L’indipendenza abitativa come esito in salute mentale

Autore
Antonio Maone, Dipartimento di Salute Mentale, ASL Roma 1

Presentato il 31 marzo 2016, rivisto il 15 aprile 2016, accettato il 20 maggio 2016

RIASSUNTO

Nell’ultimo decennio, in psichiatria di comunità si sono diffuse pratiche innovative di abitare supportato, o “residenzialità leggera”. In questo contributo vengono messi in evidenza i paradigmi per lo più impliciti che attraversano queste pratiche, condizionandone le caratteristiche e gli esiti, e una breve rassegna della letteratura che consenta di metterne a fuoco i principi fondamentali.


ABSTRACT

Over the last decade, within the field of community psychiatry in Italy, innovative practices of supported housing have spread out. In this paper the paradigms, mainly implicit, underpinning supported housing’s interventions will be focused. A synthetic literature review of international research, that describes the fundamental principles, will be also presented.


Premessa

Il Volume 12 del 2015 della Nuova Rassegna di Studi Psichiatrici rappresenta forse il primo tentativo che con una certa sistematicità riesce a far luce su una componente solo apparentemente accessoria della psichiatria di comunità italiana, quella dell’abitare supportato o “residenzialità leggera”, che soprattutto nell’ultimo decennio ha registrato crescente interesse e diffusione. L’importanza del tema risiede nel presupposto, rilevato con chiarezza a livello epidemiologico, che nei sistemi di salute mentale post-manicomiali la crescita esponenziale dei posti letto nelle strutture residenziali psichiatriche stia assumendo proporzioni tali da far paventare uno scenario di re-istituzionalizzazione su ampia scala (1, 2). Proporzioni che peraltro in Italia sono rimaste ancora contenute rispetto a paesi come l’Inghilterra o la Germania dove i posti letto residenziali psichiatrici sono il doppio o il triplo rispetto al nostro paese (3).

Dai contributi provenienti dalla Lombardia, dal Veneto, dalla Puglia, e da Trieste, Modena, Grosseto, emerge un quadro fortemente indicativo di un “coraggioso” spostamento dell’asse dell’intervento che muove da una residenzialità presidiata, building-based, ancorata al luogo, vincolata al provider, a modelli di intervento finalizzati a una più autentica inclusione sociale, in cui l’utente ha un ruolo attivo e responsabile. E’ uno spostamento, una pressione, che tenta di sfondare la linea invisibile delle trincee della segregazione e dell’esclusione che inavvertitamente ogni volta si riproducono, riproponendo e riattualizzando ogni volta una rinnovata necessità di de-istituzionalizzazione. E’ naturale, perciò, che le esperienze di residenzialità leggera appaiano eterogenee e difficilmente modellizzabili; perché, da quel sottile confine in avanti, le forme dell’inclusione si plasmano, come è naturale che sia, sulla multiformità dei territori e, in ultima analisi, sulle infinite possibilità di relazione di un individuo con la sua comunità.

Lo scopo del mio contributo è qui quello di aggiungere alla pur ricca esposizione di dati e riflessioni, un inquadramento concettuale, attraverso una sintetica revisione della letteratura sull’argomento, e di proporre alcune considerazioni che attraversano il tema e che a mio avviso occorre tener presente per evitare le semplificazioni e mantenere una visione critica delle nuove realtà che appaiono all’orizzonte.


Paradigmi espliciti e impliciti

L’influenza dei fattori di confondimento ‘consuma’ le tecniche e ‘crea’ nuovi oggetti ignoti e non descritti.
Saraceno, 1995

Vivere autonomamente in un’abitazione “non presidiata” e integrata nel tessuto sociale è ovviamente ritenuto un obiettivo “ideale” del trattamento e della riabilitazione delle persone con disturbi mentali gravi e persistenti. Altrettanto ovvio è che il raggiungimento di questo obiettivo venga ritenuto l’esito di un processo che debba essere condotto in modo sufficientemente formalizzabile e standardizzabile, date le necessità di pianificazione e organizzazione del lavoro dei servizi deputati a questo compito. Si potrebbe citare, a titolo di esempio, l’asse casa dell’approccio riabilitativo di Ciompi (5), graduato in sette fasi o stadi che procedono dal reparto ospedaliero, o dalle residenze con assistenza sulle 24 ore, all’abitazione indipendente con qualche forma di supporto. Esempio che rimanda al paradigma del continuum lineare della residenzialità psichiatrica e perciò all’approccio train and place, su cui tornerò più avanti.

Il processo di costruzione di progetti di abitazione (o più in generale di “vita”) indipendente implica quindi tradizionalmente una progressiva attenuazione o risoluzione degli impedimenti connessi alla malattia (gravità della sintomatologia psicotica) e della disabilità che ne deriva, e, come tale, attiene a un campo di applicazione di strategie e interventi più o meno descrivibili e riproducibili.

Tuttavia l’evoluzione dei disturbi psicotici e l’esito a lungo termine degli interventi tecnici, come è noto, sono tutt’altro che lineari e hanno scarsa predittività, né in alcun modo possono essere considerati come indipendenti dal contesto. La prima questione che a questo punto si profila, perciò, è relativa al fatto che nell’attuazione del processo che abbiamo appena tratteggiato si ha inevitabilmente a che fare non solo con fattori riconducibili all’interazione fra le caratteristiche della disabilità e le strategie riabilitative messe in atto dai servizi, ma piuttosto con una molteplicità di variabili più o meno visibili ed esplicitabili che possono esercitare un’influenza ben più determinante.

Fattori economici e sociali
È superfluo ricordare qui il peso dei fattori socio-economici sul decorso e l’esito dei disturbi psicotici (6). Per ciò che riguarda il nostro tema è importante però sottolineare quanto sia essenziale non solo e non tanto la disponibilità di risorse economiche per sostenere progetti di vita indipendente: molto più importante è la reale possibilità di allocare le risorse su questi progetti anziché su soluzioni istituzionali. In questo senso, se il sistema è basato fondamentalmente sul pagamento di “rette” e di posti letto a piè di lista, assorbendo così la maggior parte delle risorse, i progetti di abitazione indipendente potranno contare su poco più che le briciole del budget complessivo. Sistemi di finanziamento basati sul budget di salute, ad esempio, possono invece fornire la flessibilità necessaria (7, 8).

La questione dei costi merita qui un’ulteriore considerazione. Una lettura superficiale o quanto meno poco attenta, farebbe ritenere l’abitazione stabile come una soluzione che implica una sorta di “lungodegenza”, con costi a lungo termine insostenibili. Ne deriva la necessità di porre dei limiti temporali e la previsione di un turn-over. Ciò che fatalmente accade, e si tratta di un fenomeno ubiquitario (9), è che le previsioni e i limiti temporali vengono di fatto per lo più disattesi, con prolungamenti della permanenza, con il transito da una struttura all’altra, o con dimissioni “forzate” che creano le premesse per il ripetersi di situazioni critiche analoghe a quelle che avevano reso necessario l’inserimento nelle strutture. Se invece si considera l’abitazione stabile come un progetto dell’utente, le risorse necessarie alla sua realizzazione e alla sua continuità saranno reperite da fonti istituzionali, attraverso meccanismi come i livelli essenziali di assistenza, solo quando e nella misura in cui quelle a disposizione dell’utente e della famiglia non siano sufficienti.

I fattori legati allo stigma (ovvero al rischio che l’ambiente sociale, specie quello a più stretto contatto con abitazioni in cui vivono persone delle quali può risultare evidente la condizione di disabilità psichiatrica, possa mostrare intolleranza, pregiudizi e discriminazione attiva) sembrano costituire un limite piuttosto relativo. Se la “casa” (prima che le persone che la abitano) è dall’esterno riconoscibile (ad esempio perché di proprietà del Comune o della ASL, con relativa “targa”) come alloggio in cui sono collocate persone a titolo di disabile psichiatrico, ciò attiverà pregiudizi e timori dei condomini. Se, al contrario, le persone vivono nella casa a titolo di inquilini in regola, con regolare contratto di locazione, il circolo vizioso dell’esclusione si può addirittura invertire, poiché, ad esempio, i vicini di casa possono sincerarsi della non sussistenza di una eventuale pericolosità prima che il pregiudizio si sia costituito. Ciò può essere favorito dal non concentrare le abitazioni supportate in un unico condominio o quartiere, nonché dalla collocazione di esse in quartieri più urbanizzati e con alta densità abitativa, preferibilmente abitati da gruppi sociali non esclusivi e piuttosto eterogenei. Ciò sembra permettere una maggiore privacy e contenere in modo naturale la stigmatizzazione (10).

“Struttura” vs. “setting meno restrittivo”
Le decisioni che determinano la collocazione del paziente nei vari snodi del percorso assistenziale, sono sottesi da paradigmi spesso impliciti. Una delle dicotomie più influenti in questo campo è quella fra “struttura” e “setting meno restrittivo”. Da una parte vige il paradigma che considera la strutturazione della vita quotidiana (in termini di supervisione, controllo, vigilanza, assistenza) come necessaria per sopperire alla supposta carenza di struttura interna dello psicotico: necessità apparentemente ineludibile, basata su un sano realismo, e che non può essere semplicemente ignorata sulla base di un atteggiamento ideologico (11). All’opposto, le posizioni sostenute dalle organizzazioni di utenti e supportate da indicazioni di policy autorevoli, raccomandano che ogni intervento in salute mentale dovrebbe aver luogo, tendenzialmente, nel setting meno restrittivo possibile (least restrictive setting) (12).

È ovvio che questa contrapposizione non può rimanere oggetto di una sterile battaglia ideologica, ma dovrebbe essere analizzata e discussa senza pregiudizi per trovare caso per caso un equilibrio che tenga conto di tutti i fattori in gioco, non solo delle valutazioni standardizzate e del giudizio clinico. Queste ultime, come è stato dimostrato, hanno spesso un ruolo decisivo sulle scelte che in ultima analisi determinano il destino a lungo termine degli utenti, ma restano soggette al dubbio di arbitrarietà e influenzate dai pregiudizi soggettivi degli operatori (13, 14).

Train and place vs place and train
Il principio “preparare e poi collocare” (mutuato dalla riabilitazione fisica) ha dominato il campo della riabilitazione psichiatrica: per rimediare alla vulnerabilità occorre procedere con gradualità, a tappe progressive. A ciò è connesso il concetto di linear continuum nell’ambito della residenzialità psichiatrica (15): lo sviluppo di un continuum graduale di programmi residenziali attraverso il quale il paziente “progredisce” verso un migliore funzionamento sociale e quindi verso setting meno restrittivi. Per realizzare ciò in ogni area territoriale è necessario prevedere un ventaglio coordinato e coerente di strutture a diversi livelli di intensità assistenziale, ognuna delle quali possa rispondere in modo appropriato ai bisogni contingenti. Il paziente dovrebbe quindi transitare lungo tale filiera di servizi, in relazione al grado di autonomia raggiunto, tendendo idealmente ad uscirne per accedere alla “vita indipendente”, o, eventualmente, “retrocedere” in caso di peggioramento del suo stato. Si tratta di un paradigma che, forse anche per la sua apparente semplicità concettuale, ha trovato una larga diffusione. Esso è, per esempio, implicito nelle raccomandazioni del Progetto Obiettivo Tutela della Salute Mentale 1998-2000 (Ministero della Salute, 1999), in cui, “con lo scopo di offrire una rete di rapporti e di opportunità emancipative” sono previste strutture “differenziate in base all’intensità di assistenza sanitaria (24 ore, 12 ore, fasce orarie)”. Se compiutamente realizzato, un sistema di questo tipo dovrebbe perciò, ad esempio, assicurare che, una volta “concluso” il programma terapeutico riabilitativo in una struttura residenziale e risolta in modo ottimale la dipendenza del paziente dalle relazioni significative che lì ha intrattenuto, si inauguri un cursus honorum verso il reinserimento sociale a pieno titolo. Ma, come si è già accennato, per una serie di ragioni ciò accade molto di rado. Innanzitutto perché realizzare una tale rete di strutture differenziate in ciascuna area territoriale è complicato e costoso. Molto spesso l’impresa viene pianificata, ma poi, per inerzia istituzionale o per carenza di risorse viene realizzata solo in parte; costituendo ciò un primo ostacolo. Qualora, poi, il “posto” in una struttura a minore assistenza fosse disponibile, questa dovrebbe prendere in carico il paziente solo per un ulteriore segmento temporale (se così non fosse, il sistema si saturerebbe rapidamente, compromettendo il turn-over). Peraltro, questo processo di transizione richiede delicati passaggi del paziente da un’équipe a un’altra; e tale delicatezza può essere fonte di instabilità, vulnerabilità e perdita dei supporti sociali costruiti nella situazione precedente. In ogni caso, le varie transizioni vengono decise dai curanti sulla base di una propria valutazione di “idoneità”; di conseguenza il paziente rischia di non avere alcuna opportunità di scelta personale. E d’altronde, considerata anche la ristrettezza a monte delle opzioni possibili, non sempre i curanti possono scegliere la soluzione più adeguata al caso, dovendosi spesso accontentare di sistemare il paziente “dove c’è posto”. Un esempio che può essere altamente indicativo è quello riportato nell'ambito del Progetto PICOS-Veneto, uno studio multicentrico regionale, in cui è stata realizzata un'indagine sui DSM, che, a proposito della residenzialità, conclude:
Il gradiente decrescente della dotazione di residenze, da quelle a maggiore protezione ed intensità di trattamento verso quelle che prevedono maggiori livelli di autonomia, fa ipotizzare che in molti DSM possa configurarsi una situazione a ‘collo di bottiglia’ in uscita: la scarsa dotazione di Comunità Alloggio e Appartamenti semi-protetti potrebbe impedire ai DSM di promuovere, per quegli utenti delle Comunità Terapeutico-Riabilitative con più bassi livelli di disabilità, una possibile esperienza di vita progressivamente autonoma, favorendone invece lo stazionamento in Comunità e procrastinando sine die gli eventuali tempi della verifica finale; da ciò conseguirebbe una saturazione dei posti letto, scarso o assente turn-over degli utenti [...], col rischio di cronicizzazione per i nuovi e più giovani psicotici che magari potrebbero beneficiare di un tempestivo trattamento riabilitativo in una cornice protetta residenziale” (17).

Che il paradigma del continuum residenziale fosse inaffidabile, del resto, è già apparso chiaro da tempo nelle situazioni in cui era stato pianificato e sottoposto a verifica: le transizioni attese si realizzavano solo in minima parte, e generalmente il percorso dei pazienti si bloccava nel primo slot della serie prevista (9). A una valutazione a posteriori, le conseguenze della sua applicazione sono state descritte come una sorta di “ottovolante di successi e fallimenti indotti dal sistema stesso, che lasciava tutti gli attori coinvolti in uno stato di grave frustrazione e demoralizzazione” (18); e si è fatta strada la convinzione che il “mito” del continuum lineare andasse seriamente ridimensionato.

Di segno opposto è il paradigma place and train, di più recente diffusione. Esso si basa sul semplice ma trascurato presupposto che le persone apprendono più facilmente dalle esperienze quando esse sono concretamente disponibili e realizzabili, piuttosto che dopo aver dimostrato un miglioramento dei sintomi e del funzionamento psicosociale. Un fondamentale risvolto di questa concezione, basata più in generale su un approccio recovery-oriented, è la possibilità di una vita indipendente e autodeterminata anche in presenza di sintomi psicotici persistenti. L’applicazione di esso nell’ambito dell’abitare è rappresentato dal principio dell’housing first, su cui tornerò più avanti.

Il circolo vizioso delle nicchie ambientali
Uno degli argomenti più incisivi a supporto dello Strenght Model in salute mentale (19) è che “la qualità della vita, i risultati conseguiti e gli esiti nella vita di una persona sono in parte determinati dalla natura delle nicchie in cui essa vive” (20). Estremizzando, esistono due tipi di nicchie: quelle “intrappolanti” (entrapping) e quelle “abilitanti” (enabling). La maggior parte delle nicchie è collocabile tuttavia in un qualche punto intermedio fra questi due estremi e include elementi di entrambe le tipologie. Il focus su questo aspetto è particolarmente rilevante poiché fa emergere un aspetto che rischia anch’esso di passare inosservato. Si tratta del rischio costantemente operante, dal momento che i bisogni dell’utente vengano letti prevalentemente in chiave di deficit, e quindi di accudimento e protezione, che gli operatori (e l’istituzione in generale) mettano in atto processi di involontaria squalificazione delle potenzialità evolutive. Questo punto è stato ad esempio sottolineato in ambito psicodinamico da Sassolas (21), attraverso il concetto di seduzione narcisistica, nonché dalla psicologia positiva con il concetto di learned helplessness (passività appresa) (22). La permanenza a lungo termine all’interno di strutture residenziali in cui vi siano scarsi incentivi all’autodeterminazione, possono essere considerate nicchie intrappolanti, in cui le caratteristiche stesse delle strutture alimentano la passività, l’inerzia, la dipendenza istituzionale e scarse opportunità di emancipazione. Questi fenomeni, per lo più inavvertiti, possono infine dar luogo ai casi descritti come non-protesting patients, nei quali le spinte all’autodeterminazione si spengono progressivamente e le persone possono essere collocate o ricollocate senza che esse esprimano più resistenze, e senza che sia chiaro quanto di tale passività sia l’esito più o meno definitivo di aspetti “degenerativi” o di “erosione del Sé” ascrivibili alla malattia o piuttosto rappresentino il risultato di processi agiti, pur con le migliori intenzioni, dall’istituzione.

Politiche di gestione/evitamento del rischio.
I documenti di policy australiani e neozelandesi (23) sono divenuti nell’ultima decade un riferimento internazionale per un approccio “moderno” alla gestione del rischio in salute mentale, definito come “la cultura, i processi e le strutture finalizzate a realizzare le opportunità potenziali degli individui nonostante la gestione degli effetti sfavorevoli (adverse effects)”. E’ un approccio che si distanzia nettamente da una visione unidimensionale del rischio in salute mentale considerato come ampiamente ascrivibile ai pericoli provenienti dall’utente, e invece considera il rischio come multidimensionale e dinamico, enfatizzando nello stesso modo i pericoli e i vantaggi dell’assumersi un rischio. Il processo di gestione del rischio non è più solo focalizzato sull’evitamento o l’eliminazione del rischio, ma sulla realizzazione di potenziali benefici pur riducendo la probabilità di danni che possano verificarsi come effetto dell’assumersi rischi.

Nel campo dell’abitare supportato questi aspetti giocano un ruolo centrale e impongono una riconsiderazione e un diverso discernimento fra fattori di rischio di varia natura. Ne consegue che un servizio orientato alla promozione di percorsi di vita indipendente deve porsi il problema e arrivare a una definizione chiara e condivisa del punto di equilibrio che può permettersi di adottare e delle responsabilità che può assumersi. Non si può negare che si tratti di un terreno scivoloso, in cui, accanto all’assunzione di un certo tasso di rischio “utile” alla crescita e all’emancipazione del paziente, occorre aver presente e minimizzare il rischio “dannoso”, attraverso pratiche di coinvolgimento attivo di tutti gli stakeholder e soprattutto attraverso forme di pronta reperibilità di natura ben diversa dall’assistenza “a fasce orarie” o da misure strutturali. La chiave di volta, in altri termini, dovrebbe essere la flessibilità dell’assistenza, tanto più efficace quanto più indirizzata ai bisogni per come vengono individualmente espressi, con le loro variabilità temporali, piuttosto che essere intesa come controllo sistematico e standardizzato della vita quotidiana.


L’abitazione supportata (supporting housing). Una breve revisione del concetto e della letteratura

Le radici della concezione attuale di abitare supportato si possono rintracciare, per quanto è noto, negli Stati Uniti con il Movimento per la Vita Indipendente (Independent Life) nel campo della disabilità, che ha tratto forza da altri movimenti sociali (quello per i diritti civili, il consumerismo, l’auto aiuto, la deistituzionalizzazione). Esso sosteneva una sorta di ribaltamento del paradigma della riabilitazione vocational, basato sul mero recupero del funzionamento, ovvero sul modello medico e sul Sick Role (il ruolo di malato, formulato da Talcott Parsons nel 1951, che implicava un divario di competenze incolmabile fra medico e paziente), in favore di un ruolo attivo e responsabile del paziente nel riassumere un ruolo sociale normale e il diritto all’autodeterminazione (24, 25).

Successivamente, nei primi anni ’90, negli Stati Uniti e in Canada, proprio mentre in Italia iniziava l’incremento esponenziale delle strutture residenziali, prendeva avvio una serie di iniziative tese a ribaltare i paradigmi tradizionali della residenzialità psichiatrica. La chiave di tale processo è l’individuazione dell'errore di fondo che rende difficoltosa l'applicazione del continuum residenziale, cioè lo stretto legame fra alloggio e assistenza che lo caratterizza in tutti i suoi passaggi (26, 27). Mentre, infatti, il bisogno di assistenza, derivante dagli aspetti clinici e dalla disabilità, può manifestare variazioni significative lungo il decorso (come dimostrano gli studi catamnestici), il bisogno di un luogo in cui vivere è invece una necessità costante ed universale, non solo per il paziente, ma per tutti gli esseri umani e per tutta la vita. La sistematica (ed impropria) sovrapposizione di queste due dimensioni rischia di creare le premesse perché diventino confuse e fra esse intercambiabili. L'effetto complessivo di tale processo è che la traiettoria esistenziale del paziente si trova ad essere costantemente vincolata alla collocazione spaziale del provider, anziché essere modulata sulla naturale variabilità temporale dei bisogni.

Il ribaltamento è perciò fondato innanzitutto sulla disgiunzione fra alloggio e assistenza. Ne consegue che:

Questo approccio, definito supported housing, o housing first, si è poi diffuso in vari paesi, accreditandosi come best practice (28, 29).
Il ribaltamento di prospettiva si evidenzia in diversi aspetti, come mostrato nella Tabella 1.

Maone NRSP Tab.1

In tal modo il luogo di vita tende ad assumere la sua funzione naturale, liberata dai vincoli contraddittori dell’istituzione. E’ la funzione che svolge per ogni essere umano: garantire la stabilità ed il controllo personale sull’ambiente, poter investire lo spazio abitativo di significati personali e viverlo come “rifugio sicuro”. Se sono presenti bisogni di assistenza nella vita quotidiana, essi possono essere assicurati attraverso interventi domiciliari individualizzati, contrattati con l’utente in base alle sue esigenze, in vista di una graduale autonomia, anziché essere standardizzati ed “imposti” dai protocolli dei servizi.

L’obiettivo di questo processo è quindi il radicamento stabile del paziente nella comunità, attraverso la restituzione di un “vero” spazio personale nel territorio e quindi di un autentico senso di appartenenza e di opportunità evolutive.

È superfluo sottolineare quanto la condizione di una persona “a casa propria”, anche a prescindere da quanto risponda ad un diritto di cittadinanza, possa tradursi in un consolidamento del senso di sé e quindi in un progressivo superamento dello stigma interno. E quanto il senso di validità interna, riacquistato attraverso il controllo di sé, dell’ambiente e della privacy, sia centrale e imprescindibile in ogni progetto di riabilitazione (30).

Negli ultimi vent’anni il supported housing è stato oggetto di un certo numero di studi, con il fine di individuare e definire i criteri essenziali dell’approccio e di tentare di valutare gli esiti della sua applicazione. In una revisione della Cochrane Collaboration (31), infatti, nessuno degli studi ha incontrato i rigidi criteri di inclusione. Va tenuto presente però che si tratta di un tema di interesse relativamente recente e che inoltre si tratta di interventi complessi, con molteplici variabili, su cui è arduo condurre studi controllati, per ovvie ragioni pratiche, etiche e metodologiche. Sono state condotte comunque diverse revisioni della letteratura (32, 33, 34, 35). Da esse emerge intanto una definizione abbastanza univoca, sintetizzabile nello schema illustrato in Figura 1. Una delle review più recenti e accurate (36) ha individuato alcuni studi di buona qualità metodologica, accanto ad altri con disegni meno rigorosi. Essa ha riguardato studi pubblicati dal 1993 al 2008 e ha permesso agli autori di concludere che gli interventi e i servizi di supported housing, e in particolare quelli che enfatizzano la scelta dell’utente, possono migliorare significativamente le condizioni di vita delle persone con disabilità psichiatrica, consentire la stabilità residenziale (fino all’80% a lungo termine) e produrre livelli più elevati di soddisfazione degli utenti.

Maone NRSP Fig.1

Dalla review di Waegemakers Schiff et al. (36), che ha esaminato 150 studi pubblicati nel corso di 15 anni, emergono alcune indicazioni che sono comuni a tutte le altre revisioni:

Dagli studi analizzati emergeva comunque che per una quota significativa di utenti si erano rivelate più appropriate situazioni alloggiative più protette e assistite da staff in situ (37).

La ricerca qualitativa ha fatto emergere l’utilità dell’approccio narrativo e degli aspetti soggettivi in questo campo. In particolare, la condizione abitativa indipendente rappresenta tipicamente un luogo da cui far ripartire un percorso di crescita e di ricostruzione di una vita (30, 38).


Conclusioni

Sembra possibile, dunque, immaginare un sistema di salute mentale in cui la risposta ai bisogni degli utenti più gravi venga svincolata, a un certo punto, da luoghi istituzionali più o meno vigilati e presidiati. Benché un po’ iperbolicamente, verrebbe da concludere che, una volta che un luogo in cui vivere ordinario e stabile venga assicurato, il luogo stesso tenda a dissolversi come strumento riabilitativo (attribuzione invece implicita e fondante nel paradigma riabilitativo tradizionale), divenendo semplicemente un elemento naturale della vita della persona; analogamente ad altri elementi essenziali come l’alimentarsi, il vestirsi, il prendersi cura di sé, l’avere relazioni sociali. Tuttavia la sua particolarità è che, fra tutti gli elementi che costituiscono e danno senso al vivere, la casa, intesa come “casa propria”, è quello più essenziale, che fa da perimetro al resto e radica il senso di appartenenza alla comunità. E verrebbe da aggiungere che in questa tendenza al suo dissolversi stia la “leggerezza insostenibile” della residenzialità “leggera”: tanto più leggera quanto meno “finalizzata a un progetto terapeutico” e quanto più utilizzata come mezzo di ricostruzione di una vita; leggera, quindi, poiché “vuota”, disponibile ad essere riempita di oggetti, relazioni e significati personali.

Ma, in modo altrettanto evidente, sembra emergere che non tutte le persone con disabilità psichiatrica possono, o vogliono, assumersi l’onere e la responsabilità di un’abitazione indipendente. Un sistema ideale, però, dovrebbe tenere aperta questa possibilità nel tempo e consentire che, anche in questi casi, sia l’utente a scegliere e decidere di volta in volta la soluzione migliore.


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L’autore dichiara di non trovarsi in situazioni di incompatibilità né in condizioni di conflitto di interessi anche potenziale, e di non aver ricevuto alcun finanziamento in relazione alla stesura di questo articolo.