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Riflessioni epistemologiche sul rapporto fra ascolto degli utenti e saperi clinici nei Servizi di Salute Mentale

Autori

Ricevuto il 31 ottobre 2021 – Accettato il 20 novembre



Riassunto

Il testo si prefigge di analizzare le implicazioni epistemologiche del processo clinico nell’ambito dei Servizi pubblici di salute mentale. A tal fine, le riflessioni metodologiche di Georges Devereux volte a fondare una generale scienza del comportamento costituiscono il punto di partenza per mettere in evidenza il rapporto che esiste fra la qualità della relazione instaurata e instaurabile con l’utente e le modalità di utilizzo delle – e di rapporto con – le conoscenze scientifiche da parte del clinico. La proposta complessiva mira all’umanizzazione per via epistemologica del rapporto di conoscenza, per supportare dal lato della produzione di conoscenza in questo ambito del sapere e del saper-fare l’umanizzazione dei contesti di cura operata attraverso la messa in discussione dei rapporti di potere fra utenti e clinici.


Abstract

The article aims to analyse the epistemological implications of the clinical process in the context of public mental health services. Georges Devereux’s methodological reflections on a general science of behaviour represent the starting point for highlighting the intertwining between the quality of the relationship with the users and the way in which clinicians use the scientific knowledge and relate to it. The overall proposal tries to promote the epistemological humanization of the knowledge relations and production of knowledge, to support the humanization of contexts of care operated through the critique of power relations between users and clinicians.



La conoscenza dell’utente da parte del clinico è un processo altamente complesso che coinvolge tutti i sensi e si declina attraverso le corrispondenti modalità interattive: ascoltare, osservare, sentire (col e nel corpo) e finanche odorare (benché le mascherine abbiano non poco ostacolato questa possibilità di contatto con l’altro in epoca pandemica). Per sintesi espressiva, qui di seguito nel testo, una qualunque delle modalità interattive (ascoltare, osservare, ecc.) potrà essere usata per esprimerle e considerarle tutte nel loro insieme. Almeno in questa sede, si possono considerare marginali le differenze denotative e connotative fra i diversi canali interattivi: ad esempio, il fatto che l’ascoltare alluda maggiormente alla percezione delle parole di un paziente in un contesto clinico e l’osservare a quella dei comportamenti di un oggetto scientifico in un contesto sperimentale.


L’ascolto degli utenti presuppone il possesso delle conoscenze e delle competenze necessarie per comprendere la sofferenza e i disturbi che presentano e per offrire una risposta dotata di senso e di efficacia. Tuttavia l’ascolto dell’altro e i saperi scientifici che fondano l’operare dei clinici intrattengono rapporti complessi, niente affatto lineari, né a priori pacifici, benché possano funzionare in modo sinergico. Dall’ottica dell’organizzazione dei Servizi di Salute Mentale questo è ancora più vero perché i diversi operatori, in ragione della rispettiva professione e della rispettiva formazione disciplinare e teorica, declinano diverse modalità di ascolto, diversi pensieri clinici e diverse forme di interazione fra le une e gli altri. Si pone il problema allora della coordinazione e della composizione di queste diverse possibilità di ascolto e di attuazione dei molti pensieri clinici. Detto forse in modo più trasparente, un conto è l’ascolto volto alla diagnosi psicopatologica di uno psichiatra, un altro è quello psicoanalitico dello stesso psichiatra o di uno psicologo che si fonda sull’attenzione liberamente fluttuante (Freud) o che addirittura invoca la necessità dell’assenza di memoria e desiderio (Bion). Il pensiero clinico è un’attività che si fonda su un sapere (clinico, appunto) che può pressare da vicino l’ascolto, guidarlo e costringerlo fino ad esempio alla mera verifica della presenza/assenza di un segno o di un sintomo clinico. Può al contrario defilarsi, farsi sfondo o addirittura eclissarsi per lasciare all’attività di ascolto l’intero campo somatopsichico dell’operatore. Da questo punto di vista l’ascolto diventa un’attività che coinvolge il clinico nella sua interezza: il suo corpo con tutti i suoi sensi (l’udito certo, ma anche gli altri sensi, fino alla propriocezione e all’enterocezione) ed il suo mondo interno (i pensieri di ogni forma e contenuto: concetti e idee – ovviamente anche di tipo teorico-clinico, ma evidentemente non solo –, fantasie, ricordi, immagini, ...).

Queste due modalità o forme dell’ascolto mettono in evidenza una questione epistemologica fondamentale che concerne il problema dell’osservazione e del rapporto di conoscenza in generale: quel rapporto cioè che pone in relazione un soggetto che conosce (che ascolta) e un altro che è conosciuto (ascoltato). Questa questione riguarda la collocazione della superficie interattiva fra clinico e paziente, riguarda il luogo in cui si produce l’incontro (e quindi l’ascolto e l’osservazione, e in ultima istanza la conoscenza). Questo luogo, questa superficie, diventa anche il confine che distingue l’uno e l’altro attore del rapporto clinico in quanto forma specifica del rapporto di conoscenza fra soggetto e oggetto. Nella prima forma di ascolto (che trova forse la sua forma più pura negli inventari sintomatologici: estroflessione standardizzata dell’ascolto fondato su un sapere psicopatologico) la superficie di interazione si approssima molto al paziente, l’ascolto avviene presso il paziente. In questo caso, il pensiero clinico spinge a focalizzare l’ascolto – l’elicitazione di informazioni, la loro ricezione – su elementi precisi che finiscono per vincolare l’espressione di sé del paziente secondo proprie e autonome logiche (per quanto a lui stesso oscure od opache). Nell’altra forma di ascolto, la superficie interattiva si approssima al clinico: l’ascolto e la conoscenza avvengono precisamente presso il clinico. Da questo secondo punto di vista, l’ascolto ha a che fare con la complessiva risposta somatopsichica del clinico a quanto proviene dal paziente. In qualche modo l’ascolto del paziente da parte del clinico procede ed avviene attraverso l’ascolto di sé. Il pensiero clinico in questo caso, in qualche modo si eclissa, si ritira, lascia spazio al paziente di esprimersi il più possibile senza vincoli se non quelli fissati dal setting e lascia spazio anche al clinico in quanto essere vivente complessivo capace di risuonare rispetto al paziente. La capacità di risonanza, o se si vuole la profondità di questa risonanza, dipende dall’interazione di almeno due fattori: le difese che si possono attivare nel clinico nell’ambito del rapporto di cura (e di conoscenza) e il pensiero clinico che si appunta su ciò che proviene dal paziente ma anche, e per certi versi soprattutto, su ciò che si produce nel clinico stesso durante l’ascolto.

Complessivamente sembra possibile trarre la seguente indicazione: nell’attività di ascolto il pensiero clinico si pone come strumento, ma si possono individuare diversi modi con cui questo strumento può essere impugnato e questo ha importanti effetti sul rapporto di conoscenza e su quanto al suo interno viene a prodursi.

Può essere utile per chiarire questi aspetti e per approfondirli ulteriormente richiamare l’esempio del bastone usato per esplorare un oggetto. Si tratta di un esempio proposto da Niels Bohr e successivamente ripreso e approfondito da Georges Devereux nel suo testo più squisitamente epistemologico (1). Questo testo ambizioso e complesso propone una epistemologia comune alle varie scienze del comportamento (dalla psicologia fino all’antropologia culturale) fondata sulla centralità del rapporto osservatore-osservato e sul postulato dell’inconscio. L’idea di fondo dell’autore è che la conoscenza scientifica sull’uomo, per quanto debba sempre fare i conti con una pluralità di fattori confondenti e deformanti di natura individuale, sociale, culturale e professionale, non possa che nascere dalla relazione fra individui, dall’incontro fra persone. Per questa ragione Carlo Severi (2) sottolinea come l’epistemologia di Georges Devereux sia, al fondo, una “etica dell’incontro”: scoprire qualcosa nelle scienze del comportamento è incontrare qualcuno, affrontando l’angoscia provocata in modo inevitabile dall’osservare e dall’essere osservati, dall’ascoltare e dall’essere ascoltati e in ultima analisi dal conoscere e dall’essere conosciuti (nota 1). Dal punto di vista del fondatore dell’etnopsichiatria generale, ciò che delimita il campo di indagine di una scienza e ne definisce la natura sono le specifiche difficoltà che essa incontra nel procedere della sua attività conoscitiva. Per le scienze del comportamento queste difficoltà si concentrano in modo caratteristico sulla reciprocità, potenziale o effettiva, tra osservatore e osservato. Sono la simmetria e la qualità transazionale di tale relazione che qualifica la loro natura. Costituisce invece una finzione ideologica la pretesa di poter renderla unidirezionale istituendo una distinzione netta soggetto/oggetto e abolendo la qualità coscienziale dell’oggetto indagato. Il risultato che si finisce per raggiungere in questo modo è solo una pseudo-assimilazione alle scienze “dure”. Le mediazioni strumentali che cercano di minimizzare la contro-osservazione e la contro-risposta del soggetto “studiato” producono solo pseudo-scienza, poiché solo immaginariamente si ottengono per questa via quei risultati finalmente obiettivi che si erano desiderati e sperati.

Le riflessioni di Devereux possono essere sintetizzate nel seguente modo. La relazione fra osservatore e osservato per le scienze dell’uomo è intrinsecamente simmetrica e transazionale ma, ai soli fini scientifici, si può stabilire una differenza di natura fra i due sulla base di una attribuzione differenziale di possibilità proposizionali: della possibilità di affermare in modo significativo “Questo io percepisco” (in quanto momento definitorio del fatto scientifico, per quanto in via temporanea e incerta) e successivamente “Questo che percepisco significa che” (in quanto momento elaborativo del fatto, nel senso della sua spiegazione o comprensione). Qualunque sia il livello n di proposizioni asseribili in modo significativo dall’osservato (ennesima proposizione su n-1 proposizioni a proposito di proposizioni precedenti), l’osservatore deve poter mantenere un vantaggio nel senso di un diritto convenzionale, concordato e limitato alla situazione di osservazione, di poter emettere la proposizione n+1. La proposizione n+1 è essenzialmente la decisione (“Questo io percepisco”) che determina il dato dell’osservazione a cui l’osservatore decide di assegnare un significato (“Questo significa che”).

L’osservazione o l’esplorazione da parte dell’osservatore e, immancabilmente, quelle dell’osservato sul primo creano e ricreano costantemente una demarcazione che stabilisce il campo dell’uno (osservatore) ed il campo dell’altro (osservato). Tale demarcazione non è fissa ma varia costantemente di collocazione, determinando di volta cosa sarà interno ed esterno sia per l’uno che per l’altro. Riprendendo l’esempio già richiamato di Bohr, Devereux sottolinea come nel cercare di esplorare un oggetto con un bastone, impugnandolo in modo fermo, l’osservatore otterrà informazioni cinestesiche sull’oggetto. Nel caso in cui lo impugni in modo “molle” otterrà informazioni tattili (le pressioni del bastone sul palmo della mano). Nel primo caso la linea di demarcazione fra osservatore e osservato sarà collocata all’estremità distale del bastone (e quindi questo farà parte del primo). Nel secondo caso invece la demarcazione cadrà fra la mano ed il bastone (quest’ultimo farà quindi parte dell’oggetto osservato). Un esperimento del tipo “bastone tenuto fermamente” tenderà a limitare (fino all’eliminazione) le possibilità di scelta cosciente dell’osservato. Al lato opposto, un esperimento del tipo “bastone tenuto mollemente” tenderà a massimizzare le possibilità di scelta e interazione cosciente e consapevole dell’osservato. Le estensioni dell’esempio del bastone ai casi di auto-esplorazione permettono euristicamente a Devereux di pensare la situazione di auto-osservazione che si produce in psicoanalisi ed il modo – in ultima istanza – in cui l’osservatore si ascolta ed utilizza i saperi clinici per comprendersi.

Le scelte teorico-metodologiche dell’osservatore determinano la collocazione della frontiera: più “vicino” all’osservato (interazioni del tipo “bastone tenuto in modo fermo”) oppure all’osservatore (interazioni del tipo “bastone tenuto in modo molle”). In ogni caso, l’osservatore può conoscere non ciò che accade nel soggetto osservato, ma solo ciò che accade presso di sé: sulla “punta” del bastone se impugna in modo saldo il suo strumento conoscitivo (poiché è lì in questo caso che avviene la demarcazione fra sé e il soggetto osservato) oppure sul palmo della mano se lo impugna in modo molle. In questo senso, Devereux arriva a depotenziare il valore del transfert come strumento conoscitivo in psicoanalisi, a tutto vantaggio del controtransfert che diventa l’unico mezzo conoscitivo veramente ineliminabile in una situazione interattiva (clinica o meno): “Affermo che è il controtransfert, piuttosto che il transfert, a costituire il dato cruciale di ogni scienza del comportamento, perché le informazioni fornite dal transfert possono in generale essere ottenute anche con altri mezzi, mentre questo non è il caso del controtransfert… semplicemente l’analisi del controtransfert è scientificamente più fertile, e fornisce un maggior numero di dati sulla natura dell’uomo” (1: 27; corsivo nel testo). Ancora di più: il transfert costituirebbe un qualcosa che avviene nel paziente e che può essere conosciuto – ovvero ipotizzato – solo a partire dalla comprensione di ciò che avviene presso di sé (controtransfert). Comprensione possibile attraverso l’auto-osservazione (l’ascolto di sé) nel corso dell’incontro con l’altro e successivamente. Da questo punto di vista, centrale nelle operazioni di conoscenza specifiche delle scienze del comportamento diventa il modo in cui l’osservatore si osserva e arriva così a conoscersi, anche in funzione di come applica a sé i suoi saperi clinici.

Nella prospettiva dell’epistemologia devereuxiana, le uniche informazioni a disposizione dell’analista sono costituite da ciò che avviene presso (o “dentro”, in termini quotidiani) di lui in conseguenza delle perturbazioni prodotte dall’interazione con l’altro. L’inconscio del paziente è attingibile solo in via derivata e rimane come ogni fenomeno empirico sempre al di là di ciò che può essere direttamente raggiunto. L’unica cosa con cui ha a che fare l’analista è alla fine il proprio inconscio. Postulando un’equivalenza tra la sua psiche e quella del paziente, nonché una circolarità comunicativa prodotta dall’interazione – per cui ciò che auto-osserva in sé deriva da ciò che avviene nel paziente – è in diritto presumere che ciò che avviene nel suo inconscio possa dirgli qualcosa di quanto avviene in quello del paziente. “Interpretandone le ripercussioni [delle perturbazioni] dentro di sé, l’analista pretende di interpretare anche l’inconscio del paziente…” (1: 494). D’altra parte, esiste un pericolo: “Ogni analista che crede di poter percepire direttamente l’inconscio del paziente, piuttosto che il proprio, si inganna da sé. Chi pratica l’analisi secondo quest’ipotesi erronea non può operare che delle pseudo-guarigioni. Praticando meccanicamente l’analisi trasforma il paziente in ciò che a volte viene chiamato una ‘rapa’, ma che potremmo a ragione chiamare uno ‘zombie’. Anche questo è un modo di liquidare la persona, e di realizzare con mezzi psicologici quel che l’elettrochoc e la lobotomia realizzano con mezzi fisici” (1: 495; corsivo nel testo). In casi simili, infatti, un concetto o un presupposto (una teoria dell’inconscio) viene usato per frapporre una distanza fra sé e l’altro e quindi finisce per costituire una difesa che limita, argina ed evita la perturbazione avvertita presso di sé. Più in generale, per Devereux, ogni procedura conoscitiva ed ogni sapere che pretende di avere una “presa totale” sull’altro, che presume di conoscerlo direttamente e in qualche modo “dominarlo”, mentre lo tiene a distanza, viene concepita come sottrattrice di “anima” (=zombificante). Gli interventi in cui si sostanziano simili procedure (modello del “bastone tenuto in modo fermo”) limitano, infatti, la libertà di colui a cui si rivolgono; lo obbligano all’adesione a una teoria, a un modello o a un principio e forse addirittura installa nell’altro – come potenza resa tirannica per via traumatica – la teoria, il modello o il principio applicato (cfr., 4). Si potrebbe aggiungere che il rischio ulteriore è che sia lo stesso terapeuta a trasformarsi in zombie (rischio contro cui i clinici combattono sempre). Tutto ciò ha a che fare con il problema del “maltrattamento teorico” verso i pazienti, su cui si è soffermata Sironi (5), ma può essere espresso anche in altri termini: Edipo, uccidendo Laio, compie il fato (=carattere) di un padre che si caratterizza per la sua hybris e per i continui agiti dei propri impulsi sessuali e aggressivi verso il figlio (cfr., 6). Alla fine, a rimanere sul “campo di battaglia” sono, come minimo, un cieco bandito dalla città e un morto.

Detto in altri termini, il modo con cui il terapeuta tratta il paziente può essere assai indicativo di come tratta sé stesso. Il non rispetto della specificità dell’altro indica prima di tutto il non rispetto della propria. Per questa ragione Devereux si avvicina molto ad una concezione teoricamente aspecifica del fattore terapeutico, quando afferma che: “Credo… che ciò che cura i nostri pazienti non è ciò che sappiamo, ma ciò che siamo, e che dobbiamo amare i nostri pazienti” (1: 65).

Quali insegnamenti possiamo trarre da queste riflessioni epistemologiche rispetto al problema dell’ascolto in salute mentale e alla relazione fra questo e il pensiero clinico? Essenzialmente un richiamo al fatto che l’incontro con l’altro costituisce sempre una perturbazione foriera di angoscia per l’operatore e pertanto capace di suscitare difese. Al limite anche il sapere clinico può costituirsi come difesa e condurre ad un ascolto che limita la possibilità dell’utente di dire in un modo significativo, e cioè carico di conseguenze pratiche, operative e conoscitive, “questo io percepisco”, contribuendo così alla costruzione del dato scientifico, e successivamente di dire “questo significa che”, contribuendo così alla produzione del sapere scientifico (cfr., 7).

Quali sono le condizioni, i fattori, che permettono al processo di cura nei Servizi di salute mentale di rispettare la caratteristica fondamentale delle scienze del comportamento, o dell’uomo che dir si voglia, e cioè l’avere a che fare con un oggetto di conoscenza che è in realtà un soggetto dotato di coscienza e di capacità di contro-osservazione?

Devereux fornisce una risposta epistemologica: individua una via che ha a che fare con il modo in cui il clinico o il ricercatore conoscono e producono conoscenza (scientifica). Mette in evidenza come occorra rispettare le qualità specifiche dell’umano per produrre conoscenza scientifica sull’uomo, senza scimmiottare le scienze dure. Il rispetto dell’oggetto specifico delle scienze del comportamento si sostanzia in una “etica dell’incontro” che richiede la maggiore consapevolezza possibile dei fattori distorsivi e deformanti che si insinuano nel processo di comprensione: di tutte le difese personali, sociali, culturali e professionali che proteggono l’osservatore dall’angoscia. Occorre considerare finanche il possibile uso difensivo del sapere clinico e delle metodologie cliniche.

Ma Devereux e la sua etnopsichiatria generale rimangono incardinati nel rapporto di conoscenza soggetto/oggetto. Al soggetto osservato è conferito la massima possibilità di espressione di sé non vincolata da una pressione eccessiva da parte dell’osservatore, che è tenuto a rispettare la sua umanità se vuole rimanere scientifico. In questo senso l’umanizzazione per via epistemologica del rapporto di conoscenza (e quindi in parte anche della produzione di conoscenza) può essere pensata – anche solo a posteriori – come sinergica con le spinte verso l’umanizzazione delle cure in salute mentale che focalizzavano la loro attenzione sulla disparità di potere fra operatori e utenti dei Servizi di salute mentale. La proposta epistemologica di Devereux offre un diritto di parola al soggetto osservato, tuttavia è comunque all’osservatore che viene lasciata l’ultima parola, seppure solo in via convenzionale ed esclusivamente rispetto alla produzione del sapere clinico.

Il processo di umanizzazione delle cure che ha portato in Italia alla Riforma dell’assistenza psichiatrica ha inoltre modificato i luoghi in cui si dà l’incontro fra clinici e pazienti ed ha moltiplicato gli attori che operano in questi luoghi compartecipando al processo complessivo di cura. Il processo terapeutico-riabilitativo nei Servizi di salute mentale è articolato in una molteplicità di rapporti di conoscenza e quindi in una pluralità di modi in cui si realizza l’ascolto e l’osservazione reciproci.

L’evoluzione dall’etnopsichiatria generale a quella clinica (da Georges Devereux a Tobie Nathan) ha mostrato la necessità di ampliare e rendere più complessa la prospettiva epistemologica descritta. Innanzitutto, nel momento in cui si è posto il problema di accogliere i migranti nei servizi di salute mentale delle metropoli dell’Occidente è emerso il problema della lingua dell’interazione (e quindi anche dell’ascolto). L’introduzione di interpreti ha modificato il rapporto duale di conoscenza introducendo un terzo con funzione di traduzione. A sua volta, l’introduzione dell’ascolto in lingua dell’altro ha portato alla comparsa pressante e concreta del mondo di provenienza dell’altro all’interno del setting clinico, oltre al palesarsi eventuale del mondo interno. È emerso come questo mondo di origine presentasse saperi e pensieri “clinici” (sistemi diagnostici, eziologie, strategie interattive, strumenti terapeutici, ecc.) che seppure assoggettati risultavano operativi e dotati di valore per i pazienti e interessanti per i clinici stessi (8). Per comprendere meglio questi saperi si è reso necessario inserire mediatori culturali (quelli che Nathan ha chiamato mediatori etnoclinici e cioè psicologi o psichiatri essi stessi migranti di prima, seconda o terza generazione che avevano studiato i sistemi terapeutici dei propri mondi di provenienza) capaci di rappresentare il valore e logiche di questi pensieri clinici cosiddetti tradizionali.

Da una parte diventa chiaro come il problema di chi ascolta e di cosa venga ascoltato è diventato molto più complesso rispetto alle riflessioni devereuxiane. Dall’altra emerge un contesto interattivo in cui i saperi clinici dei mondi di provenienza entrano in competizione con quelli scientifici rispetto alla capacità di dare senso alle parole del soggetto migrante e di rispondere alle sue sofferenze.

Lo scenario contemporaneo della cura, d’altra parte, è popolato da una pluralità di soggetti che criticano i saperi clinici e il rapporto di conoscenza su cui si fondano. In questo senso, l’etnopsichiatria clinica non è sola a svolgere una funzione critica. Una simile attitudine si può trovare anche in altre prospettive operative capaci di far emergere dallo sfondo uniforme dell’utenza ulteriori figure capaci di rappresentare un’alterità, oltre a quella del soggetto migrante. In seno alle società occidentale, gli utenti della psichiatria e della psicologia, o almeno una parte di essi, ha mostrato di non ritenere efficace tecnicamente, o anche solo soddisfacente socialmente, l’assetto tradizionale del rapporto di conoscenza e del rapporto duale di cura. Questi utenti – ad esempio nell’ambito del Movimento degli Uditori di Voci oppure degli Utenti Esperiti per Esperienza (9) – hanno rivendicato per sé un diritto di parola, contestando i pensieri clinici in quanto limitanti per le loro vite e deformanti per le loro esperienza personali. Hanno iniziato a rivendicare il diritto di proferire le parole “questo io percepisco” e poi “questo significa che”; e non solo all’interno del rapporto di cura ma ancora di più nello spazio pubblico. Hanno cioè rivendicato il diritto collettivo di fondare un sapere sulla loro esperienza e parallelamente una pratica volta alla recovery. Questa expertise per esperienza è stata poi riconosciuta anche nell’ambito di altre esperienze innovative come l’Open Dialogue, che si dispiega attraverso la costruzione di setting interattivi che prevedono una molteplicità di attori e figure accanto a quella del clinico e del paziente (10; 11; 12).

I processi di deistituzionalizzazione, i movimenti degli utenti, le associazioni di utenti intorno a specifiche configurazioni sindromiche, le tecniche innovative che permettono interventi gruppali a livello comunitario – l’Open dialogue, oppure alla psicoanalisi dei gruppi mutlifamiliari – hanno conferito un maggiore e più diffuso potere di parola alle persone con problemi di salute mentale. Questa presa di parola e di expertise da parte degli utenti all’interno dei processi di cura, porta a nuove modalità di ascolto e soprattutto a nuove modalità di produzione e riproduzione di sapere e pensiero clinico. Ormai non sono più così rari né taciuti i casi in cui gli utenti diventano veri e propri ricercatori (anche universitari) capaci di contribuire con scritti scientifici alla comprensione della sofferenza psichica e ai saperi della cura.


Note

1) Non a caso, uno dei contributi clinici più significativi di Devereux riguarda proprio l’analisi di una modalità difensiva con cui le persone possono cercare strenuamente di non essere conosciuti dagli altri (3).


Bibliografia

1) Devereux G. Dall’angoscia al metodo nelle scienze del comportamento. Roma: Istituto dell’Enciclopedia Italiana; 1984 [ed. orig. 1967].

2) Severi C. Presentazione. In Devereux G. Dall’angoscia al metodo nelle scienze del comportamento. Roma: Istituto dell’Enciclopedia Italiana; 1984: 5-20

3) Devereux G. La rinuncia all’identità: difesa contro l’annientamento. I fogli di Oriss. 2000; 13/14: 185-208 (prima parte). 2001; 15/16: 163-186 (seconda parte)

4) Ferenczi S. Diario Clinico. Gennaio-Ottobre 1932. Milano: Raffaello Cortina Editore; 1988

5) Sironi F. Maltraitance theorique et enjeux contemporains de la psychologie clinique. Pratiques psychologiques. 2003 ; 4 : 3-13

6) Devereux G. Why Oedipus killed Laius? A note on the Complementary Oedipus Complex in Greek Drama. International Journal of PsychoAnalysis. 1953; 34: 132-141

7) Cardamone G, Zorzetto S. Un nuovo territorio per la salute mentale. In Centro Studi Sagara. 180 Psichiatrie e oltre. Paderno Dugnano (MI): Edizioni Colibrì; 2019: 127-150

8) Nathan T. L’influence qui guérit. Paris: Odile Jacob ; 1995

9) Corstens D, Escher S, Romme M. Accepting and Working with Voices: The Maastricht Approach. In Moskowitz A, Schafer I, Dorahy MJ. (ed.). Psychosis, Trauma and Dissociation. Hoboken (NJ): John Wiley & Sons Ltd: 2008: 319-332

10) Bergström T, Seikkulaa J, Alakareb B, Mäkic P, Köngäs-Saviarob P, Taskilab JJ, Tolvanene A, Aaltonena J. The family-oriented open dialogue approach in the treatment of first-episode psychosis: Nineteen –year outcomes. Psychiatry Research. 2018; 270: 168-175

11) Seikkula J. Psychosis Is Not Illness but a Survival Strategy in Severe Stress: A Proposal for an Addition to a Phenomenological Point of View. Psychopathology; Published online: July 30, 2019, DOI: 10.1159/000500162

12) von Peter S, Aderhold V, Cubellis L, Bergström T, Stastny P, Seikkula J, Puras D. Open Dialogue as a Human Rights Aligned Approach. Frontiers in Psychiatry. 2019; 10: 387. Doi: 10.3389/fpsyt.2019.00387