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Alcologia e salute mentale

Autori

Riassunto

L’articolo parte dalla messa in crisi del vecchio paradigma, che distingue tra alcolismo e bere moderato a favore del concetto di continuum, che si fonda sulle acquisizioni delle neuroscienze a proposito del circuito della ricompensa e sulla critica del concetto di dipendenza (1). La crisi della diagnosi categoriale a favore di quella dimensionale, insieme alle tematiche emergenti dell’alta modernità, ripropone la questione del rapporto tra alcologia e psichiatria nel campo interdisciplinare della salute mentale. Hudolin e i Club Alcologici Territoriali hanno sempre proposto tale approccio e la necessità di un trattamento congiunto dei problemi complessi (alcol e disagio psichico).

L’articolo conclude che sotto il profilo teorico rimane un legame specifico tra alcologia e psichiatria; sotto quello pratico le persone portatrici di entrambe le sofferenze, psichica e alcolcorrelata, hanno diritto a poter usufruire di programmi integrati facilmente accessibili con costi socialmente sostenibili data la rilevanza epidemiologica; sotto il profilo istituzionale sono necessari servizi realmente dipartimentali, in cui le discipline della salute mentale, di cui l’alcologia ci sembra far parte a pieno titolo, possono collaborare nel rispetto della propria autonomia.


Abstract

The paper starts from putting into crisis of old paradigm, which distinguishes between alcoholism and moderate drinking in favor of the concept of continuum, which is based on the acquisitions of neuroscience about the reward circuit and on criticism of the concept of dependence (1). The crisis of the categorical diagnosis in favor of dimensional, along with the emerging issues of high modernity, raises the question of the relationship between alcohology and psychiatry in the interdisciplinary field of mental health. Hudolin and Alcohologic Territorial Clubs have always proposed this approach and the need for joint processing of complex problems (alcohol and psychological disorders).

The paper concludes that theoretically there is a specific link between alcohology and psychiatry; under the practical people carrying both suffering, mental and alcohol-related, get right to take advantage of integrated and easily accessible programs with socially sustainable cost given the epidemiological importance; in institutional terms are necessary really departmental services, in which the disciplines of mental health, whose alcohology seems to play a full part, can collaborate in maintaining their autonomy.


Alcologia e salute mentale sono per definizione due campi interdisciplinari, a cui concorrono le stesse discipline (ad esempio la psichiatria e più specificamente l’addiction psychiatry, la psicologia, le scienze sociali ecc.). All’epoca della sua fondazione Fouquet (2) definì l’alcologia una “disciplina autonoma”, e 20 anni dopo scrisse che i rapporti tra alcologia e psichiatria erano “un problema storicamente superato” (3). Tale approccio trovò un terreno fertile nelle classificazioni dei disturbi psichici, su base “categoriale”, anche se nelle classificazioni internazionali (sia DSM III e IV, sia ICD IX e X) i “disturbi da uso di sostanze” sono sempre stati considerati parti integranti dei “disturbi psichici”. Su questa netta recinzione delle competenze giocavano – soprattutto in Italia – gli interessi istituzionali di due reti di servizi (salute mentale e dipendenze), nati storicamente separati per ragioni contingenti. La legge sulle droghe venne approvata nel 1975, quando l’assistenza psichiatrica era ancora affidata alle strutture manicomiali (4).

La prospettiva “categoriale” con l’estrema suddivisione delle “caselle” nosografiche, insieme a fenomeni epidemiologici, che caratterizzano l’alta modernità o l’iper-modernità (5)(epidemia dell’uso delle sostanze, bere giovanile, diffusione dei common mental health disorder e dei disturbi della personalità), ha riproposto temi di confine, che si volevano nettamente distinti. La definizione, tutta amministrativa, della “doppia diagnosi”, con le risonanze tipicamente italiane sul tema delle competenze dei servizi, e in sede teorica l’affermarsi del tema della comorbidità psichiatrica (non casualmente nell’ultimo decennio del XX secolo, quello della rivoluzione informatica e dell’affermarsi dei concetti di iper-modernità) hanno riproposto l’incrocio dei due campi.

Lo sviluppo delle neuroscienze ha messo in crisi la teoria “forte” della dipendenza come “fame recettoriale”. La spiegazione dei comportamenti additivi sembra più fondarsi sui fenomeni di neuro-adattamento fisiologico, legati al circuito della ricompensa, il quale fonda il concetto di continuum.

FIGURA 1

Il concetto del continuum ha trovato un solido sostegno nella messa in crisi del concetto incerto della “dipendenza”, che era stato considerato la base per così dire “scientifica” dell’alcolismo come malattia. Il dilagare delle cosiddette “dipendenze comportamentali” o “comportamenti additivi senza sostanza” (in primo luogo l’azzardo, ma anche i problemi correlati alle tecnologie elettroniche, insieme ai problemi cosiddetti compulsivi come lo shopping, il sesso, il cibo ecc.) hanno fatto giustizia della “teoria forte” dell’epoca, che abbiamo appena alle spalle, quella della “fame recettoriale”, legata all’epidemia degli oppiacei e dei cannabinoidi e alla scoperta delle endorfine e degli endocannabinoidi. La spiegazione della cosiddetta “dipendenza”, si fondava sull’evidenza che le “droghe” imitavano la struttura molecolare di alcuni neurotrasmettitori e quindi condizionavano la risposta recettoriale. Tra l’altro la teoria recettoriale non ha mai spiegato con chiarezza gli effetti dell’alcol sul sistema nervoso, che sono in relazione all’alterazione della struttura lipo-proteica della membrana nel suo complesso piuttosto che di sue sezioni specializzate come i recettori (6). È ovvio che dove non c’è “sostanza additiva” tutto questo perde di significato e limita la questione verosimilmente all’ultimo segmento del processo neuro-chimico. Le ricerche fanno riferimento al cosiddetto “circuito della ricompensa” o “sistema della gratificazione” intorno al nucleo accumbens, in rapporto al talamo ed alla corteccia frontale, per cui ogni condotta, che comporta una gratificazione, attiva un meccanismo neuro-chimico, che produce la sua ripetizione ed innesca circuiti che una volta attivati sono necessitati a ripetersi (7;8). In qualche modo si tratterebbe della base neuro-psicologica della “coazione a ripetere” di freudiana memoria. Tali evidenze scientifiche sembrano essere la base neuro-biologica del concetto di continuum dei problemi alcolcorrelati e anche dell’abbandono del concetto di dipendenza, come privo di certezze scientifiche, di cui ha preso atto il DSM-5 (1) lungo lo sviluppo di un discorso nosografico che parte dalla terza edizione e segna il passaggio da una posizione categoriale ad una dimensionale (9). Il DSM-5 in una logica di diagnosi dimensionale ha tratto le conseguenze, abbandonando la definizione di “dipendenza” “a causa della sua incerta definizione e della sua connotazione potenzialmente negativa” e introducendo il continuum nella graduazione di un unico “disturbo da uso di alcol” in lieve, moderato e grave. È interessante considerare ai fini di questa argomentazione come la conclusione di questo percorso di ricerche scientifiche e teoriche sia stata tratta proprio in un ambito psichiatrico, a conferma dell’idea che il destino dell’alcologia e della psichiatria non sono nettamente separabili. Tale idea sul rapporto tra alcologia e psichiatria è stato sempre centrale nel pensiero di Hudolin (10).

Negli Anni Zero del nuovo secolo si profila un cambio di paradigma (11), basato sul concetto di continuum, che mette in crisi il paradigma dicotomico più antico, per cui esiste un “bere moderato”, fonte di piacere, socialmente tutelato, e nettamente separato “l’alcolismo”, un vizio morale, una perversione religiosa o in termini più moderni una malattia, che travolge alcuni sprovveduti. Hudolin (12) ha dedicato tra i primi il suo lavoro a dimostrare che i problemi alcolcorrelati si sviluppano lungo una continuità dai più piccoli ai più rilevanti e Club Alcologici Territoriali ispirati al suo metodo hanno sostenuto la necessità di accogliere e affrontare congiuntamente i problemi doppi (alcol e disagio psichico), tripli (alcol, droga, disagio psichico) e multipli (si aggiungono l’azzardo, i problemi legali, la condotta violenta ecc.). Il concetto è stato via via accolto nella letteratura scientifica (13) e in quella dell’OMS, fino alla netta presa di posizione del DSM-5 (1).

L’alcologia, distruggendo il vecchio paradigma, dimostra di aver fatto un passo avanti decisivo, anche per la condizione favorevole di essere un campo “giovane”, meno incrostato da impostazioni conservatrici, e quindi più disponibile all’innovazione rispetto alla psichiatria tradizionale. La conseguenza pratica più rilevante di tale atteggiamento è l’intervento precoce e preventivo. Sia in campo alcologico che in quello psichiatrico, uniti dall’essere interdisciplinari e dall’occuparsi di settori ad alta incidenza e ad alta prevalenza nella popolazione, cioè di grandi numeri di esseri umani, un intervento solo sulla punta dell’iceberg del continuum, cioè sui disturbi più gravi e più conclamati (quindi passibili di una diagnosi categoriale), pur se necessario (ed anche economicamente dispendioso per il peso assistenziale), non solo è tardivo, ma del tutto inutile dal punto di vista della prevenzione.

L’alcologia italiana, a fronte di molti contributi portati nei suoi 35 anni di vita, sembra non aver colto l’importanza della situazione attuale, se teniamo conto di alcune recenti posizioni che sembrano una “deriva organicista” verso le posizioni tradizionali centrate sull’idea dell’alcolismo-malattia (si confronti la presa di posizione delle 5 Società Scientifiche italiane del 2014, che comprendono sia la Società Italiana di Alcologia sia la Società Italiana di Psichiatria, sotto il titolo “Un finale migliore”). Si capisce come questa posizione appaia molto datata, perché abbraccia la polemica degli anni Sessanta-Ottanta del secolo scorso per affermare l’idea dell’alcolismo malattia contro il bere come vizio. Il più diffuso movimento dei Club Alcologici Territoriali sembra avere il bagaglio teorico adeguato al compito con il retroterra dell’opera di Hudolin, che lo ha recentemente rivendicato a nome collettivo nei confronti di tale “deriva” in un editoriale della rivista di Alcologia (14). Anche questo, pur potendo contare su circa 2000 Club presenti in tutte le regioni italiane ed aver cominciato a portare i contributi scientifici per la validazione della propria efficacia (15), presenta discreti problemi di crescita del sistema e di manutenzione della propria rete territoriale, compreso attualmente il difficile coinvolgimento delle famiglie più giovani (16).

Sotto il profilo organizzativo la sperimentazione di rapporti organici tra i due settori sembra andare avanti, complici soprattutto le necessarie ottimizzazioni delle risorse a causa dei tagli dei budget sanitari a seguito della crisi economica. Oltre a quelle consolidate della Regione Liguria e dell’Emilia Romagna, anche la Toscana, la Sicilia e la Sardegna si stanno avviando in questa direzione, con l’unificazione dei due Dipartimenti della Salute Mentale e delle Dipendenze, cosa che provoca notevoli resistenze tra gli operatori dei Sert, che vivono questa operazione istituzionale come un proprio riassorbimento sotto la direzione dei DSM. Tale tendenza è ancora più accentuata tra gli operatori dei servizi alcologici, la cui debolezza storica (accentuata dall’attuale calo del numero degli operatori dedicati) li rende ancora più sensibili a possibili mire egemoniche dei servizi psichiatrici. A favore dell’unificazione dei due settori militano le ragioni epidemiologiche, più volte riscontrate, ragioni teoriche e disciplinari, ma soprattutto pratiche, tese ad evitare “rimpalli” inutili di competenze ad utenti che sono portatori di entrambe le sofferenze (17). Le richieste di definire una specializzazione specifica corrispondente ai profili amministrativi della cosiddetta “medicina delle farmaco tossicodipendenze”, per altro esistente solo nel nostro paese, sono cadute nel vuoto e nella pratica in ambito universitario non sono andate oltre alcune isolate iniziative di master universitari. Le resistenze a questo processo di unificazione sono, oltre che storiche (la diversa origine dei due servizi), legate a nostro parere ad un approccio teorico-pratico, che fa coincidere la salute mentale con la psichiatria, la quale viceversa è solo una delle “scienze della salute mentale”, intesa come campo interdisciplinare, e i Dipartimenti di Salute Mentale con “dipartimenti di psichiatria”. Si tratta di questioni effettivamente fondate: la psichiatria si presenta come un campo disciplinare relativamente compatto, centrato in termini sanitari sulla patologia piuttosto che sulla salute come sarebbe oggi necessario, mentre le “scienze della salute mentale” sono un campo disciplinare frastagliato ed ancora nella sua fase iniziale; i servizi di salute mentale per troppo tempo si sono qualificati in termini monoprofessionali, anche perché ragioni amministrative (e non solo professionali) ne hanno limitato lo sviluppo e perché la stupida questione delle competenze ha impedito agli psichiatri italiani di poter dare il proprio contributo.

È difficile trarre conclusioni certe da questo excursus teorico-pratico e istituzionale ultra-trentennale; molte questioni rimangono aperte e spesso le rivendicazioni di “autonomia” poggiano più su ragioni corporative che teoriche o legate ai bisogni degli utenti emergenti dalle dinamiche sociali in atto. L’impressione complessiva è che il futuro può aprirsi ad un orizzonte innovativo, che rivoluzionerà paradigmi antichi.

Sotto il profilo teorico rimane un legame specifico tra alcologia e psichiatria, nonostante i tentativi anche forti di tracciarne ambiti autonomi, tale legame è ancora più evidente se pensiamo alla salute mentale come campo interdisciplinare, di cui la psichiatria in senso stretto è solo una parte e a cui l’alcologia e l’addiction psychiatry possono dare un contributo rilevante soprattutto oggi. In particolare il concetto dimensionale e longitudinale di “continuum” apre una frontiera innovativa orientata all’intervento precoce ed alla prevenzione.

Sotto il profilo pratico nel corso degli ultimi due decenni la realtà dei processi sociali e l’emergere di sofferenze complesse, legate alla sempre più rilevante complessità del nostro vivere, così come emerge dalla terza rivoluzione industriale, quella informatica, si sono incaricate di riproporre quello che era stato artificiosamente diviso. Le persone portatrici di entrambe le sofferenze, psichica e alcolcorrelata, hanno diritto a poter usufruire di programmi integrati facilmente accessibili e a basso costo, socialmente sostenibili stante la loro elevata incidenza e prevalenza.

Sotto il profilo istituzionale sono necessari servizi realmente dipartimentali, all’interno dei quali tutte le discipline della salute mentale, di cui l’alcologia ci sembra far parte a pieno titolo, possono collaborare nel rispetto della propria autonomia e soprattutto del diritto degli utenti a programmi personalizzati adeguati ai loro bisogni complessi. Ciò non vuol dire chiusura dei servizi alcologici o di quelli per le droghe, ma la loro permanenza accanto a quelli psichiatrici e psicologici in un’unica struttura dipartimentale, che abbia la specifica mission di farli collaborare. Tali dipartimenti dovrebbero essere orientati all’intervento precoce e alla prevenzione e portare il proprio contributo a programmi di comunità in collaborazione con le risorse sociali informali (reti familiari, amicali, lavorative) e semiformali (volontariato, auto-aiuto, Club Alcologici Territoriali).

Concludendo, sotto il profilo teorico rimane un legame specifico tra alcologia e salute mentale; sotto quello pratico le persone portatrici di entrambe le sofferenze, psichica e alcolcorrelata, hanno diritto a poter usufruire di programmi integrati facilmente accessibili e a costi socialmente sostenibili data la rilevanza epidemiologica; sotto il profilo istituzionale sono necessari servizi realmente dipartimentali, in cui le discipline della salute mentale, di cui l’alcologia ci sembra far parte a pieno titolo, possono collaborare nel rispetto della propria autonomia.


Bibliografia

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