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Nota di commento

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L'emergenza Covid-19 che stiamo affrontando sembra aver fatto emergere una nuova consapevolezza nella coscienza delle persone a vario titolo interessate alla sopravvivenza di un sistema pubblico di cura della salute mentale. Questa consapevolezza riguarda tre punti principali:

1. Le strutture istituzionali uccidono. Il modello di “intrattenimento” che si basa su grandi concentramenti di utenza in contesti dove l'assistenza è dispensata su larga scala, dove bisogni abitativi, sanitari e sociali vengono tutti mescolati e incapsulati in una generica identità di utente e rivestiti con la camicia di forza del ruolo istituzionale di malato, sono l'anticamera dello sterminio. È avvenuto con gli anziani in Lombardia e c'è stato il rischio che avvenisse in altre regioni del centro-nord. Per evitare lo sterminio su larga scala dei pazienti psichiatrici, la gran parte di questi luoghi a loro dedicati è stata ulteriormente chiusa, isolata, l'erogazione delle prestazioni ulteriormente segmentata e distanziata. I luoghi separati dalla comunità, dove si offre assistenza standardizzata e infantilizzante sono diventati più isolati e distanzianti. Ancora oggi nella maggior parte dei territori sono chiusi centri diurni, luoghi di intrattenimento solitamente aperti ai gruppi per attività definite di socializzazione; alla vita sociale degli utenti di residenze a appartamenti si applicano maggiori misure restrittive: laddove sono comuni e costanti la desocializzazione e l'infantilizzazione, in questo periodo in cui l'infantilizzazione e la desocializzazione sono il mantra generale con cui si è tentato di mettere una pezza alle insufficienze di un sistema sanitario territoriale distrutto da trent'anni di tagli e assenza di visione, esse vengono ancora più legittimate come modello di gestione.

2. Emerge la necessità di personalizzare la cura, di favorire soluzioni residenziali normali, destinate a piccoli gruppi di 3 o 4 persone, dove l'assistenza non è infantilizzazione e istituzionalizzazione

3. senza contatto, senza compresenza fisica, il lavoro è svilito: perde la sua caratteristica essenziale di lavoro sul “contesto” in cui il malessere emerge e in cui l'operatore è coinvolto con la sua presenza. Nei pochi luoghi in cui si è costruito un sistema che va oltre l'internamento istituzionale esso ha assunto la forma di una difficile resistenza contro gli ostacoli posti soprattutto dalla carenza di personale, dalla difficoltà a superare la standardizzazione amministrativa e culturale degli interventi, dalla scarsità di risorse organizzative a disposizione.

Alla luce di queste nuove consapevolezze, imposte all'attenzione generale dalla cruda realtà che stiamo attraversando, è necessario riorientare il sistema di cura della salute mentale in Italia verso:

1. la costruzione di interventi emancipativi. Prima di tutto, che abbiano la comunità come ambito di intervento, le sua dinamiche di esclusione e le sue linee di frattura, i suoi possibili nodi di sviluppo e di crescita come oggetto principale di lavoro, e solo pensati in tali contesti gli individui, malati e non malati. Che la psichiatria possa essere uno strumento di lettura dei bisogni e delle aspirazioni inespressi e non accolti all'interno delle comunità locali e nel rapporto tra esse e i flussi globali, e un dispositivo di trasformazione di questi bisogni in diritti esigibili e realizzabili tramite innovazioni e invenzioni pratiche e organizzative

2. la costruzione di una nuova epistemologia. Che alla separatezza oggettiva del sapere tecnico si sostituisca la co-costruzione dei saperi con le comunità, con chi ha attraversato le esperienze di disagio, con i segmenti di società bisognosi di sviluppare o già impegnati in forme di autoaiuto

3. la costruzione di una nuova epidemiologia che guardi non alla mera diffusione di condizioni patologiche come dato oggettivo ma alla interazione tra bisogni e servizi, alla capacità dei servizi offerti di mettere in forma l'espressione dei bisogni e alla relazione tra contesti sociali e disagi vissuti dalle popolazioni. Se non si mette mano a questa visione dell'epidemiologia rischiamo di avere, nei prossimi mesi, una immensa psichiatrizzazione di disagio sociale.

Andando in questa direzione, sarà necessario che tale epidemiologia dei servizi e dei bisogni sia prima di tutto un'analisi della società che crea disagio e un'analisi nostra, dei soggetti che vogliono leggerlo, interpretarlo e modificarlo.

In primo luogo è necessario affermare con chiarezza che una società dove sono forti le disuguaglianze socioeconomiche, dove le occasioni di mobilità sociale sono bloccate, dove la protezione collettiva dai rischi è sperequata è una società che produce disagio. Poche proposte pratiche sono già sistematizzabili: un sistema di welfare universalistico che garantisca un reddito universale può riattivare una dinamica salariale più giusta, liberare energie creative e innovative per lo sviluppo, garantire un primo livello di salute mentale per la popolazione attraverso la copertura dai rischi economici e sociali. Un maggiore equilibrio ambientale. Un sistema di tassazione equo, progressivo, redistributivo. Un forte investimento pubblico sulla formazione, sugli strumenti organizzativi, sulla dotazione di personale e strutture per favorire lo sviluppo di servizi e beni pubblici.

Tale epidemiologia deve essere anche di noi stessi: noi come associazioni, terzo settore, movimenti, chi e cosa siamo? Quali posizioni e quali strategie abbiamo? Quali sono le condizioni di lavoro in cui vengono erogati i nostri servizi più sperimentali? Quali dinamiche hanno impedito che modelli innovativi come quelli del budget di salute si estendessero e diventassero sistemiche? Quale cultura alternativa abbiamo saputo sviluppare rispetto a quella della maggior parte dei nostri servizi? Quali condizioni di subalternità, pratica e culturale, alle organizzazioni abbiamo accettato pur di costruire piccole nicchie di assistenza più umana? Questo programma passa prima di tutto da noi, dall'analizzare le nostre posizioni, la nostra composizione e la nostra forza.