. Vi sono meno costi per la condivisione di risorse che si determina, e più efficacia perché i servizi affrontano la persona nella sua interezza (più la sua famiglia, la rete etc) piuttosto che il singolo problema individuale. Essa non è necessariamente equa, ma può dare priorità piuttosto che singoli programmi. Le criticità, nei sistemi non funzionali, riguardano il fatto che un singolo buon programma può essere penalizzato dall’integrazione. D’altronde il desiderio di realizzare programmi integrati ignora la realpolitik dominata da performance, target e tempistiche ridotte. Le lezioni da un’integrazione che riesce paiono essere dunque le seguenti:

Il concetto di integrazione va posto a nostro parere in relazione a temi quali cittadinanza, ruolo attivo delle persone nei percorsi di recovery ed empowerment, giustizia sociale e redistribuzione dei servizi. Tutto ciò viene confermato dagli obiettivi principali dell’Action Plan Europeo della stessa OMS:

Guardando all’integrazione effettivamente realizzata in una prospettiva internazionale, uno studio realizzato da una Intelligence Unit di The Economist (2015) ha definito un Mental Health Integration Index nei paesi europei sulla base dell’ambiente di vita (casa e famiglia), dell’accesso ai servizi, delle opportunità lavorative ed educative, della governance e delle politiche relative allo stigma e alla consapevolezza dell’opinione pubblica. Qui si trova l’Italia – nonostante l’eccezione riconosciuta di Trieste, che viene menzionata - nel terzo inferiore della classifica, nonostante l’importante riforma psichiatrica del 1978, soprattutto a causa della scarsità di opportunità e risorse di welfare disponibili per i suoi cittadini con bisogni relativi alla salute mentale.


4. Intercettare i determinanti di salute.

Occorre riferirsi anche al tema dei fattori non sanitari che svolgono un ruolo causale o semi-causale. La riflessione sui determinanti di salute é partita dal grande lavoro di Richard Warner tra tassi di disoccupazione e di guarigione della schizofrenia in Europa nel corso del 20° Secolo (Warner, 1995). I ‘determinanti di salute’ (Marmot, 2005), ossia i fattori che potenziano o minacciano lo stato di salute di individui e comunità, sono collegati a scelte individuali, come il fumo, o a caratteristiche sociali, economiche e ambientali che spesso sfuggono al controllo degli individui.

I determinanti sociali attengono

Una maggiore vulnerabilità è connessa allo svantaggio sociale, ovvero alla povertà e alla bassa istruzione. La stessa OMS riconosce anche il nesso tra salute mentale e comportamento, nel senso di problemi “di salute comportamentali” come l’abuso di sostanze, la violenza, l’abuso su donne e bambini. Essi agiscono a cluster. Al pari delle malattie cardiache, anche depressione ed ansia risultano più difficili da affrontare in condizioni di alta disoccupazione, basso reddito, limitata istruzione, condizioni lavorative stressanti, discriminazione di genere, stili di vita insalubri e violazioni dei diritti umani (Desjarlais et al. 1998). È stato realizzato uno studio sui Social determinants of mental health dal WHO and dalla Calouste Gulbenkian Foundation (WHO, 2014), che ha confermato la correlazione tra fattori di rischio e disuguaglianze sociali, il loro effetto cumulativo nel percorso di vita, la necessità di strategie globali a livello di popolazione. Vi sono evidenze sulla distribuzione dei disturbi mentali comuni secondo un gradiente di svantaggio economico, come una review sistematica della letteratura epidemiologica riguardante i paesi a medio e basso reddito ha riscontrato, ed è stato confermato da una analoga riguardante l’Europa (“higher frequencies of common mental disorders (depression and anxiety) are associated with low educational attainment, material disadvantage and unemployment, and for older people, social isolation”, WHO 2014). Il gradiente di classe sociale si associa ad una maggior presenza nel genere femminile. Esiste una relazione a due vie tra disturbi mentali e status socioeconomico, su cui l’ipotesi dominante é quella di un effetto buffer dei supporti sociali disponibili e delle capacità individuali di coping, in situazioni di stress psicosociale. D’altra parte, nel definire la dimensione sociale della recovery, possiamo rilevare che quando si evidenzia una dimensione sociale e partecipativa alla vita sociale ed alla comunità, essa costituisce un elemento fondamentale in quanto sta ad indicare che la persona sta emergendo dall’isolamento, dalla frattura di senso e comunicativa della malattia, che si traduce in desocializzazione. Si può cogliere nel soggetto una “cittadinanza vissuta”, e l’emergenza di un Sé sociale, non alienato, il che rappresenta l’intima natura sociale della recovery (Mezzina et al. 2006 a,b). Da questo la necessità di un complesso della riabilitazione che riguardi (Rotelli, 1993) costruire (o ricostruire) l’accesso reale ai diritti di cittadinanza e l’esercizio progressivo degli stessi.

I 3 livelli di intervento dove devono operare le strategie riabilitative includono:

Obiettivi indicati sono autonomia personale, istruzione, formazione professionale, capacità sociale, necessità di potere, capacità di esprimere comprensibilmente i propri punti di vista. Amartya Sen ha ridefinito l’orizzonte delle speranze individuali riconoscendo il diritto ad acquisire funzionamenti di natura sociale, che permettono in realtà un vero esercizio di libertà ed eguaglianza. Essi chiamano in causa il modo in cui ogni individuo sceglie un tipo di vita piuttosto che un altro, ovvero stabilisce un proprio stile di vita. Le capabilities, definite dalla Nussbaum in dieci domini, includono in questo senso molti aspetti che possiamo riferire allo stile di vita, come ad esempio la libertà di espressione emotiva, l’essere capaci di ridere, giocare, godere di attività ricreative, avere il controllo sul proprio ambiente materiale di vita e altro ancora. Tali capacità “di fare e di essere” sono modulate da condizioni sociali, economiche ed ambientali, ovvero dai determinanti sociali di salute già ricordati. Il benessere é acquisizione di funzionamenti (intesi come uno stato di essere o di fare) e la capacità di acquisire funzionamenti corrisponde alla libertà (ossia le opportunità reali) di avere il benessere. Ciò significa condurre una certa vita piuttosto che un’altra, ottenere i propri scopi, avere scelta (A. Sen). Nella misura in cui é vista in rapporto a questi concetti, la cittadinanza dovrebbe essere interpretata come un processo sociale, che porta a trasformazioni individuali e sociali; non uno status ma, ancora una volta, una pratica, che é essenzialmente agire i diritti sociali (De Leonardis). Pertanto essa è redistribuzione di potere, esercizio e sviluppo di capacità.


5. Case study: il Budget di Salute individuale e l’abitare assistito.

Qui va posto il nesso tra sviluppo di comunità economico e salute per promuovere lo sviluppo del potenziale umano delle società, e dunque il nesso tra politiche sociali e sanitarie perché le prime hanno effetti diretti, visibili, sugli indicatori di salute. I Case studies che l’esperienza triestina oggi propone sono i progetti di Microarea (che qui non descriveremo, ma che sono un ottimo esempio di welfare community, locale e partecipato), lo stesso CSM 24 h, l’intervento sulle reti sociali (Terzian et al. 2013), l’abitare assistito. La progressiva riduzione dei posti letto residenziali si è avvalsa, nell’ultima decade, della metodologia del budget di salute collegata ad un progetto terapeutico abilitativo personalizzato. I dati indicano come la riconversione delle risorse dalle strutture agli ambiti di vita delle persone e ai loro contesti abbia avuto una serie di ricadute sul sistema complessivo, che rafforzano i progetti individuali di presa in carico delle persone con bisogni complessi. Il Progetto Personalizzato / budget di salute si declina sugli assi principali non solo dell’abitare, ma anche del lavoro e della socialità, a partire dai bisogni espressi dalle persone e dalle necessità individuate collaborativamente. Si tratta di una modalità di progettazione e di finanziamento innovativa nel mix pubblico/privato che lo scenario complesso della crisi del welfare e dell’integrazione socio-sanitaria ha generato e che sposta risorse economiche intorno alla persona. I partner, rappresentati da operatori del privato sociale (cooperative sociali A e B), co-gestiscono i singoli progetti e contribuiscono alla co-progettazione proponendo le azoni e le modalità concrete di realizzazione degli stessi progetti. A Trieste, l’evoluzione dell’abitare supportato prevede ora una situazione finalizzata all’abitare indipendente. Vi sono di fatto 98 persone per 45 abitazioni nel 2017. ll titolare del contratto di affitto e/o il proprietario può essere: - ASUITS in comodato (4 case), - ASUITS per il tramite della L. 15 (9 case), - Il gestore dell’abitazione (cooperazione sociale, associazione e privato per 4 abitazioni).

Ciò ha tra l’altro favorito la sperimentazione di nuove modalità di abitare supportato e di residenzialità:
  1. La casa per la recovery. Il programma si è costituito presso una residenza sulle 24 ore in precedenza occupata da persone per lunghe durate, che sono state collocate in altre soluzioni abitative nel 2015. Si è creato un percorso di ingresso con l’esplicitazione delle intenzioni e degli obiettivi, in modo da favorire candidature consapevoli e responsabili. L’esperienza in gruppo di 6 giovani, con problemi di psicosi, coabitante per sei mesi, ha la finalità di favorire i percorsi individuali di recovery, anche attraverso la riduzione o la revisione dell’uso dei farmaci. I vari sotto-sistemi (gruppo della casa, gruppo familiari, operatori del privato sociale, operatori del DSM), dialogano tra loro sulla base dei principi della massima trasparenza e condivisione delle decisioni, che vedono sempre i giovani utenti come protagonisti. L’uscita dalla casa coincide con la costruzione di un progetto personalizzato, che può essere sostenuto con budget di salute.
  2. La rete di self-help supportata. Contemporaneamente, lo sviluppo di moduli di supporto flessibili per la domiciliarità ha permesso di realizzare soluzioni di coabitazione, mettendo in comune le risorse per la quotidianità (cuoche, pulitrici, badanti), a volte anche con l’impiego di peer, o di familiari in supporto ad altri, che possono anche rappresentare punti di riferimento, sulla base della convivialità, per altri utenti che vengono ospitati (programma “Aggiungi un posto a tavola”).
  3. Gli appartamenti transizionali. Gli alloggi messi a disposizione dalla LR n. 15, che restavano di proprietà pubblica, e quindi non potevano essere case “delle persone”, sono stati utilizzati come soluzioni transitorie per percorsi progressivi, a volte in uscita dalla residenzialità a tipo comunità sulle 24 ore, altre per facilitare la fuoriuscita da lunghe permanenze nei CSM.
  4. La REMS a porte aperte. Dal maggio 2015, in una sede di Centro diurno, frequentato da una quarantina di utenti, è stata realizzata la prima REMS provvisoria (Residenza per L’Esecuzione delle Misure di Sicurezza), per due posti letto, che grazie all’ambiente normalizzante e alle attività abilitative realizzate con associazioni, aperte alla comunità, ha potuto garantire la più alta qualità terapeutica e abilitativa in un’ottica “no-restraint”.

6. Conclusione: indicazioni generali di valore e di principio.

Da quanto detto, emerge che la salute di comunità é stata intesa come passaggio che deriva dalla deistituzionalizzazione, attraverso sistemi costruiti intorno agli individui ed alle comunità (Mezzina 2014, 2016). Ciò rimanda ad un approccio globale ed olistico che pone in relazione la medicina ai sistemi di welfare in una sinergia potente - concetto di whole systems, whole life approach (Jenkins, Rix, 2002, IMHCN 2015). L’attenzione agli individui ed ai diritti di cittadinanza pone la questione dei valori da cui discendono pratiche e servizi (value-based services, Fulford, 2004). La costruzione di percorsi personalizzati è la principale chiave organizzativa-strategica, in cui la persona ha un ruolo attivo e un potere contrattuale. Evitare o ridurre le “transitions in care” (Segal, 2004) permette di ridurre i rischi di frammentazione del sistema dei servizi. Occorre costruire responsabilità (accountability) dei servizi verso la comunità. La titolarità dei processi di cura va posta nel territorio, ma occorre operare un riconoscimento della rilevanza dei contesti come produttori di senso delle azioni di salute e come portatori di risorse, il che implica un rifiuto dell’automatismo di “pacchetti ci cure” indifferenti ai contesti di reale applicazione. Il passaggio da una medicina riparativa ad una salute partecipata (no black box come imbuto dello specialismo) richiede lo sviluppo del protagonismo dei soggetti (stake- o shareholders) del sistema salute, proponendo un concetto di leadership legata alla messa in moto di processi di cambiamento strategico ed organizzativo a cascata ed a ciclo continuo.

Ciò implica ulteriori passaggi (Mezzina, 2013):
  1. da responsabilità legali per i professionals, connesse agli aspetti di controllo sociale, valutati in termini di rischio, ad un più ampio concetto di responsabilità riferita alla salute mentale di / per una data comunità (cui essi rispondono - ‘accountability’).
  2. da servizi “specializzati”, disomogenei e frammentati, a servizi olistici e globali (‘comprehensive’), costruiti attorno all’idea della persona come unità, sostenuta nella continuità di cura, attraverso ‘progetti di vita’ più che da programmi terapeutici e riabilitativi in quanto tali.
  3. da servizi offerti, misurati in termini di esiti in termini di efficienza ed efficacia, ad opzioni / opportunità, connesse al concetto di percorso individuale (personalizzato) verso la recovery e l’emancipazione.
  4. da diritti formali (diritti civili, diritti umani) garantiti da legislazioni, a diritti sociali legati al concetto di cittadinanza, il che implica la chiamata in causa di politiche atte a contrastare l’esclusione e a fornire risorse ed accesso all’inclusione sociale.

I gradi di libertà, che possiamo definire tra i principali esiti del processo nei termini direttamente apprezzabili e percettibili da chi ne é coinvolto in prima persona (la persona sofferente), possono essere delineati dalle opportunità e dalle alternative presenti in ogni fase del processo, dall’accesso alla fuoriuscita dalla rete dei servizi, per operare in definitiva quello sviluppo delle capacità che rende reale la scelta di una vita piuttosto che di un’altra (Sen). Freedom First é il titolo di una ricerca qualitativa sul campo svolta a Trieste, con tutti gli stakeholders, dal Trimbos Instituut olandese (Muusse, Van Roijen, 2015). “Freedom First” rimanda alla libertà come principio guida (porte aperte e no restraint).

I tre approcci individuati sono:
  1. l'approccio olistico/globale: l'assistenza in salute mentale non mette l'enfasi sulla malattia ma sulla persona e l'individuo e sulla restituzione della soggettività. Non si parla di pazienti o clienti, ma di utenti o ospiti. L'esclusione sociale è considerata come risultato del modello medico con il suo linguaggio particolare, le sue relazioni e la sua struttura gerarchica. 'Il punto di vista relazionale' è stato spiegato così:
    • i bisogni personali sono stati fissati sulla base della storia personale dell`utente e questi si riferiscono anche alle relazioni sociali, dalla cerchia familiare al contesto della persona;
    • per rispondere ai bisogni dell'utente, le relazioni fra operatori e utenti sono considerate come essenziali;
    • i servizi sono stati valutati secondo criteri di passi personali verso recovery e empowerment. Per sostenere questa idea, il servizio di salute mentale territoriale è aperto 24-7 ore.
  2. L'approccio ecologico: l'enfasi è messa sul contesto sociale, la rete personale e i gruppi sociali a cui appartiene un individuo. Le cure sono offerte nella comunità, sono outreaching, proattive, accessibili e hanno l'inclusione sociale come scopo. Gli operatori si mettono in contatto con l'individuo, la sua famiglia, i servizi di alloggio, ecc. Il centro di salute mentale offre servizi di prevenzione e cure generali e specialistiche per tutti gli utenti della regione/del quartiere per cui ha la responsabilità. A causa di sua 'responsabilità territoriale' per gli utenti, il centro di salute mentale non può trasferire i pazienti con gravi problemi in altri centri.
  3. L'approccio giuridico: l'enfasi è messa sui diritti umani delle persone con problemi psichiatrici, tanto dalla prospettiva giuridica quanto sociale. Per creare una comunità che garantisce l’inclusione e la possibilità che ognuno possa esercitare i suoi diritti sociali, è necessario creare una rete di sostegno. Abbiamo parlato della necessità di un servizio fondato su valori:
    • Aiutare una persona e non trattare una malattia •Cittadini con diritti
    • Superare la crisi •Comprendere gli eventi di vita
    • Spiegare e discutere l’esperienza
    • Non perdere valore come persona (invalidazione, abbandono, violenza)
    • Mantenere ruoli sociali e reti / sistemi
    • Sviluppare il potenziale di crescita (recovery)
    • Opportunità
    • Cambiamento (condizioni e stili di vita)
    • Risorse materiali (lavoro, denaro, aiuto pratico) •Evitare gli effetti jatrogeni delle terapie
    • Aiutare le strategie personali di ripresa.

Si tratta di un approccio orientato alla vita nella sua completezza. Il concetto di approccio WHOLE LIFE (IMHCN, 2015) significa mettere la persona al centro, come cittadino e membro di una comunità, perché sviluppi la sua vita in tutti gli aspetti, nella sua globalità e integrità. Una persona con problemi di salute mentale ha gli stessi bisogni di base di tutti noi, e riconoscere una persona nella sua interezza è la maniera di sviluppare e condurre una vita che è piena di propositi, interessi, riconoscimenti, contributi, valori e riconoscimenti. Le persone con un problema di salute mentale sono alla ricerca di una vita completa, inclusiva di bisogni ed aspirazioni. Permettere alle persone di avere l'opportunità di una vita completa ed assisterli nel loro processo di recovery e benessere richiede un accesso diretto alla salute, alle opportunità educative, a processi di formazione lavorativa, al lavoro, al volontariato, alle reti sociali, allo sport ed al tempo libero, alla cultura, alla fede ed alla religione. Per realizzare ciò, è necessario un WHOLE SYSTEM, ossia sviluppare l’intero mondo delle relazioni, delle reti e degli attori sociali, dei supporti, dei servizi e delle opportunità attivato attorno alla persona, in un’ottica di risposta globale finalizzata alla recovery. Il Whole System deve avere degli scopi e degli obiettivi comuni negoziati e condivisi da tutti i portatori d'interesse della comunità. In tal modo i componenti del Sistema sono interdipendenti l'uno dall'altro ed ognuno di essi è portatore di un proprio definito contributo sistema completo dove l'aspetto globale e non il singolo componente è l'obiettivo più importante. Questo tipo di approccio ottimizza le risorse umane, economiche, sociali e culturali delle comunità locali. Tutte le comunità hanno la possibilità di offrire opportunità significative per gli individui e le famiglie, per continuare ad avere o per riacquistare una vita completa in tutti i suoi aspetti. Assicurare la partecipazione attiva di organizzazioni ed individui della comunità nel progettare ed implementare una strategia basata sulla vita intera e sul sistema globale sta alla base del successo di questa visione della salute mentale.


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