Volume 17 - 3 Settembre 2018

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Basagliane.
Prime ipotesi di ricerca su un approccio storico alla cooperazione sociale

Autore


Riassunto

Attraverso le storie delle cooperative sociali è possibile ricostruire quella più complessa del welfare italiano. A condizione di andare oltre i singoli casi di studio, per cogliere la dimensione generale del fenomeno.


Abstract

Through the stories of social cooperatives it is possible to reconstruct the most complex one of Italian welfare. Provided to go beyond the individual case studies, to grasp the general dimension of the phenomenon.


Una premessa

È opportuna una premessa su come sia sorta questa linea di ricerca. A partire dalla constatazione elementare che la premessa fa parte dello stesso oggetto. Sempre più spesso - come operatore della cooperazione sociale di inserimento lavorativo, poi come presidente di una cooperativa di operatori sociali nata per gemmazione da una cooperativa di inserimento lavorativo, ed infine (per ora) come dirigente di Legacoopsociali – mi trovo a confrontarmi con alcuni ordini di problemi piuttosto concreti, che però rinviano direttamente a questioni inerenti le fonti, il campo degli studi e la comunicazione.

Il primo è quello della trasmissione intergenerazionale di un patrimonio esperienziale nato in un tempo sempre più lontano; il secondo è la relativa scarsità di studi, ed il loro insoddisfacente carattere scientifico; il terzo sono le modalità di pubblicazione e le sedi formative per socializzare quanto è necessario comunicare. Questi sono i problemi con cui sono obbligato a confrontarmi, non solo per il mio interesse personale di storico (anche se volto soprattutto al movimento operaio novecentesco) ma anche per la ripetuta, e sempre più frequente, sollecitazione da parte delle cooperative per effettuare interventi formativi.

Con questa dimensione, diciamo così, “esperienziale”, si è intrecciata in anni più recenti quella del confronto tra le numerose realtà di cooperative che in Italia si interessano di salute mentale, settore nel quale ho assunto il ruolo di portavoce del gruppo di lavoro dell’associazione. Realtà che, nel loro dialogo e confronto professionale, ad un certo punto (si) interrogano – in forma talvolta esplicita, più spesso implicita – a proposito del senso del proprio lavoro e di come vi abbiano influito i caratteri originali della propria esperienza.

Insomma: da tempo ho rilevato la necessità di affrontare in termini più rigorosi la dimensione della formazione, delle precondizioni e dei caratteri originali dell’esperienza della cooperazione sociale. Anche se purtroppo il lavoro procede a rilento, visto che il lavoro che faccio è soprattutto un altro. Come diceva Vladimir Ilic, parafrasando una riflessione giovanile marxiana, «è più piacevole e più utile fare "l'esperienza di una rivoluzione" che non scrivere su di essa» (1).


Un panorama ancora insoddisfacente

Partiamo innanzitutto dalla constatazione di un’assenza. Molto è stato scritto e, in occasione del quarantennale delle legge 180, si scrive e si ripubblica a proposito del movimento per la deistituzionalizzazione psichiatrica, promosso da Franco Basaglia in Italia negli anni Sessanta. Ma il materiale è soprattutto politico, memorialistico, soggettivo quando non polemico. Poche sono le opere storiche di sintesi, come quella recente di John Foot (2). Mancano gli studi regionali, con l’eccezione della Toscana (3) e, nel suo contesto, dei servizi del Grossetano.

Meno nota è la storia della particolare esperienza cooperativa che ne è derivata: praticamente inesistenti sono le opere relative alla cooperazione sociale nell’ampia rassegna bibliografica di Matteo Fiorani (5). L’unica opera che ambisce, almeno nel titolo, a ricostruire la storia della cooperazione sociale, si limita a generalizzare la storia dell’esperienza bresciana e trentina, incrociandola con le vicende di una delle associazioni nazionali del settore, dedicando solo accenni marginali alla cooperazione di inserimento lavorativo nata dall’esperienza della deospedalizzazione psichiatrica (6).

È importante chiarire che il sottoinsieme cooperativo oggetto di questo articolo è assai disomogeneo rispetto al mondo della cooperazione italiana nei suoi episodi più noti ed importanti. I lavori disponibili sono prevalentemente a carattere occasionale, prodotti soprattutto in occasione degli anniversari (7), dei bilanci sociali aziendali oppure per progetti europei. I testi utilizzano la memorialistica (8) piuttosto che la storia orale strutturata e le fonti a stampa. Un caso a parte è costituito dall’ampia pubblicistica triestina, di cui citiamo alcuni testi, ove prevalgono le riflessioni degli esponenti dei servizi sanitari e di studiosi (9).

Questa premessa è necessaria in quanto, anche nella stampa scientifica – dove gli storici difettano, mentre predominano sociologi, economisti, giuristi ed operatori sociali – non solo l’analisi quantitativa fa la parte del leone, ma la confusione è grande riguardo al complesso del Terzo Settore, con particolare riferimento non solo alle tipologie di enti, ma anche alle distinte categorie del volontariato gratuito e del lavoro retribuito, in regime di autogestione o di subordinazione.

Altro elemento critico è il rapporto tra la cooperazione sociale ed il mondo del welfare, oltre a quello tra le dinamiche settoriali e quelle della società, dell’economia e dello Stato nel suo complesso. Aspetti generalmente sottovalutati da una letteratura ampiamente egemonizzata dal solidarismo cattolico e dall’intreccio tra questo ed il liberalismo classico, e tutto ciò proprio mentre il mondo globalizzato è stato codificato dalla costituzione materiale del neoliberismo. Insomma, un guazzabuglio di descrizioni superficiali e di acritico buonismo - con qualche lodevole eccezione (10) - che, quando produce reazioni antagoniste, porta, anche da parte di studiosi impegnati e seri, ad incomprensioni e ripetizioni di luoghi comuni. Come quelli sulla pregiudiziale presenza di volontari e piccole dimensioni organizzative, al fine di caratterizzare la cooperazione sociale (11).

Nel nostro caso, siamo partiti dall’analisi di un gruppo di cooperative sociali, sia di operatori che di inserimento lavorativo, accomunate dal loro legame originario con il movimento di riforma psichiatrica. Ad alcune e ad altre erano stati dedicati precedenti articoli (12). Si tratta di una metodica già utilizzata in passato da altri ricercatori, pur non trovando ad oggi momenti di sintesi complessiva (13).

Quando non diversamente indicato, la narrazione relativa alle due cooperative, qui presentate come caso di studio, si basa su materiali prodotti dalle cooperative o da testimonianze di loro dirigenti (14).


La Nuova Cooperativa di Collegno

Anche in questo caso alle origini dell’esperienza cooperativa ci sono scioperi e manifestazioni da parte degli internati nei manicomi, che iniziano qualche anno prima che a Trieste, nel 1970 e poi nel 1977, cui segue la partecipazione alla manifestazione del Primo Maggio 1979 a Collegno. Nel 1970 si uniscono rivendicazioni sindacali, di spazi di vita e di politica sanitaria: «1) apertura del bar tutti i giorni con orario da stabilirsi; 2) trasferimento dei bambini dal reparto 10 all’esterno dell’ospedale; 3) aumento del premio ai lavoratori». Sciopero non privo di conseguenze: un sarto scioperante viene “licenziato” dal laboratorio nel quale è impiegato da 38 anni.

L’ergoterapia, anche a Torino, comporta impegni gravosi nelle varie attività che garantiscono il funzionamento dell’Ospedale Psichiatrico Provinciale, retribuite con un caffè o 10 sigarette al giorno. Inoltre, i lavoratori hanno come premio il diritto di uscire dai reparti, tre sere la settimana per due ore, per frequentare il bar interno al manicomio. Chi lavora come fattorino deve fermarsi altre due ore, oltre l’orario degli impiegati, per pulire gli uffici; le donne abili sono costrette ad un lavoro casalingo, neanche riconosciuto come ergoterapia, di pulizia dei reparti. Diversa, anche se di gran lunga inferiore ai salari dell’epoca, la condizione di alcuni degenti negli ospedali veneziani, che per lunghe giornate di lavoro percepivano da 20.000 a 50.000 lire mensili (15). Simile alla situazione torinese è invece quella triestina, dove alcune attività erano retribuite con 5 sigarette la settimana, altrettante lire (in una specie di moneta interna, spendibile solo allo spaccio) ed una merenda, oppure una bistecca aggiuntiva all’alimentazione ospedaliera. Il tutto a carico del Patronato, cioè un’istituzione alimentata da donazioni di benefattori od altri enti diversi dalla Provincia (16).

Nel 1968, l’incontro con il movimento degli studenti (che abbattono il cancello di ingresso) aveva segnato il primo scossone alla rassegnata esistenza dei ricoverati, passivamente assuefatti ad intendere anche ogni promessa di cambiamento come la premessa dell’ennesimo inganno.

Inizia così, attraverso un percorso centrato sull’assemblea dei degenti ed ospiti dell’ospedale psichiatrico torinese (che ha sedi a Collegno e Grugliasco), il percorso che porta alla costituzione, il 27 maggio 1980, della Nuova Cooperativa. La scelta di costituire una cooperativa di utenti è stata preceduta dall’esperienza di lavoro interno all’ospedale attraverso tre cooperative esterne, avviata nel 1978 attraverso un accordo tra l’Opera Pia (che gestiva i manicomi prima della costituzione delle Usl) e le organizzazioni sindacali. Sono queste ultime – spinte dalla maggioranza del personale infermieristico, che si trova espropriato delle sue funzioni di controllo - a permettere che vengano assegnati agli utenti i soli servizi di pulizie, e non anche quelli nei laboratori artigiani (dove operano ortolani, calzolai, materassai, falegnami, lavandaie). Le cooperative sono lottizzate tra sindacati ed associazioni di categoria, e soprattutto pretendono prestazioni di lavoro “normali” ed espropriano gli utenti di ogni potere di elaborazione e decisione collettiva. Si verificano anche gravi irregolarità, incentivando così la scelta di costituire una cooperativa autonoma, che già nel nome vuole rappresentare un momento di rottura con l’alienazione manicomiale e con le esperienze precedenti.

Alla costituzione della cooperativa collaborano, come nell’esperienza triestina, amministratori dell’Opera Pia come Sandro Guiglia ed operatori, come le assistenti sociali Maria Teresa Battaglino ed Anna Di Mascio, volontaria nei reparti femminili, e Carla Braccia, volontaria nel reparto dove risiedono i degenti lavoratori dei servizi generali. Di Mascio e Braccia saranno la presidente e la vicepresidente, inizialmente retribuite grazie ad una borsa di lavoro, mentre il Consiglio di Amministrazione sarà costituito da una maggioranza di utenti (5 su 7). La relazione con l’Opera Pia viene sancita da una delibera del gennaio 1980, che procede all’affidamento diretto dei servizi alla Nuova Cooperativa. Si inaugura un percorso virtuoso che sarà ostacolato per tutto il decennio dal Comitato Regionale di Controllo sugli enti locali, che eccepisce questa procedura, finché essa sarà riconosciuta nel 1989 da una sentenza del Tar.

Sono i due settori esclusi dall’accordo sindacale a diventare il centro della Nuova Cooperativa. Iniziando a porre la questione di genere, visto il carattere prettamente maschile delle attività inizialmente avviate. È l’istituzione, in questo caso, a fornire il proprio sostegno all’autogestione, superando le resistenze corporative rappresentate dal sindacato. Come elemento di giunzione con il personale del manicomio, viene inserito in cooperativa un infermiere impegnato nel processo di riforma, Italo Pent, mentre la garanzia dell’autonomia passa attraverso la scelta della più giovane volontaria come presidente.

Grazie agli affidamenti iniziali, la Nuova Cooperativa nasce subito grande: nel 1981 supera i 100 soci lavoratori ex degenti, oltre alle due amministratrici esterne. Invece la strutturazione amministrativa avviene con maggiore lentezza, con l’assunzione nel 1981 dei primi impiegati amministrativi e di quelli che accompagnano le squadre di lavoro. Negli organismi di controllo sono presenti gli operatori (i tre probiviri sono il supervisore dell’Ospedale Psichiatrico Provinciale, Agostino Pirella – passato per l’esperienza di Gorizia con Basaglia, e della deistituzionalizzazione di Arezzo – e due operatori che coordinano le comunità residenziali costituitesi all’interno dell’ospedale, mentre tra i sindaci revisori dei conti ci sono quadri amministrativi dell’ente ed un rappresentante sindacale). Anche se il cruccio del Consiglio di Amministrazione è quello di mantenere l’autonomia della cooperativa rispetto a tutti i possibili condizionamenti esterni, «nell’accettazione del criterio che qualifica l’impresa: la direzione politica deve essere degli ex degenti».

Quanto alle retribuzioni, si parte dal livello raggiunto con le tre cooperative esterne, molto al di sotto della paga sindacale, per acquisire progressivamente (nel 1983) la retribuzione contrattuale. È previsto anche un quarto livello operaio, per retribuire la maggiore professionalità acquisita dai soci lavoratori. Un elemento di contraddizione è costituito dall’assunzione di dipendenti che non provengono dal manicomio: dai senza fissa dimora di Torino (che creano la preoccupazione di aggravare la stigmatizzazione dei cooperatori-utenti) ai giovani utenti dei servizi sociali, per i quali il lavoro non è più occasione di liberazione ma dura necessità, fino ai disoccupati inviati dagli uffici di collocamento, che pretendono immediatamente l’applicazione del Ccnl e della relativa quattordicesima mensilità. Ciò mentre i soci lavoratori impegnati nei padiglioni dell’ospedale sono invece vincolati dagli appalti a svolgere un servizio più impegnativo, legato ai tempi dell’istituzione oltre che controproducente per il solo fatto di svolgersi nei luoghi fisici della propria sofferenza. Proprio per gestire le problematiche relative all’organizzazione del lavoro vengono assunte nuove figure di istruttori, che debbono accompagnare le squadre di soci svantaggiati, e questi sono generalmente reclutati tra gli operai sindacalizzati espulsi dalle fabbriche, sia alla Fiat ed alla Indesit che nelle piccole aziende del comprensorio.

L’esperienza della cooperativa collide con il nuovo clima che si crea a Torino con la sconfitta alla Fiat dell’autunno 1980. Ma su un altro piano, coincide con l’azione della giunta di sinistra guidata da Diego Novelli, per la promozione di un moderno welfare cittadino. Dalla collaborazione tra servizi pubblici e giovani operatori nasce una pluralità di cooperative, prevalentemente di servizi sociali (alcune erano preesistenti, come la Pier Giorgio Frassati, promossa nel 1976 da un prete operaio grazie al lascito della famiglia dell’intellettuale cattolico (17); le più note tra le altre sono Animazione Valdocco, Il Margine, Progetto Muret).

La costruzione della cooperativa passa attraverso una serie di momenti comunitari, in continuità con il lavoro preparatorio precedente: dalle assemblee settimanali, ai soggiorni, viaggi e corsi residenziali. È in quelle occasioni, nelle quali partecipano anche gli operatori che condividono il progetto, che vengono elaborate le strategie della cooperativa, volte a contemperare lo sviluppo lavorativo fuori del manicomio con l’esigenza di risposte alle problematiche personali dei soci. L’autogestione viene alimentata da momenti collettivi di verifica, cui partecipano tutti i soci, che si svolgono attraverso riunioni settimanali, seminari residenziali e vacanze collettive.

«La formazione è stata molto di più di uno strumento; è stato un metodo e per certi aspetti un contenuto di costruzione dell’azienda e del processo di risocializzazione degli ex degenti, cioè nel passaggio, non facile né breve, da degenti dell’ospedale a soci lavoratori.

Abbiamo usato la formazione, nella forma e nella metodologia dell’educazione degli adulti, come strumento politico-culturale finalizzato ad una trasformazione sociale e alla preparazione di agenti di cambiamento. Come ha testimoniato Sandro Guiglia, i riferimenti erano l’approccio formativo inteso come presa di coscienza della realtà, usato da Peuple et Culture durante il maquis (la guerra partigiana) francese (quale società vogliamo dopo la Liberazione), oppure dei programmi Unesco tra i contadini diseredati del Sudamerica (come organizzarci per scrollarsi di dosso la miseria e la fame) o ancora, più vicino a noi, l’intervento Ispes a Torino tra gli immigrati meridionali nei quartieri ghetto tra il 1965 e il ’68 (come ottenere servizi nei nostri quartieri) e poi con il sindacato Fim/Cisl e successivamente Flm per la formazione dei nuovi quadri sindacali in Fiat» (18).

Nel 1981 una delegazione della Nuova Cooperativa approfitta del Carnevale di Venezia per studiare l’esperienza della Cooperativa Libertà, dalla quale viene mutuata l’organizzazione in squadre, che permette la sostenibilità del lavoro attraverso l’affiancamento di lavoratori più produttivi a quelli più segnati dall’esperienza manicomiale. Sempre nel 1981 in un seminario di studio a Lillaz (Val d’Aosta) vengono fatte dialogare le diverse visioni dell’azienda, rappresentate dal responsabile di produzione Cesare Fagà, con un passato di direttore di fonderia prima di entrare in manicomio, e dell’insegnante di formazione olivettiana Sandro Guiglia. Una personalità, quest’ultima, che spicca come quella del più importante protagonista nazionale dell’esperienza della cooperazione sociale di inserimento lavorativo: militante di Avanguardia Operaia, dapprima amministratore dell’Opera Pia delegato allo sviluppo del progetto della Nuova Cooperativa, poi coordinatore del Torino Progetto.

Uscendo dall’ambito delle pulizie dei reparti di degenza, la cooperativa inizia a svolgere servizi sul territorio,a diversificare le sue attività: come le mense, le piccole manutenzioni, la gestione di una cascina, i servizi igienici della città. Attività che si collegano al trasferimento degli utenti dagli ospedali a nuovi alloggi in città ed alla riflessione sul carattere della cooperativa (anche il semplice trasferimento di residenza impone interventi formativi, ad esempio per la gestione dei trasporti). In questo quadro di interventi di deistituzionalizzazione, l’attività della Nuova Cooperativa si lega in particolare, sotto l’aspetto della progettazione e della formazione, a quella della Progetto (poi Progetto Muret) , cioè una cooperativa «di giovani operatori non professionisti (psicologi o psichiatri o infermieri), motivati ad un lavoro sociale di restituzione di cittadinanza che si impegnavano nella concretezza del lavoro quotidiano, a stare vicino alle persone per consentire a loro di poter vivere in autonomia e fuori dall’istituzione totale».

Allargamento della base sociale e superamento dell’orizzonte costituito dal manicomio chiuso pongono nuovi interrogativi alla cooperativa. Come affermano due soci intervenuti al seminario tenutosi a Santa Vittoria d’Alba, da un lato: «Io penso che lo scopo della nostra cooperativa sia quello di aiutare non solo l’ammalato in manicomio, ma tutti i disgraziati che hanno bisogno di essere aiutati, offrire loro un’attività… Se la cooperativa fa sempre lavorare in manicomio, non riusciremo mai a liberarci da questo manicomio, non riusciremo mai a toglierci di peso questa cosa che ci tormenta tutti i giorni» e dall’altro. Secondo Salvatore Garaguso e Pino Lisiardi: «Oggi i servizi ci chiedono aiuto, ma noi dobbiamo mantenere la nostra indipendenza, non dipendere troppo dai servizi» (19). Una contraddizione che viene sintetizzata al convegno nazionale di Pordenone del 1988 da Anna Di Mascio e Renate Georgen, presidente della cooperativa triestina Il Posto delle Fragole: «Nella contraddizione delle cooperative tra imprese economiche e cooperative emanazione di servizi di salute mentale, i rischi possibili sono: da una parte la psichiatrizzazione delle esperienze, dall’altra la rigidità dell’organizzazione aziendale che non lascia spazio alla soggettività individuale» (20).

Torino diviene con l’esperienza della Nuova Cooperativa il centro del movimento nazionale delle cooperative basagliane. Preso atto «che non vi sarebbe stata possibilità di sopravvivenza sul mercato per queste esperienze se non fosse intervenuta una legislazione, a livello nazionale, che ne riconoscesse la valenza sul piano sociale e, in qualche modo, ne coprisse lo scarto di produttività», la Nuova Cooperativa promuove a Torino dal 6 all’8 dicembre 1982, con il sostegno delle istituzioni regionali, il convegno nazionale “La cooperativa per superare l’emarginazione”, cui partecipano oltre 400 persone, espressione delle 43 cooperative avviate od in fase di costruzione e dei servizi pubblici ad esse collegati. Dal convegno nasce il Coordinamento Nazionale delle Cooperative per il superamento dell’emarginazione, che organizza una sessantina di cooperative ed inizia i suoi lavori a Quarto di Genova il 7-8 febbraio 1983 (21).

Sarà Guiglia ad assumere il ruolo di portavoce del coordinamento nazionale, che pone al centro della sua attività l’approvazione di leggi (a livello nazionale e regionale) che permettano alla cooperazione sociale di consolidare il suo ruolo, superando il gap rispetto alle imprese “normali” sul mercato. A tal fine, vengono individuati come punti qualificanti la riduzione del costo del lavoro, a fronte della minore produttività dei soci svantaggiati e della necessità di affiancarvi operatori di sostegno, e modalità particolari di affidamento dei servizi, in deroga alla normativa appaltistica. La soluzione sarà costituita dagli articoli 4 e 5 della legge 381/1991.

Secondo Anna Di Mascio, «Il Coordinamento consegnò alla Lega Nazionale Cooperative e Mutue il primo testo di una legge nazionale. Il mondo cattolico in quegli anni, attraverso le cooperative di solidarietà, stava a sua volta elaborando una proposta di legge nazionale. La mediazione tra i due mondi e le due anime la facemmo noi, a Torino: Sandro Guiglia, [Anna Di Mascio] e Alfredo Morabito, allora presidente dell’Associazione Servizi della Lega delle Cooperative di Torino». Il coordinamento ha una sua connotazione autonoma da Legacoop, ma il rapporto nasce dall’adesione, spesso critica, delle principali cooperative anche a quell’associazione.

Alla fine uscirà nel novembre 1991 una mediazione onorevole tra due concezioni assai distinte, nelle quali la parte cattolica inserisce la figura del socio volontario di cooperativa (normato dall’art. 2 della legge 381), accolta con particolare sospetto dal mondo della cooperazione basagliana, che vi intravede un possibile cavallo di Troia per la riproposizione del lavoro irregolare, ma che poi concretamente avrà una diffusione limitata. Viene invece abbandonata l’idea, sempre di parte cattolica, di veder riconosciuto per legge un ruolo subalterno degli utenti come soci-utenti, che riproporrebbe l’ergoterapia al posto del lavoro regolarmente retribuito (22).

Un nuovo convegno torinese, il 31 gennaio -2 febbraio 1986, sarà l’occasione – oltre che per discutere della legge regionale piemontese, che sarà approvata nel 1989 con il n. 48 - per il confronto che porrà le basi per l’accordo, grazie alla presenza di Felice Scalvini, presidente di Federsolidarietà.

Il coordinamento serve come base per costruire una rete europea, il Cefec (Confederation of European Social Firms, Employment Initiatives and Social Co-operatives), che inizia le sue attività nel 1987 a Berlino, per riunirsi una seconda volta a Torino l’anno successivo. Tra il 1988 ed il 1990 il coordinamento si scioglie in base ad impegni, poi disattesi, di Legacoop, nel quale era confluito. Nel 1990, quando il coordinamento nazionale si ricostituirà dopo una parentesi come sezione italiana del Cefec, il presidente sarà Giancarlo Carena, presidente della Cooperativa Agricola Monte San Pantaleone di Trieste. (23).

Mentre la Nuova diventa il centro politico della cooperazione basagliana, l’esperienza di autogestione della cooperativa sembra entrare in crisi nel triennio 1986-1989, nel quale si evidenzia una contraddizione tra il Consiglio di Amministrazione costituito dai soci fondatori provenienti dal manicomio e la realtà tecnica che gestisce la produzione della cooperativa. Periodo che vede la cooperativa impegnata in una situazione di tensione economica ed organizzativa, segnata dall’introduzione di procedure di affidamento competitive e alla necessità di fare investimenti, accompagnati nel 1987 da una ristrutturazione aziendale. Ciò porterà ad una nuova gestione, nella fase successiva, con l’elezione nel 1989 di un Consiglio di Amministrazione in cui si riduce il peso dei soci svantaggiati “storici”, a favore dei quadri tecnici intermedi.


La Cooperativa Aelle Il Punto a Roma

La cooperativa “Aelle il Punto” nasce a Roma, all’interno dell’Ospedale psichiatrico S. Maria della Pietà, nel 1980, con il processo di superamento dell’istituzione manicomiale e l’avvio di un sistema di cura territoriale in grado di affrontare la sfida dell’attuazione della legge di riforma 180.

Il gruppo fondatore era costituito essenzialmente da giovani, in parte neolaureati in psicologia, altri insegnanti, studenti e artigiani. Inizialmente erano due cooperative distinte: “Aelle” (Arte e Lavoro) ed “Il Punto”.

Il manicomio era ancora un’istituzione chiusa, dal quale – anche se erano state bloccate le ammissioni – era impossibile uscire.

Le due cooperative hanno occupato, all’interno dell’ospedale, il Padiglione VII allo scopo di poter dare vita ad un luogo “altro dai padiglioni” , per accogliere e dare ascolto a quanti dei pazienti avevano voglia di esprimersi all’interno di attività protette e a raccontarsi all’interno di gruppi di ascolto e di scrittura.

Il Padiglione VII si è trasformato in Centro Sociale, all’interno del quale si svolgevano quotidianamente delle attività. Dopo una prima fase di autogestione, la struttura è stata riconosciuta dall’istituzione. Per dieci anni è stato un luogo diverso, dinamico e propositivo, ma con una amministrazione dell’ente non ancora pronta a sostenere programmi innovativi di risocializzazione e riabilitazione e così spesso i percorsi venivano vanificati dall’immutabilità della cronicizzazione. Senza interruzioni per oltre dieci anni, tra periodi di volontariato e periodi coperti da convenzioni, le Cooperative hanno garantito l’apertura del Centro Sociale tramite la attivazione di laboratori di lettura e scrittura, ceramica, pittura, pachtwork, giardinaggio, teatro di figura.

Tutti questi spazi, ed altri ancora, hanno consentito ai pazienti di comunicare capacità ed emozioni, ritrovare una loro identità e un loro protagonismo. Tanti libri pubblicati, mostre di pittura e di artigianato, rappresentazioni teatrali, dibattiti e confronti e innumerevoli feste hanno favorito sempre più un rapporto vivo tra il quartiere e la città.

Ancora negli anni 80 del secolo scorso dire a qualcuno “ma sei di Monte Mario!” indicava il fatto che questi fosse un po’ matto ed effettivamente il quartiere che ospitava l’ospedale aveva vissuto un suo lungo destino di marginalità che culminava con l’area del grande parco del Manicomio.

Questo decennio ha rappresentato per gli operatori la possibilità di fare un’esperienza irripetibile dal punto di vista professionale, culturale e umano, connotandosi essi stessi operatori della trasformazione. Nel 1991 le due cooperative “Aelle” e “Il punto” si unirono in una unica Cooperativa, nacque così la “Aelle il Punto”.

Molteplici sono state le esperienze “pilota”, nel trattamento del paziente grave e fortemente istituzionalizzato, nate grazie alla forza propulsiva dei cambiamenti in atto, alle intuizioni personali e al forte coinvolgimento degli operatori della salute mentale dei servizi pubblici, del privato sociale, delle realtà locali.

In questo la Cooperativa Aelle Il Punto è stata un partner attivo della pubblica istituzione e nel corso degli anni ha lavorato per trasformare le esperienze in modalità di cura per il consolidamento di buone pratiche riabilitative per una co-gestione dei servizi psichiatrici territoriali.

Dalla chiusura del manicomio sono nate numerose esperienze residenziali ognuna con una propria identità e con la possibilità, da parte degli operatori, di accompagnare gli utenti dimessi dopo lunghi anni di reclusione, passo dopo passo, lungo il percorso di deistituzionalizzazione finalizzato alla riattivazione dei meccanismi arrugginiti, al recupero delle potenzialità residue e valorizzazione di tutte quelle capacità in grado di autonomizzare parti di funzionamento autonomo delle persone (alcuni pazienti avevano trascorso 40 anni della loro vita in manicomio).

La Cooperativa Aelle il Punto, dal Centro Sociale affronta diverse sfide, che portano gli utenti a superare la dimensione dell’apertura del comprensorio manicomiale, per affrontare quella della fuoriuscita sul territorio. Vengono realizzate le prime uscite in città, i primi soggiorni vacanza estivi, che fino ad allora erano stati negati agli utenti, costretti a rimanere chiusi nell’istituzione, la prima corsia autogestita all’interno di un padiglione per sperimentare la vita comunitaria tra gli utenti. Gli stessi utenti, nel 1989 sono partiti per un soggiorno estivo della durata di 15 giorni, l’anno successivo effettuano il soggiorno a Chiusi in agriturismo e dopo il periodo di vacanza, manifestano il desiderio di non rientrare in manicomio e scrivono una lettera in cui esprimono con decisione la loro scelta.

Il gruppo degli utenti e degli operatori rimangono a Chiusi per tre mesi, tempo necessario per sistemare tutte le procedure istituzionali, trovare una struttura adeguata, organizzare ed effettuare il trasferimento.

Nasce così la Comunità “Il Poderaccio” a Bracciano, a pochi passi dal lago: gli utenti non rientrano più al S. Maria della Pietà e vengono definitivamente dimessi.

Dopo questa esperienza positiva, partono tanti altri progetti di dimissione e di residenzialità assistita a vari livelli, progetti comunitari, appartamenti, case famiglia e centri diurni.

L’esperienza continua e si intensifica alla fine degli anni ’90, quando la cooperativa viene chiamata ad affrontare un’altra importante sfida: quella di collaborare per la chiusura definitiva del “residuo manicomiale”. Il progetto prevedeva una prima fase di lavoro riabilitativo interno con il “Progetto Giuseppina”, seguito dal trasferimento in una struttura esterna con l’avvio di una comunità in grado di accogliere i “casi di massima gravità”.

Anche in questo la Cooperativa Aelle Il Punto è stata un partner attivo della pubblica istituzione e nel corso degli anni ha lavorato per trasformare le esperienze in modalità di cura per il consolidamento di buone pratiche riabilitative per una co-gestione dei servizi psichiatrici territoriali.

Nella pratica clinica e nel perseguimento della finalità pubblica, la cooperativa ha collaborato con l’istituzione per favorire percorsi di restituzione di dignità ai “casi difficili di estrema gravità e di non collaborazione” che spesso hanno messo in difficoltà gli stessi reparti Spdc. L’intervento degli operatori della cooperativa, finalizzato alla decontenzione, ha favorito l’avvio di progetti personalizzati volti al miglioramento delle condizioni di vita e all’inserimento in strutture residenziali adeguate.

Si passa quindi dalle iniziali scelte ideologiche, che muovono i primi cooperatori, all’acquisizione di una dimensione scientifico-professionale innovativa nelle pratiche terapeutiche (che vede anche la presenza di giovani professionisti inseriti nel mondo della ricerca e della formazione superiore), gli operatori assolvono sempre più la funzione di «ricercatori delle buone condizioni di salute».

A trentacinque anni dalla fondazione della cooperativa, questa ha assunto una dimensione di media azienda, con 180 operatori, in possesso delle diverse professionalità del settore, cui si aggiungono giovani che iniziano il loro percorso tramite il servizio civile. Ciò nonostante, la cooperativa ritiene sia indispensabile mantenere la fedeltà al suo progetto costitutivo e ritiene, anche, sia di fondamentale importanza continuare a mantenere alto il livello qualitativo e valoriale dei servizi alla persona.

La cooperativa opera attraverso la gestione di tante piccole strutture residenziali, sparse nel territorio in stretta relazione con le reti relazionali dei vari quartieri. L’offerta di servizi odierna tiene conto del cambiamento dell’utenza, passata dagli utenti istituzionalizzati, dell’istituzione totale, ai giovani le cui problematiche sono completamente diverse e rispecchiano i cambiamenti socio economici e culturali variati nel corso degli anni (anche attraverso la predisposizione di percorsi di prevenzione e gestione degli esordi).


Una pausa prima di ripartire

Come emerge anche dalla vicenda di queste due esperienze presentate, ogni storia di cooperativa può essere significativa sotto almeno tre aspetti. Come storia d’impresa; come storia dei servizi di welfare; come tassello di una storia generale.

Fornendo materiali per evidenziare un quadro molto più ricco e meno schematico di quello elaborato finora. Basti confrontare l’evolversi della storia italiana della cooperazione sociale come movimento, soprattutto nei suoi primi decenni di vita, come risulta delineato nell’esperienza torinese qui proposta, con il quadro presentato da Borzaga e Ianes (24).

Ma questo è solo uno spunto, su cui non bisogna aver fretta di arrivare alle conclusioni, e su cui è opportuno semmai pensare ad una ricerca nazionale a vasto raggio, di cui si sente da tempo l’esigenza.


Bibliografia

1) Vladimir Lenin, Stato e rivoluzione, Poscritto alla prima edizione, in: Opere scelte, volume II, Mosca, Edizioni in lingue estere, 1948, p. 209.

2) John Foot, La “Repubblica dei matti”. Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia, 1961-1978, Feltrinelli, 2014.

3) Christian G. De Vito, I luoghi della psichiatria, Firenze, Polistampa, 2010.

4) Matteo Fiorani, Follia senza manicomio. Assistenza e cura ai malati di mente nell'Italia del secondo Novecento, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2012.

5) Matteo Fiorani, Bibliografia di storia della psichiatria italiana 1991-2000, Firenze University Press, 2010.

6) Carlo Borzaga e Alberto Ianes, L’economia della solidarietà. Storia e prospettive della cooperazione sociale, Donzelli, 2006, pp. 109-110.

7) La Nuova Cooperativa, Volevamo soltanto cambiare il mondo. Storia di un’impresa sociale a Torino negli anni Ottanta, Sonda, 1992 ed: Alessandro Cuk (a cura di), La diversità che mi fece stupendo. 22 anni di Libertà, Venezia, Alcione, 1999.

8) Franco Marzocchi, Storia tascabile della cooperazione sociale in Italia. Con un occhio rivolto al futuro, Aiccon, [2012].

9) Maria Urpino Badell, Luciano Damiani, Alfonso Gaglio, Giancarlo Postiglione, Enzo Sarli e Gianfranco Virgilio, Contraddizioni e prospettive di uno strumento di emancipazione ed Alfonso Gaglio ed Enzo Sarli, L’ergoterapia contro il diritto al lavoro ed il salario, «Fogli d’informazione», n. 17 dell’ottobre 1974 e 20 del gennaio 1975; Hermann Simon, Il lavoro rende liberi? Dall’Ergoterapia all’Istituzione Inventata (a cura di Lorenzo Toresini), Sapere 2000, 1990; Giovanna Gallio, Nell’impresa sociale, Edizioni E, 1991; Ota De Leonardis, Diana Mauri, Franco Rotelli, L’impresa sociale, Anabasi, 1994 e Giovanna Gallio, Io, la Clu. Conversazioni sull’essere e diventare cooperativa, Edizioni E, 1997.

10) Luca Fazzi, Tesi e controtesi sul futuro el terzo settore, in: Animazione Sociale, Animazione sociale, n. 45, 2015, pp. 28-41.

11) Giovanni Moro, Contro il non profit, Roma-Bari, Laterza, 2014.

12) Gian Luigi Bettoli, Lavori da matti, in: «Zapruder», n. 38, 2015; Giuseppe Salluce, Cooperative e case famiglia nel materano. La storia e Gian Luigi Bettoli, Quando diventare lavoratore dipendente può essere rivoluzionario. La cooperazione sociale "basagliana" a Nordest, in: «Nuova Rassegna di Studi Psichiatrici», n. 15, 2017.

13) Myriam Da Rin (a cura di), Il lavoro fra alienazione e liberazione. Le cooperative integrate: dall’ospedale psichiatrico al territorio, Venezia, Marsilio, 1991; Tito Menzani, Psichiatria democratica, filosofia dell’Abbé Pierre e crisi del welfare state. Alle origini della cooperazione sociale (1972-1981), in: «Non profit. Diritto & management degli enti non commerciali», n. 2, 2007, pp. 407-431; Alberto Ianes, La cooperazione sociale come storia d’impresa, in: «Imprese e storia», n. 37, 2009, pp. 85-130.

14) La Nuova Cooperativa, Volevamo soltanto cambiare il mondo, cit.; Anna Di Mascio, Una scommessa chiamata “cooperazione sociale”: ricordando Sandro Guiglia, in: «Solidea», n. 3, 2012, pp. 24-26; Aelle Il Punto, Un cammino lungo trent’anni, dvd ad uso interno, 2011; appunti di Antonietta Lo Scalzo sulla storia della cooperativa; Pietro Salemme, Abitare. Dodici storie ai margini, Edizioni Universitarie Romane, 2006; Luciano Rondine (a cura di), Qui fa bene. Tracce di lavoro con la sofferenza psichica dei migranti forzati, Quaderni di Ricerca e Analisi Psicosociale di Aelle Il Punto, [2015], http://aelleilpunto.it/images/pdf/unosguardoobliquo.pdf

15) Cuk, La diversità che mi fece stupendo, cit., p. 41.

16) Simon, Il lavoro rende liberi?, cit., pp. 151-153, 159 e 166-167.

17) http://www.coopfrassati.com/produzione-lavoro/storia/; Menzani, Psichiatria democratica, filosofia dell’Abbé Pierre e crisi del welfare state, cit.

18) La Nuova Cooperativa, Volevamo soltanto cambiare il mondo, cit., p. 77.

19) Idem, pp. 88-89.

20) Idem, p. 170.

21) Cuk, La diversità che mi fece stupendo, cit., pp. 63-68; Simon, Il lavoro rende liberi?, cit., pp. 168-177.

22) Simon, Il lavoro rende liberi?, cit., pp. 171-172.

23) Anna Di Mascio, in: Associazione nazionale Cooperazione per l'Impresa Sociale, Sezione italiana del C.E.F.E.C., Assemblea di presentazione – Resoconto dei lavori, Bologna, 20 gennaio 1993, dattiloscritto.

24) Borzaga e Ianes, L’economia della solidarietà, cit.