Volume 20 - 3 Giugno 2020

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Post-Covid-19: quali politiche sanitarie per quali stili di vita? L’impossibile normalizzazione della società del rischio e la sfida dei diritti

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Sommario

Lo scopo dell’articolo è quello di analizzare documenti e piani proposti dalle grandi organizzazioni sovranazionali relative al tema della promozione della salute mentale, della prevenzione e degli stili di vita, identificando una serie di possibili vie d’uscita dalle apparenti aporie che esse pongono. Sin dalle sue origini, la psichiatria si è interrogata sul nesso tra stili di vita e malattie mentali, fino ad ipotizzarne addirittura un ruolo causale, in riferimento comunque al giudizio di normalità espresso dalla psichiatria, e di conseguenza a prevederne la modificazione attraverso idonei approcci alle “cure” (ad esempio il Trattamento Morale). Con la comparsa delle più ampie discipline legate alla salute mentale, il tema della prevenzione ha ripreso queste intuizioni e le ha ricomprese all’interno del campo più ampio di raccomandazioni che comunque si iscrivono in forme nuove della biopolitica. Le politiche di salute si sono di fatto articolate in raccomandazioni e programmi che hanno portato ad espandere contemporaneamente il tema della promozione della salute al campo psichiatrico, come proposta in positivo che si impernia su modelli educativi, pedagogici e psicologici. La salute come diritto viene quindi ricompresa all’interno del ventaglio più ampio dei diritti umani e collegato ai determinanti di salute e allo sviluppo umano (gli SDG). Le politiche promosse a livello internazionale, in particolare dall’OMS, ma non solo, mirano a identificare programmi efficaci e buone pratiche che possano essere adottati dai diversi paesi, a livello macro, meso e micro.
Qualunque sia la natura di questi interventi, medico-sanitari o psicologici e comportamentali, essi sono prescrittivi verso gli stili di vita e di consumo, e attraversano la sfera individuale che intendono indirizzare. La stessa valutazione della qualità della vita deve tenere conto dei contesti, e venire modulata e calata dentro capacità e funzionamenti.
L’antica visione delle funzioni pedagogiche attribuite alla psichiatria, e oggi all'area della salute mentale nel suo insieme, si vorrebbe applicata in anticipo, al ‘normale’. Attraverso le politiche sanitarie, anche i comportamenti individuali dovrebbero conformarsi agli standard e diventare oggetto di prescrizioni, da un lato auspicando un adattamento a stili di vita positivi e sani, che diventano comportamenti collettivi, e dall'altro evitando quelli dannosi per la salute. Gli stili di vita del “wellbeing”, che vengono in un certo senso “prescritti” sul piano comportamentale, non troppo diversamente dai trattamenti biologici, si scontrano tuttavia con la devianza, e con i modi alternativi di gestire la propria vita che derivano dal campo delle disabilità psicosociali. Essi vengono rivendicati nella loro singolarità e unicità dai soggetti stessi, anche attraverso i movimenti e le organizzazioni che li rappresentano, come leve emancipative.
L’enfasi sulla dimensione collettiva, comunitaria e sociale della salute mentale, pure all’interno delle buone pratiche individuate, si interseca quindi con il tema dell’irriducibilità dei comportamenti individuali e con una soggettività che sfida la norma e l’omologazione che queste politiche e programmi propongono. Ciò pone una tra le più irrisolvibili contraddizioni che oggi agitano il campo della salute mentale ed anche della stessa medicina. Tutto questo campo, che indubbiamente sottolinea la potenza della biopolitica, ha trovato un improvviso allineamento con la pandemia da coronavirus, che ha, almeno temporaneamente, annullato lo iato tra norme sociali, a finalità apparentemente sanitarie, e soggetti individuali. Essa sta completamente sovvertendo il campo della prevenzione e dei fattori sociali e individuali implicati nella salute, dalla compressione di diritti e libertà fino al rimodellamento dei comportamenti e degli stessi stili di vita, condizionati dai limiti imposti alla relazione umana e alla comunicazione interpersonale e sociale. Alcune ipotesi per il futuro sono qui avanzate.


Abstract

The purpose of the article is to analyze documents and plans proposed by large supranational organizations relating to the theme of mental health promotion, prevention and lifestyles, identifying a series of possible ways out of the apparent aporias they pose. Since its origins, psychiatry has questioned the link between lifestyles and mental illness, even with the assumption of a causal role, in any case in reference to the judgment of normality expressed by psychiatry, and consequently to foresee its modification through appropriate approaches to “Care” (for example, the Moral Treatment). With the emergence of the broader disciplines related to mental health, the theme of prevention has taken up these insights and has included them within the wider field of recommendations which, however, are enrolled in new forms of biopolitics. Health policies were in fact articulated in recommendations and programs that led to the simultaneous expansion of the theme of health promotion to the psychiatric field, as a positive proposal that hinges on educational, pedagogical and psychological models. Health as a right is therefore included within the wider range of human rights and connected to social determinants and human development (SDGs). The policies promoted internationally, in particular by the WHO, but not only, aim to identify effective programs and good practices that can be adopted by different countries, at macro, meso and micro level.
Whatever the nature of these interventions, medical-health or psychological and behavioral, they are prescriptive towards lifestyles and consumption, and they cross the individual sphere they intend to address. The assessment of the quality of life itself must take into account contexts, and be modulated and reduced within capabilities and functions.
The ancient vision of the pedagogical functions attributed to psychiatry, and today to the area of ​​mental health as a whole, would like to be applied in advance, to the 'normal'. Through health policies, individual behaviors should also comply with standards and become the subject of prescriptions, on the one hand hoping for adaptation to positive and healthy lifestyles, which become collective behavior patterns, and on the other avoiding those harmful to Health. The wellbeing lifestyles, which are in a certain sense "prescribed" on a behavioral level, not too differently from biological treatments, however clash with deviance, and with the alternative ways of managing one's life that derive from field of psychosocial disabilities. They are claimed in their singularity and uniqueness by the subjects themselves, also through the movements and organizations that represent them, as emancipatory levers.
The emphasis on the collective, community and social dimension of mental health, also within the identified good practices, therefore intersects with the theme of the irreducibility of individual behaviors and with a subjectivity that challenges the norm and the approval that these policies and programs propose. This poses one of the most unsolvable contradictions that today stir the field of mental health and also of medicine itself.
This whole field, which undoubtedly underlines the power of biopolitics, has found a sudden alignment with the coronavirus pandemic, which has, at least temporarily, canceled the hiatus between social norms, for apparently sanitary purposes, and individual subjects. It is completely subverting the field of prevention and the social and individual factors implicated in health, from the compression of rights and freedoms to the remodeling of behaviors and lifestyles themselves, conditioned by the limits imposed on human relationships and interpersonal and social communication. Some hypotheses for the future are put forward here.


1. Introduzione. Verso il trionfo della biopolitica?

Scriviamo nel pieno della condizione di una umanità ibernata che la pandemia da Covid-19 ha determinato. Ora che il “demone della paura” non è più fondato su insicurezza del presente e incertezza del futuro (1), ma sul pericolo reale rappresentato da una pandemia, le cui proporzioni è ancora difficile misurare, almeno metà dell’umanità sta vivendo qualcosa di assolutamente inedito.

Mitigata la fase del confinamento domiciliare (il cosiddetto lockdown), siamo entrati nell’era del distanziamento e delle barriere, fisiche e sociali, alla relazione. Non sappiamo a questo punto quanto tutto questo durerà, e soprattutto quanto ne resterà nelle relazioni sociali e nei modi di vita, e non solo in termini di limitazioni e precauzioni. È un trauma profondo, che sta scavando non solo nelle abitudini, ma soprattutto nelle coscienze e nella stessa percezione di noi stessi e degli altri.

Nella storia non si è mai assistito ad un esperimento sociale di tali proporzioni planetarie. Mai gli stili di vita individuali e collettivi, grazie al mondo globalizzato, si sono dovuti così rapidamente curvare, stringere e comprimere, nel giro di poche settimane, per obbligo sociale, per norme di legge e per opportunità condivise. L’omologazione al posto della individualizzazione dei comportamenti sociali.

Tutto ciò accade in uno statuto d’eccezione che prevede la sospensione di molte libertà e diritti fondamentali per ragioni di salute pubblica, espressamente sancita, in Italia e in molti paesi, da disposizioni di diritto amministrativo. Si comprimono oggettivamente, quasi naturalmente - ma non senza sforzo: anzi con una conversione e un ripiegamento drammatici – tutti i tre aspetti della libertà di cui ha scritto Axel Honneth. La libertà negativa si arresta molto presto, immediatamente dove si pone il limite costituito dalla fisicità dell’altro, dal nostro e dal suo spazio vitale. Nella libertà riflessiva è compresa la sfera di un agire rivolto a scopi che il soggetto si dà, che ora sono massimamente inibiti:

il deficit fondamentale è che la libertà si estende all’interno, ma non continua ad abbracciare anche la sfera dell’oggettività…. Sono libero nella misura in cui sono in grado di orientare il mio agire verso finalità poste autonomamente, oppure verso desideri autenticamente concepiti… con l’estensione della libertà verso l’interno viene assicurato che trovino spazio soltanto quei desideri che non ubbidiscono a nessuna autorità estranea, ma le opportunità che si realizzino non sono affatto prese in considerazione (2).

Infine nel terzo grado della libertà, quello sociale, che è una forma di libertà intersoggettiva, compare il concetto di istituzione come medium di “pratiche relazionali regolate da norme”.

Oggi una illibertà prescritta, subìta ed accettata per ragioni superiori, potremmo dire estremizzando “per la stessa sopravvivenza biologica della specie”, prima ancora che delle comunità e della socialità di cui essa è dotata, discretamente si impone. È attuata senza colpo ferire una straordinaria, emergenziale sospensione di molti diritti individuali, primo tra tutti la libertà di movimento e di circolazione delle persone, in nome dell’igiene pubblica, e ciò dentro la tutela del diritto fondamentale e primigenio alla vita, che in questo caso significa la sopravvivenza all’epidemia.

La prima cosa che l’ondata di panico che ha paralizzato il paese mostra con evidenza è che la nostra società non crede più in nulla se non nella nuda vita. È evidente che gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e politiche al pericolo di ammalarsi. La nuda vita – e la paura di perderla – non è qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca e separa (3).

È quindi, di contro, il momento più propizio, forse cruciale, per poter ripensare ai modelli di sviluppo umano e sociale; alle forme di contratto sociale, alle rappresentanze politiche, ai diritti e ai doveri, alla dimensione collettiva delle scelte; allo stesso concetto di individuo come è si è presentato finora al centro della scena, chiave dominante di lettura e di filtro di ogni scelta sociale e politica. Forse le analisi sconsolate dell’ultimo Bauman, che vedeva il capitale sociale svalutato dalla “politica della vita” contemporanea, a fronte di una valorizzazione dell’autoreferenzialità, dell’egoismo e di una tensione antisociale all’affermazione (4), possono essere disconfermate dagli sviluppi imprevisti del presente.

In relazione a questa catastrofe, risulta straordinariamente attuale la visione di De Martino che pone la responsabilità dell’esito sull’uomo stesso:

Per un verso il mondo, cioè, la società degli uomini attraversata da valori umani e operabile secondo questi valori, non deve finire, anche se – ed anzi proprio perché – i singoli individui fruiscono di una esistenza finita; per un altro verso il mondo può finire, e non tanto nel senso naturalistico di una catastrofe cosmica che può distruggere o rendere inabitabile il pianeta terra, ma proprio nel senso che l’umana civiltà può annientarsi, perdere il senso dei valori intersoggettivi della vita umana, e impiegare le stesse potenze del dominio tecnico della natura secondo una modalità che è priva di senso per eccellenza, cioè per annientare la stessa possibilità della cultura. Se dovessi individuare la nostra epoca nel suo carattere fondamentale, direi che essa vive come forse non mai è accaduto nella storia nella drammatica consapevolezza di questo deve e di questo può: nell’alternativa che il mondo deve continuare ma che può finire, che la vita deve avere un senso ma che può anche perderlo per tutti e per sempre, e che l’uomo, solo l’uomo, porta intera la responsabilità di questo deve e di questo può, non essendo garantito da nessun piano della storia universale operante indipendentemente dalle decisioni reali dell’uomo in società (5).

Su questo punto convergono altre analisi. La società del rischio, che Ulrich Beck aveva descritto dagli anni ’80 in poi, era già andata incontro a quella che egli stesso ha definito una “metamorfosi” del mondo, impensabile e irresistibile, con i suoi spazi d’azione cosmopolizzati, che esistono a prescindere dal loro essere percepiti dagli attori. In essa “cambiano l’orizzonte di riferimento e le coordinate dell’agire” (6). I rischi sono anche, forse principalmente dettati dalla trasformazione dell’ambiente e al suo interno, oggi possiamo aggiungere, da agenti patogeni che attaccano le collettività come diversi secoli fa. L’evidenza dei nuovi rischi è alla luce del sole e sotto gli occhi di tutti. Non occorrono mediazioni interpretative o filtri ideologici, o chiavi di lettura o di decifrazione. Insieme ad essi, sono cambiati, fino ad essere stravolti, i rapporti tra produzione e consumo.

Da un lato il primato dell’igiene sanitaria, delle sue norme, dei comportamenti prescritti come corretti e da osservare senza distinguo, sembra oscurare tutto il resto. Essa comprime la relazione umana in spazi domestici e comunque ristretti e asfittici; costringe la socialità in una morsa in cui perfino il dialogo uno ad uno, in una strada, è visto con sospetto. Sospinge le forme di comunicazione in un metaspazio che è quello della rete, delle connessioni, del virtuale.

Il rischio che l’epidemia pone ai corpi è connesso alla loro condizione di oggetti da essere preservati, in cui la salute è ridotta di nuovo ad assenza di malattia, e la sua dimensione di benessere sociale completamente sacrificata. Il welfare è sospeso, o si declina in forme inusitate, in cui le forme organizzative che animano il sociale si muovono in uno spazio ristretto, sono messe all’angolo dall’imperativo sanitario. In merito a ciò ha scritto David Le Breton (7):

Il confinamento nelle nostre case, il mantenimento delle relazioni con gli altri attraverso strumenti di comunicazione remota, trasforma le popolazioni in un innumerevole arcipelago di individui. Ognuno è davanti al proprio schermo anche se non lo vuole, trasformato in un normale hikikomori, come quei giovani giapponesi che vivono in isolamento volontario mentre continuano uno scambio senza fine con gli altri attraverso i social network.

Nel primo volume della sua Storia della sessualità, Foucault aveva affermato che “l’uomo moderno è un animale nella cui politica è in questione la sua vita di essere vivente” (8). Il termine di biopolitica parla del rapporto che il potere stabilisce con il corpo sociale, e in particolare con la vita e la morte della popolazione, nella modernità (9). Come ha ricordato Nikolas Rose, dal XVIII secolo in Europa, “il potere politico non era più esercitato esclusivamente tramite la drastica scelta di consentire la vita o di infliggere la morte. Le autorità politiche, in collaborazione con molti altri, si sono assunte il compito della gestione della vita in nome del benessere della popolazione come ordine vitale in ciascuno dei loro sottoposti viventi”, e collettive, in informazione e sapere, e di intervenire su di esse” (10). Ma la vita, come oggetto politico, si ribella ai controlli esercitati su di essa in nome del diritto individuale. Riferendosi ancora a Foucault, Rose definisce la nascente biopolitica “un campo frammentato di verità controverse, di autorità eterogenee e spesso in conflitto, di pratiche disparate di soggettivazione individuale e collettiva”. Oggi stiamo assistendo ad uno straordinario e indiscusso primato della biopolitica dettata dalla pandemia, dal coronavirus. Questo coinvolge la comunità, dal momento che la stessa radice latina (cum munis: tributo, legge) la accomuni all’immunità come statuto speciale e privilegiato (lett. dispensa dal tributo, dagli obblighi). Per Esposito, ogni biopolitica è “immunologica”, rende solo alcuni immuni, è fondata cioè sul sacrificio di alcuni a vantaggio di altri (11).

A maggior ragione si pone la domanda: stiamo davvero assistendo ad uno spostamento da un modello di medicina riparativa a quello di una medicina preventiva, o meglio di una salute come reale diritto dei cittadini? La vicenda della gestione della pandemia solleva moltissimi dubbi, specialmente quando ignora le condizioni della produzione e dello sviluppo umano e sociale. Che cosa si previene? Se si tratta dei danni di qualcosa che si è già determinato a monte, si può parlare paradossalmente di una “prevenzione riparatoria”? La documentata inesistenza dei piani per le pandemie, pur attese, sembra smentirlo.

In questo quadro fortemente perturbato, che sta estremizzando le tendenze preesistenti nella gestione sociale della salute, ci poniamo lo scopo di analizzare i documenti ed i piani proposti dalle grandi organizzazioni sovranazionali relative al tema della promozione della salute mentale, della prevenzione e degli stili di vita, attualizzandoli alla presente contingenza storica, cercando di intravedere possibili vie d’uscita dalle apparenti aporie che esse pongono.


2. Salute / benessere: definizioni e oscillazioni

Per quanto finora è apparso, da un lato i documenti internazionali, le politiche, il quadro normativo e dei diritti, e dall’altro le responsabilità individuali ed i sistemi collettivi, hanno reclamato una ridefinizione dei limiti e dei confini e dei saperi e delle pratiche di salute.

Molti tra i temi che negli ultimi vent’anni si sono imposti sono riferibili ad una visione che dovrebbe mettere al centro la promozione della salute. Ma fino a che punto le relative raccomandazioni e linee-guida hanno pervaso e sono penetrati nella cultura di massa, e sono diventati dei contenuti accolti nell’esistenza individuale? Fin dove sono diventati pratiche sociali, che state introiettate, fatte proprie? E soprattutto, la domanda centrale resta: fino a che punto possono cambiare la medicina, il suo gioco di domanda e di risposta?

È lecito chiedersi se ci si trovi dinanzi ad un cambio di direzione scientifica o di un vero e proprio paradigma, o ad una mera ideologia. Infatti, ci muoviamo in un quadro, non certo disconfermato ma anzi rafforzato dalla pandemia, che vede l’estensione della medicalizzazione in ambiti prima non toccati, quelli della salute assolutizzata, liberata dai suoi contesti e dalle sue determinazioni, promessa all’individuo attraverso provvedimenti o presidi medicali, o semplici consigli tradotti in evidenze scientifiche. Spesso resta labile, in questo ambito, la traiettoria delle connessioni o delle causalità.

La salute si è tradotta nell’accezione corrente in salutismo, idolatria del corpo sano, in movimento perenne, rispetto a cui non l’ozio, ma solo il riposo dal ritmo frenetico della produzione, è permesso. Bisogna peraltro promuovere un corretto stile anti-aging, che prevenga e minimizzi la vecchiaia, rendendola attiva, ed esorcizzi la morte, che oggi si è affacciata di nuovo, dopo l’era della guerra fredda, come rischio di massa perfino nei paesi ad alto reddito. Inevitabilmente, gli stili di vita sono stati finora tradotti in stili di consumo, a volte sorretti da ideologie specifiche, come il veganismo. Oggi, che tutto si ferma, ci si chiede che cosa resti di queste tendenze.

Se la questione degli stili di vita è entrata in maniera pervasiva in tutte le raccomandazioni di politica sanitaria, ma anche di stile di vita, è anche perché la società performativa spinge gli individui in una tensione costante verso mete sociali che sono diventati valori di riferimento dei singoli. Il proprio successo personale va quasi a sostituire l’aspettativa di una vita affettiva, oppure di obiettivi generali come la felicità all’interno dell’esistenza individuale. Già Ehrenberg (12) aveva descritto il precario equilibrio esistente tra la tensione degli individui alla realizzazione di sé, perseguita con ogni mezzo, anche con l’abuso cronico di farmaci antidepressivi per migliorare le proprie performances sociali e lavorative. Allora la performance che sottostà all’ideologia della salute come fatto individuale ha bisogno non solo di “natura”, ma anche di chimica, di prodotti di sintesi, che modificano le condizioni fisiologiche di partenza, prima ancora di attaccare quelle patologiche che possono essere subentrate (nota 1).

È noto che al concetto di salute, come si è storicamente determinato, è stato affiancato quello di benessere in senso lato, nella ben nota definizione di salute dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, la quale non si arresta all’assenza di malattia, ma si riferisce ad uno stato di “completo benessere” fisico, psichico e sociale.

Tuttavia alle spalle resta l’interrogazione su cosa sia in realtà ‘salute’ in riferimento a ‘malattia’ e a ‘normalità’. Avvertiva Franca Basaglia:

In questo contesto, salute e malattia non rappresentano stati naturali, definibili in base a caratteristiche soggettive e insieme oggettive precise: cioè non sono realtà concrete (positive o negative) autonome rispetto alla funzione e al significato che assumono. Esse risultano relative ad una norma, definita in termini di partecipazione alla vita produttiva, come se ci fosse un’equivalenza diretta, obiettiva soggettiva, fra essere normali e lavorare, produrre o essere in condizioni di consumare le merci prodotte (13).

Giova qui riferirsi alle straordinarie note di Gadamer che torna alla fenomenologia essenziale della salute:

Si arriva alla domanda a cui non si è risposto: cos’è la salute? Sappiamo approssimativamente in cosa consistono le malattie, in quanto sono per così dire caratterizzate dalla rivolta del “guasto”. Si manifestano come oggetto, come qualcosa che oppone resistenza e quindi va spezzato. È un fenomeno che si può osservare attentamente, giudicarne il valore clinico, e farlo con tutti i metodi messi a disposizione da un sapere oggettivante fondato sulla scienza moderna. La salute invece, si sottrae curiosamente a tutto ciò, non può essere esaminata, in quanto la sua essenza consiste proprio nel celarsi. A differenza della malattia, la salute non è mai causa di preoccupazioni, anzi, non si è quasi mai consapevoli di essere sani. Non è una condizione che invita o ammonisce a prendersi cura di se stessi, infatti implica la sorprendente possibilità di essere dimentichi di sé ... Ma allora che cos’è in realtà la salute, questa condizione misteriosa, che tutti conosciamo e che d’altra parte non conosciamo per niente, perché è così prodigioso essere sani? …La salute non è precisamente un essere, ma un esserci, un essere nel mondo, un essere insieme agli altri uomini ed essere occupati attivamente e gioiosamente dai compiti particolari della vita. È però nelle esperienze contrarie che viene alla luce ciò che è nascosto… In questo modo ci avviciniamo sempre di più a quello che è in realtà la salute: il ritmo della vita, un processo incessante in cui l’equilibrio si ristabilizza sempre (14).

Successivamente l’OMS (15) ha pragmaticamente riferito la salute ad uno stato di fitness and ability, o ad un serbatoio di risorse personali che possono essere richiamate al bisogno, ammettendone la relatività rispetto ai contesti e alle culture. Per i laymen, salute è essere privo di malattie, oppure dotati di autonomia e vitalità; per gli anziani, si parla di forza interna e della capacità di affrontare le sfide della vita; per i giovani è importante la fitness, l’energia, e la forza. Il concetto varia anche a seconda delle condizioni economiche, per cui chi vive in modo confortevole concepisce la salute in relazione alla gioia di vivere, mentre i meno abbienti con la gestione degli aspetti essenziali della quotidianità.

I tentativi di costruire teorie unitarie della salute (come in Seedhouse 1986; Tones & Tilford 2001)(15) mettono mano a fattori individuali e ambientali, per cui la promozione della salute si focalizza su entrambi i livelli. Già questo si pone al di là del modello di medicina tradizionale.

La salute globale è stata recentemente definita come un campo che "pone la priorità sul miglioramento della salute e sul raggiungimento dell'equità nella salute per tutte le persone in tutto il mondo" (16). La definizione di Global Mental Health, sostenuta dalla rivista Lancet dal 2007, e il fortunato slogan “non c’è salute senza salute mentale”, per la prima volta enunciato da Patel e Prince, hanno dato l’avvio allo sforzo di estendere questa azione al campo della salute mentale (17).

Tuttavia le cose si complicano ulteriormente quando si tratta di isolare il campo della salute mentale. Nel tentativo di definirlo, il recente documento della Lancet Commission sulla salute mentale globale e lo sviluppo sostenibile (16) ha impiegato ben 9 termini chiave come descrittori, che peraltro vengono qualificati come non esaustivi: dalla felicità, come esperienza emotiva del “sentirsi bene” e del piacere derivante da una vita dotata di senso, alla sofferenza sociale come percezione soggettiva dello stress, anche culturale; dalla disabilità psicosociale alla recovery e alla resilienza; dal benessere (wellbeing) alla qualità della vita per come viene percepita. Tra la salute mentale, che sarebbe “la capacità di pensiero, emozione e comportamento che consente a ogni individuo di realizzare il proprio potenziale in relazione al proprio stadio di sviluppo, di far fronte ai normali stress della vita, di studiare o lavorare in modo produttivo e fruttuoso e di contribuire alla propria comunità”, e il disturbo mentale “classificato” non può darsi un approccio binario. La diagnosi non riflette adeguatamente la natura dimensionale della salute mentale e l'esperienza delle persone colpite. Viene proposto un modello ibrido, a stadi, che riconosce l’esistenza di un continuum tra salute e malattia in campo psichiatrico.

Tuttavia viene correttamente sottolineato che, se i progressi nella salute mentale predicono il declino dei disturbi mentali a livello di popolazione nel tempo, questa associazione non è affatto lineare. Si possono avere sintomi di disturbo mentale e disabilità associate, ma si può anche avere un grado di salute mentale coerente con le proprie aspettative, essere soddisfatti della propria vita e raggiungere il proprio potenziale umano. Questo ha importanti implicazioni, di cui tratteremo più avanti.


3. Salute come diritto

Da un altro punto di vista, quello legale ed etico-normativo, si è contemporaneamente affermato negli ultimi anni l’approccio ai diritti umani. La salute è considerata oggetto di diritto inalienabile, anche se essa non compariva come tale nella Dichiarazione Universale sui Diritti dell’Uomo del 1948.

Per quanto riguarda il nostro paese, nella Costituzione della Repubblica Italiana, la salute è l’indispensabile presupposto per il godimento di tutti gli altri diritti costituzionali, e pertanto è vista come diritto fondamentale ed inviolabile della persona. Come recita l’art. 32, “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività”. Ciò si sostanzia nel diritto all'integrità fisica e psichica, sia attraverso i trattamenti sanitari, di prevenzione e di cura, sia come godimento di un ambiente di vita e di lavoro salubre.

La funzione di tutela della salute fu affermata dalla legge 833 di istituzione del SSN, dove è intesa come impresa collettiva, volta a soddisfare i bisogni della comunità, piuttosto che la domanda individuale di prestazioni (18). “Riconoscimento della salute come un diritto; universalità delle prestazioni per tutti i cittadini; integrazione dei servizi di prevenzione, cura e riabilitazione; gestione decentrata in rapporto con le autonomie locali; finanziamento attraverso il sistema fiscale” (Berlinguer, 1996, cit. in (18)) sono i principi e i criteri organizzativi del SSN. Gli interventi di riordino successivi, in particolare relativi a regionalizzazione e aziendalizzazione, hanno mutato alcuni aspetti in relazione a nuove sfide e problemi evidenziatisi nel percorso di realizzazione della legge 833.

Ciò nonostante, possiamo sottolineare l'universalismo e la visione di Public Health che la legislazione del nostro paese per la prima volta afferma. Come nel 1978 la strada fu aperta dalla legge 180 e dalla straordinaria stagione di lotta antimanicomiale, molti temi odierni della salute mentale di comunità, che da essa è nata, come quello della partecipazione, del diritto alla salute, dell'approccio ai determinanti sociali di salute, sono comuni ad una sanità che vuole fare prevenzione. Allora con straordinaria intuizione, venne associata, anzi subordinata, alla lotta alle istituzioni dell’esclusione come agenti di chiara nocività che condizionavano la stessa prevenzione, sovradeterminando non solo i destini dei soggetti, ma la stessa percezione sociale della malattia (19). Allargandosi dalla psichiatria alla medicina, questa azione ha portato allo sviluppo dei distretti sanitari che fanno salute nel territorio, soprattutto nel contrasto a patologie e disabilità croniche, riducendo il ricorso inutile e dannoso all'ospedale. Tutto questo è terreno che deve molto alla salute mentale che è nata allora, all’interno della lotta antiistituzionale.

Molti anni dopo, la Convenzione sui Diritti delle persone con Disabilità dell’ONU (sigla inglese CRPD), approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 13 dicembre 2006, sottoscritta e poi ratificata dall’Italia nel 2009, ha dichiarato (art. 25) il diritto al più alto standard di salute fisica e psichica: “Gli Stati Parti riconoscono che le persone con disabilità hanno il diritto di godere del migliore stato di salute possibile, senza discriminazioni fondate sulla disabilità.”

Come sostenuto nel documento del luglio 2017 dello Special Rapporteur sul diritto alla salute nella stessa Convenzione ONU, essa si connette a diritti sociali (“The right to health is an inclusive right to both health care and the underlying and social determinants of health”):

La salute pubblica ha dimensioni individuali e collettive, essenziali per garantire il diritto al godimento dei sottostanti determinanti sociali della salute. Data la profonda connessione tra la salute mentale e l'ambiente fisico, psicosociale, politico ed economico, il diritto a determinanti della salute è un presupposto per garantire il diritto alla salute mentale.

Qui si rappresenta con forza “the human rights imperative to address promotion and prevention in mental health” in questi termini:

ll riconoscimento da parte dell'OMS dell'importanza di sviluppare strategie basate sui diritti, che promuovono e proteggono la salute mentale di intere popolazioni, è accolto con favore. I fattori individuali e sociali, i valori culturali e le esperienze sociali della vita quotidiana in famiglie, scuole, luoghi di lavoro e comunità influenzano la salute mentale di ogni persona. Il fatto che i bambini trascorrono un notevole tempo di tempo nelle scuole e la maggior parte degli adulti sul posto di lavoro significa che l'azione basata sui diritti deve promuovere ambienti sani, sicuri e abilitanti, privi di violenza, discriminazione e altre forme di abuso. Allo stesso modo, la salute mentale di una persona incide sulla vita all'interno di questi ambiti ed è parte integrante nel modellare la salute delle comunità e delle popolazioni. Gli approcci basati sulla popolazione sulla promozione della salute mentale spingono i sistemi sanitari oltre le risposte individualizzate, verso l’azione su una serie di barriere strutturali e di disuguaglianze (determinanti sociali) che possono influire negativamente sulla salute mentale.

E mentre da un lato “esiste un impegno quasi universale per pagare ospedali, letti e farmaci anziché costruire una società in cui tutti possano prosperare”, dall’altro “purtroppo, la prevenzione e la promozione sono componenti dimenticate dell'azione in salute mentale. Congetture dannose come quella che solo la buona volontà e il sacrificio consentiranno alle popolazioni di raggiungere la salute mentale e il benessere sono servite da giustificazione per questa inazione” (20).

All’interno di questo movimento si è identificato il tema del potere, dell’empowerment e della partecipazione che è ad esso commessa, come strumento centrale della promozione della salute stessa (21). In questo senso la promozione della salute mentale e la prevenzione, il trattamento e il recupero da disturbi mentali non sono più ritenuti, come riconosce la Lancet Commission, una prerogativa di un singolo gruppo di esperti, che sono storicamente gli psichiatri. Al contrario, una varietà di persone è diventata attiva in questo settore, da altre professionalità operanti in salute mentale, a vari operatori non specializzati, come operatori sanitari che lavorano sul territorio, della comunità, insegnanti, agenti delle forze dell'ordine, e soprattutto persone con esperienza vissuta e familiari. In breve, la salute mentale è stata considerata, come dall’efficace slogan, un “affare di tutti” (“everybody’s business”).


4. Determinanti sociali, disuguaglianza e potere: il ruolo della comunità

La Dichiarazione di Alma Ata, approvata nel 1978 da OMS e UNICEF e sottoscritta da 134 paesi, si era basata su principi quali equità, giustizia sociale, partecipazione della comunità, e forme di intervento quali promozione della salute, azione intersettoriale e tecnologie appropriate. Alcuni anni dopo, nel 1986, in un modo che apparve molto innovativo allora, la Carta di Ottawa sulla Promozione della salute (22) sottolineò la possibilità di intervenire ai diversi livelli, dal locale al nazionale, per migliorare la salute, e rispetto ai fattori su cui gli individui non hanno controllo e che richiedono un’azione collettiva da parte della società ha identificato le principali strategie d’azione:

  1. costruire politiche pubbliche di salute
  2. creare ambienti di sostegno
  3. rafforzare l’azione nella comunità
  4. sviluppare abilità personali
  5. riorientare i servizi sanitari.

Nei documenti successivi dell’OMS viene ulteriormente precisato cosa si intenda per promozione della salute. (15) Essa, pur correlandosi e in parte sovrapponendosi alla prevenzione, che si focalizza sulle cause di malattia, ma è definita come azione e difesa (advocacy) indirizzata all’intero ventaglio dei c.d. ‘determinanti di salute’, portati all’attenzione mondiale 15 anni fa da Michael Marmot (23).

Gli studi del gruppo di Harvard negli anni ’90 (24) avevano peraltro già sottolineato che la salute mentale è determinata da fattori socioeconomici e ambientali, multipli e interagenti, di natura sociale, psicologica e biologica, il che viene concettualizzato in termini di rischio di malattia mentale. La vulnerabilità maggiore è risultata connessa allo svantaggio sociale, in particolare alla povertà e alla bassa istruzione. Le esperienze della vita quotidiana, in famiglia e a scuola, nelle strade, sul lavoro, sono state viste influenzare chiaramente la salute mentale (25).

I determinanti di salute sono definiti come i fattori che potenziano o minacciano lo status di salute di individui e comunità (nota 2). Sono collegati a scelte individuali, come il fumo, o a caratteristiche sociali, economiche e ambientali che sfuggono al controllo degli individui. I determinanti sociali attengono all’età, al sesso, allo status sociale, all’etnia, all’accesso all’istruzione, alla qualità dell’abitare, alla presenza di relazioni di sostegno, oltre che, a livello della comunità, alla partecipazione civica e sociale, alla disponibilità di lavoro, alla qualità dell’aria che respiriamo, e delle case che abitiamo. Essi agiscono su livelli distali, che si riferiscono alle condizioni strutturali a monte, e su livelli prossimali, che si riferiscono al modo in cui queste sono vissute da individui e famiglie.(16)

Essi valgono allo stesso modo per la salute generale come per la salute mentale, e più recentemente si sono condotte diverse review che hanno tentato di definirli specificamente in relazione a quest’ultima (26, 27).

Come espresso esemplarmente nel World Health Report (2001) (28) e confermato recentemente dalla Lancet Commission, la ricerca ha costantemente dimostrato una forte associazione tra svantaggio sociale e cattiva salute mentale (nota 3). Questi percorsi complessi e multidirezionali hanno portato a un circolo vizioso di svantaggio e disturbi mentali e suggeriscono un ruolo cruciale per i disturbi mentali nella trasmissione intergenerazionale della povertà.

La giustizia sociale, senza cui la libertà stessa non acquista corpo, rimane l’orizzonte cui guarda il tema delle disuguaglianze. La disuguaglianza ‘evitabilÈ è equiparabile secondo Marmot all’iniquità (29). Anni prima, il rapporto sui determinanti, prodotto dalla Commissione presieduta da Marmot stesso, aveva dichiarato che “l’ingiustizia sociale sta uccidendo su larga scala” (30). L’argomento quindi, pur declinandosi in ambito etico, è sostanziato dalle analisi economiche di Piketty (31) e altri.

Tutto ciò chiama in campo politiche per ridurre lo svantaggio sociale che si costituisce a causa delle diseguaglianze, e che vanno indirizzate a comportamenti relativi alla salute, a scelte rispetto all’istruzione, al lavoro e agli aspetti ricreativi e ludici della vita. Ne discende che le politiche di promozione di salute non sono solo necessarie nel settore sanitario, ma anche in quello economico, ambientale e sociale, affinché abbiano un impatto positivo sui determinanti di salute e migliorino l’equità nella salute stessa. Naturalmente si riconosce il necessario peso delle considerazioni politiche in tema di scelta, che riguardano sia il livello individuale che quello collettivo, e tengono in considerazione il ruolo di gruppi attivisti su particolari temi, come nel caso dell’alcol e del controllo sul tabacco, riguardato come un esempio di provato successo. (15)

Torna ovunque prepotentemente il tema dei fattori sociali. L’OMS ha riconosciuto da molti anni il nesso tra salute mentale e comportamento, nel senso di problemi di salute comportamentali come l’abuso di sostanze, la violenza, l’abuso su donne e bambini, o problemi di salute come malattie cardiache, depressione, e ansia. (15) Tutte queste problematiche sono peraltro più difficili da affrontare in condizioni di alta disoccupazione, basso reddito, limitata istruzione, condizioni lavorative stressanti, discriminazione di genere, stili di vita insalubri, e violazioni dei diritti umani.

Le disuguaglianze e inequità vanno quindi riconosciute e affrontate, e richiamano la dimensione pubblica, e politica, della promozione della salute.


5. Dalle raccomandazioni alle politiche

Negli ultimi decenni l’OMS ha cercato di indirizzare il campo delle politiche sanitarie, considerate anche nel loro aspetto intersettoriale, attraverso piani d’azione proposti ai governi.

La dichiarazione di Helsinki nel 2005 (32) per l’Europa è stata il primo documento internazionale che tenta di trasferire ai governi responsabilità definite (nota 4).

Nell’articolato Piano d’Azione, si è sostenuto l’ingresso di adeguate attenzioni al benessere psichico in tutte le situazioni della vita sociale e della comunità, stimolando la consapevolezza nel pubblico attraverso adeguate campagne di informazione. Si parla di “promozione della salute mentale come investimento a lungo termine”, che deve incidere sugli stili di vita inducendo comportamenti sani invece di quelli a rischio (come l’abuso di alcool). Le campagne di promozione devono avere un impatto sul mondo del lavoro (e sulla medicina del lavoro), introducendo modulazioni di orari, mobilità fisica, differenziazione delle routine, stili “salutari” di management.

Questa linea è stata ribadita anche nel successivo Piano d’Azione Globale sulla Salute Mentale (2013-2020), il primo che l’OMS ha costruito, dove si afferma che “la promozione della salute mentale e la prevenzione dei disturbi mentali compete a tutti i settori e a tutti i dipartimenti governativi. Infatti, una cattiva gestione della salute mentale è spesso il risultato di una serie di fattori determinanti sociali ed economici, incluso il livello di reddito, la situazione lavorativa, il livello di istruzione, il livello di vita materiale, la condizione fisica, la coesione familiare, la discriminazione, le violazioni dei diritti umani e l’esposizione ad eventi sfavorevoli, quali le violenze sessuali, l’abuso e l’abbandono di minori” (33).

L’impegno trasversale delle politiche deve essere massimo, onde elaborare e mettere in atto programmi di salute che salvaguardino e promuovano il benessere psicologico di tutti (nota 5).

L’imperativo è la “multisettorialità”, ovvero il collegamento tra i diversi settori sociali e istituzionali per rispondere ad esigenze e bisogni. L’Obiettivo 3, dal titolo “Implementare strategie per promuovere e prevenire la salute mentale” prevede una strategia multisettoriale come azione di promozione e prevenzione della salute mentale, che sappia guidare e coordinare interventi universali e interventi mirati per promuovere e prevenire i disturbi mentali, ridurre la stigmatizzazione, la discriminazione le violazioni dei diritti umani e che sia in grado di rispondere ai bisogni specifici dei vari gruppi vulnerabili in tutte le fasi della vita, e ben integrata con le strategie nazionali di promozione della sanità e della salute mentale.(33)

Si richiede dunque di mettere in atto delle misure di promozione e prevenzione nelle scuole, in particolare programmi di acquisizione di competenze pratiche, di lotta alla violenza e alle molestie, di sensibilizzazione alle virtù di uno stile di vita sano in contrapposizione ai pericoli derivanti dal consumo di sostanze, e di interventi precoci per i bambini e gli adolescenti che presentano problemi psicologici o comportamentali. La prevenzione del suicidio dovrebbe entrare all’interno dei rischi connessi agli orientamenti sessuali (“ampliare e mettere in atto strategie nazionali complesse di prevenzione dei suicidi prestando particolare attenzione ai gruppi più a rischio quali lesbiche, gay, bisessuali e trans gender”), oltre che rivolgersi ai giovani ed altri gruppi vulnerabili di tutte le età, a seconda del contesto locale. Ma soprattutto valutare e gestire i comportamenti autodistruttivi e suicidi nonché i disturbi mentali, neurologici o correlati al “consumo di sostanze che ne sono spesso la diretta conseguenza”.

Il Piano d’Azione si è intersecato poi con la questione degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (OSS, sigla in inglese SDG) individuati dalle Nazioni Unite nel 2015 (34). Molti degli SDG affrontano esplicitamente i determinanti sociali, come ad esempio quelli relativi al dominio demografico (parità di genere), economico (sconfiggere la povertà; sconfiggere la fame; lavoro dignitoso e crescita economica; imprese, innovazione e istruzione; ridurre le disuguaglianze), di vicinato (acqua pulita e servizi igienico-sanitari, energia pulita e accessibile, città e comunità sostenibili, consumo e produzione responsabile), ambientale (lotta contro il cambiamento climatico; pace, giustizia e istituzioni solide), sociale e culturale (istruzione di qualità). Alcuni specificamente attengono alla salute mentale (vedi tabella 1).

Tabella 1: Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite specifici per la salute mentaletabella 1

L'obiettivo della Lancet Commission, che nasce nel contesto del movimento della Global Mental Health, è stato proprio quello di riformulare la salute mentale globale nel paradigma dello sviluppo sostenibile, proponendo una sostanziale espansione dell'agenda globale sulla salute mentale. L’OMS aveva già in precedenza sottolineato(15) l’importanza di studiare i bisogni, le risorse, le priorità, la storia e la struttura delle comunità che bisogna coinvolgere e con cui occorre collaborare.

Nella versione europea del Piano d’Azione per la salute mentale (35), rispetto all’Obiettivo 1 (“tutti hanno le medesime opportunità di ottenere il benessere mentale a qualsiasi età, in particolare i soggetti più vulnerabili o a rischio”), tra le azioni proposte agli stati membri leggiamo:

Comunità sane in ambienti sani:
(a) incoraggiare l'adozione di un'alimentazione sana e di uno stile di vita attivo a qualsiasi età tramite lo sport e altre attività, mettendo a disposizione anche delle aree di gioco sicure per i bambini;
(b) favorire la creazione e la tutela di spazi salubri all'aria aperta e il contatto con la natura;
(e) prevedere dei programmi di educazione e trattamento che promuovano un cambiamento nello stile di vita delle persone con disagio mentale.

Da quanto fin qui presentato, emerge che lo sforzo degli organismi internazionali, legati alle Nazioni Unite, deve essere quello di trasferire le raccomandazioni, costruite su un approccio basato su evidenze, in politiche, ed è evidente la difficoltà che esse, benché condivise e sottoscritte, siano poi implementate, cioè attuate attraverso atti e provvedimenti concreti, e la relativa azione di governance. C’é inoltre un altro salto, che è perfino più rischioso e azzardato, cioè la traduzione di tutto ciò in interventi, generali ma anche specifici, che impattino poi sulle condizioni di salute collettive e individuali.

La promozione della salute mentale é stata al Centro di una più recente iniziativa europea (36), dove il concetto di azione trasversale ai ministeri (nota 6) addirittura ha portato ad ipotizzare l’esclusione del Ministero della Salute. Stressando l’idea che la salute mentale è un problema di tutti, e quindi di tutte le politiche, i paesi nordeuropei, in particolare scandinavi (segnatamente l’Islanda), hanno di fatto impostato azioni e programmi di promozione della salute che coinvolgono altre aree, dal welfare allo sport, dalla scuola al lavoro (c.d. Joint Actions). Qui si sottolinea l’inclusione delle comunità, dei movimenti sociali e della società civile (nota 7).


6. Capacità e stili di vita come valutazione di esito, o come diritto esigibile

È corretto, in questo ambito, porsi la questione se saranno oggettivabili, ovvero misurabili, gli effetti, positivi e anche quelli eventualmente negativi / jatrogeni, delle pratiche volte alla promozione della salute mentale come concetto ampio, e non all’assenza di malattia.

Possiamo qui assumere, come suggerisce la Lancet Commission, che il benessere è un costrutto positivo che incorpora due idee correlate, la soddisfazione soggettiva per la propria vita e uno stato d'animo positivo (la tradizione edonica), ma anche il funzionamento sociale e lo sviluppo umano (tradizione eudaimonica di Aristotele). Il movimento che promuove il benessere e la felicità come indicatore chiave dello sviluppo umano e nazionale afferma la rilevanza di entrambe le idee, sebbene con enfasi diverse. La Commissione sottolinea che alcune statistiche, come quelle che misurano il benessere nazionale, tentano di acquisire determinanti del benessere a livello di popolazione (come la salute mentale e fisica, la longevità), ma comprendono anche il senso di sicurezza economica e sociale, la produttività e le relazioni sociali. Un concetto correlato è la qualità (soggettiva) della vita, che mette a confronto le percezioni delle persone sulla loro vita in relazione ai loro obiettivi e aspettative, e anche il tema del benessere visto in una prospettiva interculturale. Avverte Gadamer (14):

Platone distingue due misure: la prima si ottiene quando si misura un oggetto accostandosi dall’esterno, l’altra invece è insita nella cosa stessa. La voci greche suonano così: métron, che significa misura, e métrion, che indica ciò che è misurato, oppure adeguato. Ma cosa vuol dire “adeguato”? Evidentemente designa la misura interiore di una totalità vivente…Il vero significato dell’adeguatezza, della giusta misura, risiede proprio nel fatto che non la si può definire. L’intero sistema del naturale processo di compensazione dell’organismo, e lo stesso ambito sociale dell’uomo, sono caratterizzati, almeno in parte, dall’adeguatezza… L’organismo e la vita non possono venire misurati. Il corpo, al contrario, nell’accezione più ampia della parola, non si sottrae affatto a ciò che può essere verificato e misurato mediante l’oggettivazione.

Pur tenendo conto di questi limiti, si tratta di una questione importante che non può essere elusa, e che è stata focalizzata quando si è iniziati e discutere degli esiti degli interventi nell’ambito dell’epidemiologia psichiatrica. Strumenti pensati per la valutazione del funzionamento e della performance sociale, come la Disability Assessment Schedule dell’ OMS, o il Life Skills Profile (nota 8), codificano anche degli stili di vita, mentre la DAS 2.0 (che è lo strumento per la Valutazione della Disabilità dell'OMS) si propone come metodo standardizzato di misura della salute e della disabilità nelle diverse culture.

Parallelamente, in questo stesso scenario, che è quello della salute pubblica di comunità, è sorta la questione della qualità della vita, nel tentativo di obiettivare quale sia l’impatto più largo di una determinata condizione di salute - e di salute mentale. Si tratta di un concetto altamente problematico: la stessa definizione di qualità della vita è legata a modelli culturalmente determinati, la cui variabilità è enorme in termini di valori, di abitudini, di modi di pensare e di visioni della vita e del suo significato. Tentando di ridurre queste variabili, proponendo una medietas rispetto a ciò che resta una percezione altamente soggettiva, il risultato è stato spesso, inevitabilmente, aderente a valori che sono, grosso modo, quelli della c.d. “normalità” in una società occidentale (nota 9). Si è definito un ampio concetto multidimensionale, che incorpora al suo interno numerose variabili fra loro collegate: la salute fisica dell’individuo, lo stato psicologico, il livello di autonomia, le relazioni sociali, le credenze personali ed il rapporto che si stabilisce con l’ambiente nel quale egli vive.

A fronte dei vari tentativi di obiettivare le tematiche della salute, si afferma qui da un lato la varianza del contesto come fattore di primaria importanza, ma dall’altro soprattutto il valore dell’individuo e la sua soggettività, secondo il principio della personalizzazione delle aspettative e dei bisogni, e degli interventi relativi per la salute. Ciò ritorna prepotentemente nella tematica della recovery, come vedremo. Ha notato Gadamer come nell’avanzata civiltà tecnologica occidentale dei nostri giorni sia necessario creare un’espressione come “qualità della vita”. Con ciò “si descrive quello che nel frattempo la vita ha dovuto sopportare”. (14)

Nell’ambito allargato dell’apprezzamento delle abilità e dei funzionamenti (secondo quella che è la definizione di Amartya Sen e di Martha Nussbaum), si è quindi imposto com’è noto la ICF – International Classification of Functioning, Disability and Health (2001) tra le classificazioni adottate delle Nazioni Unite. Essa non si disgiunge dal modello medico, per cui l’OMS ne raccomanda l’uso congiunto di ICD-10 (International Statistical Classification of Diseases and Related Health Problems), che serve a codificare le condizioni di salute in termini diagnostici, e di ICF per descrivere il funzionamento della persona. Tuttavia costituisce strumento adeguato a difesa dei diritti umani, nonché di indirizzo per le normative nazionali, in un’area di applicazione vastissima, che comprende tutto ciò che attiene alla salute, come la previdenza, il lavoro, l'istruzione, le assicurazioni, l'economia, la legislazione e l’ambiente.

Ciò perché l’ICF concettualizza il funzionamento come una “interazione dinamica tra le condizioni di salute della persona, i fattori ambientali e i fattori personali” (37). Offrendo un linguaggio comune per tutte le disabilità, con un linguaggio standardizzato e una base concettuale unica, che resta indipendente dall’aspetto eziologico, intende proporre una sintesi tra il modello medico e quello sociale in una visione multidimensionale “bio-psico-sociale”. Riconosce pertanto il ruolo dei fattori ambientali nella creazione della disabilità, e allo stesso modo il ruolo delle condizioni di salute.

Si è parlato a questo proposito dell’orizzonte di "vivere una vita ordinaria", evitando il riferimento alla normalità, “per non introdurre il concetto di norma, di standard di riferimento, di media a cui tendere. L'ordinarietà è un concetto relativo. Potremmo affermare che ognuno ha il suo "ordinario" in mente e che questa ordinarietà di ciascuno è il metro relativo che ragionevolmente potremmo usare tutte le volte che ci vuole avventurare in discorsi di "personalizzazione" degli interventi e delle risposte alle necessità. Se è vero che ognuno di noi deve essere messo in grado di vivere ordinariamente, allora è anche vero che ognuno di noi - per le differenze che ci sono tra ognuno di noi - ha bisogno di interventi e risposte differenti” (38).

L’individualizzazione della normalità, la rivendicazione di una propria norma del vivere, che è insita nello stile di vita di ciascuno, sono la premessa concettuale di questa estrema diversificazione dei fattori contestuali da considerare. In qualche modo qui lo stile di vita auspicato può diventare un diritto esigibile, in termini di supporti e servizi, anche modulato a seconda le condizioni di possibilità, le capacità e le preferenze individuali, ed i loro contesti concreti (nota 10).


7. Il tema degli stili di vita: dalla patologia alla prevenzione e alla promozione della salute

Al di là delle dichiarazioni, entrando nel concreto, come si gioca in tutto questo una variabile fondamentale, che è la declinazione individuale, la soggettività? Gli stili di vita e, aggiungiamo, di consumo, sembrano alludere solo ad una salute “assolutizzata” che viene propagandata, in quanto norma prescrivibile, e di fatto prescritta (39).

All’interno della questione della salute mentale e soprattutto della “mental ill health”, ci chiediamo come gli stili di vita della normalità, della maggioranza, si possano rapportare alla una sofferenza non minoritaria, che sempre esiste nell’esperienza umana; ed in particolare alla sofferenza psicopatologica, che deborda dal campo della norma. Inoltre, come essi possano non solo non escluderla ma iscriversi in essa, e perfino costituirsi a fattori di guarigione, di ripresa (recovery) che si giocano nella dialettica tra salute e malattia che è inerente all’essere vivente prima ancora che al soggetto umano, proprio all’interno della relazione non lineare tra i due campi di cui si è già detto.

La rilevanza degli stili di vita viene riconosciuta già nella psichiatria pre-storica. Come ha mostrato Doerner (40), le passioni, gli umori e il loro legame con l’insania sono contestuali al nascere della società borghese quando l’individuo “si costruisce” da sé e determina il suo destino come soggetto produttore e padrone in qualche modo della sua vita. L’isteria di Sydenham viene messa in relazione dallo psichiatra tedesco all’ “identità del borghese”, specie nella sfera delle passioni. Quando gli istinti morali perdono il controllo dell’ordine inferiore degli istinti (cioè conservazione di sé, amore di sé), sorge una sorta di “conflitto interiore che divide l’uomo opponendolo a se stesso”. La condotta privata può diventare, nella sua totalità, un peccato di natura, ossia una trasgressione alla norma borghese della naturalità, e insieme diviene, come natura corporea, come disposizione alla reazione abnorme, istanza di comminatoria morale. Gli ambiti sono i più svariati: “la vita sedentaria dei cittadini, la lettura di romanzi, l’andare a teatro, gli abusi dietetici, la sete di sapere, la passione sessuale e quella abitudine che, per il suo carattere criminoso veniva espressa soltanto con circonvoluzioni: l’onanismo”. Poiché “l’azione delle passioni, che provoca la malattia ed è insieme salutare, diviene il tema dominante del moral management”,(40) Tuke nel Retreat di York introduce lo scopo di portare i folli alla salutare abitudine all’autocontrollo. La moral insanity era d’altronde divenuta la base naturale della medical insanity già in Arnold.

La tematica della malattia mentale, la sua progressiva definizione, ha trasformato un approccio che conteneva elementi “etici” (culminati appunto dapprima nel “moral treatment” di Tuke e poi in Pinel) in una psichiatria prescientifica, che tale è rimasta fino ad ora nonostante le premesse. Ricordiamo qui che il concetto di “stile di vita” compare in era moderna nel lavoro di Alfred Adler in ambito psicologico, ed è legato al modo di interpretare se stessi all'interno della realtà nella quale si è inseriti, che è appunto quella della propria vita. Come tale è definibile singolarmente, ma resta ovviamente in rapporto ai fattori sociali, cui l’individuo deve tentare di far fronte. Partendo dunque dalla sfera individuale, aderente alla personalità, esso si traduce in quella relazionale e sociale, ed è qualificato di solito da un giudizio di valore, legato alla sua influenza sulle condizioni di salute.

Lo stile di vita va allora consigliato, diventa generalizzabile, se individuato come “corretto” per la salute, ad esempio nell’ambito dei consumi individuali. Ma nel riferirsi alla norma salutare, resta legato alla scelta, e ne viene ammessa la trasgressione più o meno consapevole, nella misura in cui essa viene determinata da vulnerabilità, predisposizioni, condizionamenti sociali, infine da vere e proprie malattie con base biologica, come nel modello medico della tossicodipendenza.

La definizione degli stili di vita appare comunque estremamente vaga, mai esplicitata, legata a comportamenti individuali, ma che sono riconosciuti in quanto diventano collettivi; dunque di natura sociale. Essi hanno a che fare col benessere ma anche col malessere; e sono visti sia in senso positivo, come fattori protettivi della salute, che negativo, come fattori di rischio. Si caratterizzano per la loro ripetitività e ridondanza, ma possono anche estremamente mutevoli e influenzabili finché non divengono pattern stabili di comportamento.

L’ormai “antica” disciplina dell’Igiene Mentale era comparsa a livello internazionale nel tentativo di sfuggire alla psichiatria ed alla psicopatologia senza speranza che si inscenava nei manicomi, attraverso un movimento d’opinione che lottava per migliorare le condizioni della persone in quelle istituzioni. La ricerca sulle cause delle malattie mentali, le campagne di sensibilizzazione della sfera pubblica, istituzionale e politica, la prevenzione e l’identificazione dei soggetti a rischio ne sono stati da subito, ovvero dagli inizi del ‘900, gli obiettivi. Sono quindi nati programmi volti a sviluppare strategie di coping, cioè di adattamento, per lo sviluppo di competenze, come quelli di educazione per la salute mentale rivolti in ambito scolastico a studenti e genitori (ad esempio riguardanti l’uso di sostanze), o di fronteggiamento specialmente di situazioni stressanti, come la vedovanza o malattie fisiche.

All’interno delle concettualizzazioni sull’Igiene Mentale, tra i primi a teorizzare un rapporto tra stile di vita e malattia mentale, fu lo psichiatra svizzero-americano Adolf Meyer, la cui opera è alla base del DSM I e II (41). Nello studio della schizofrenia, egli ipotizzò la questione dello stile di vita come fondante, anche in senso patogenetico. La stessa “demenza precoce” sarebbe un complesso di “habit patterns”, in sostanza esagerazioni di comportamenti normali, comparsi in relazione a continui stress ambientali. I disturbi delle abitudini, ovvero schemi difettosi di reazione e di relazione, si accumulerebbero mentre l’individuo diventa sempre meno capace di affrontare i problemi di vita e va incontro a ripetuti insuccessi. Segnali del tutto aspecifici, come il sognare ad occhi aperti, la ruminazione, la diminuzione degli interessi, la passività, diventano ad un certo punto incontrollabili e dannosi, istituendosi come meccanismi anormali e portando a reazioni “sostitutive” di un adattamento efficace alle difficoltà reali. Evolvono quindi in forme, immagini, rappresentazioni e poi in sintomi veri e propri, come deliri, allucinazioni, blocchi psichici. Nella sua visione che riteneva sia dinamica che psico-biologica, Meyer pensava addirittura ad una relazione causale tra la loro pervasività di essi e l’ammalarsi, che però non spiegava né la presenza di anomalie preesistenti, e la diversità dei destini, dato anche che tali abitudini si ritrovano nelle nevrosi e nel normale. Gli stili di vita si traducono qui direttamente in segni della malattia, o ne sono causa, cioè sono essi stessi a far ammalare.

Una tale visione gradualista ha negato, in sostanza, il salto qualitativo tra abitudini e sintomi della schizofrenia, considerati in un continuum quantitativo. Anche se contraddittoriamente il passaggio al sintomo, che come tale è un dato tipico e ripetitivo, simile in ogni malato, segnala una semplificazione, che arriva a ridurre l’enorme variabilità individuale, difficile da catalogare, che caratterizza le abitudini difettose come idiosincratiche, connesse al soggetto individuale.

Al di fuori dei modelli lineari causa-effetto come questi, sorti agli albori della psichiatria sociale, il crescente riconoscimento della multifattorialità nell’ambito della salute mentale ha portato a considerare come fattori personali, ambientali e sociali come determinanti di salute vadano ad impattare su condizioni di vulnerabilità di base. Gli stessi fattori associati con i disturbi mentali risultano determinanti nelle varie forme di devianza, dalla tossicodipendenza alla criminalità all’abbandono scolastico, e dunque non sono affatto specifici; ed inoltre agiscono in modo sinergico e convergente, “a cluster”. Inoltre, allo stesso modo di come la salute mentale si rapporta ai disturbi comportamentali, si definisce il nesso circolare tra salute fisica e mentale, in senso olistico.

Nonostante i lodevoli tentativi, non sono ancora disponibili strategie efficaci perché la multifattorialità resta vaga, ipotetica, non basata su prove scientifiche ed evidenze certe. Un approccio “convergente” potrebbe forse consentire lo sviluppo di una teoria multifattoriale stabile e verificabile e di quadri sensibili e specifici al contesto per guidare gli interventi. (16)

In ragione di ciò, è da tempo che si è iniziato a parlare di un intervento sulla normalità “a monte” invece che sulla patologia. esiste oggi uno sforzo di cogliere attraverso gli stili di vita i prodromi o gli “stati mentali a rischio”. Di ciò tratta la c.d. “prevenzione selettiva” sulle popolazioni target, o “indicata” su coloro che presentano sintomi prodromici o sottosoglia, che potrebbero evolvere in uno stato di malattia conclamata, in una condizione patologica franca.

Gli stili di vita compaiono quindi nell’ambito della prevenzione – primaria, secondaria e terziaria, che si rivolge all’oggetto-malattia (42). Se si insegna come affrontare il disagio o gli ostacoli rappresentati da stati transizionali tra età della vita o eventi rilevanti della propria esistenza, siamo già in un campo in cui la medicina psichiatrica “prescrive” comportamenti auspicati ritenendoli fautori di evitamento di malattia, in una logica che dovrebbe essere di promozione di salute, ed invece trattasi di declinazioni al negativo. Fare a meno di qualcosa o di condotte specifiche per evitare il danno patologico, questa sembra la ratio di questo ambito disciplinare che si pone apparentemente su nuove basi. Può quindi esistere un immaginario simbolico della promozione di salute mentale che si definisca in modo indipendente dalla psichiatria, che non sia l’evitare una salute mentale malata, una “mental ill health”?

Quanto fin qui esposto ci pare faccia comprendere che si confrontano sul piano epistemologico, come anni fa aveva affermato Sergio Piro (43), da un lato “concezioni estremamente restrittive, medicali, normative, quasi igienistiche della prevenzione primaria in campo di salute mentale”, e dall’altro “concezioni molto larghe in cui la prevenzione primaria coincide con lo stato ottimale di una società (secondo le varie concezioni sociali, antropologiche e politiche) o, addirittura, con l’evoluzione della specie”.


8. Gli interventi e le best practices: prescrivere uno stile di vita

Nonostante i sostanziali progressi della ricerca che mostrano cosa si può fare per prevenire e curare i disturbi mentali e per promuovere la salute mentale, la traduzione in effetti del mondo reale è stata dolorosamente lenta. (16)

L’OMS ha voluto enumerare già anni fa gli interventi, ipotizzati come efficaci, di promozione della salute mentale, dal livello macro- (migliorare la nutrizione, l’abitare, l’istruzione; rafforzare le reti comunitarie; ridurre l’abuso di sostanze; intervenire nei disastri; prevenire la violenza), fino al livello meso- e micro- (primi anni di vita; istruzione prescolastica; riduzione della violenza e miglioramento del benessere emotivo a scuola, nonché approccio tra pari e skill-building tra i ragazzi; l’atmosfera scolastica; nell’adulto, la riduzione della disoccupazione è auspicata – sic – ma anche dello stress sul lavoro; nell’anziano, la riduzione della solitudine e altro). (15)

Esemplarmente, la promozione della salute in senso generale – Health Promotion - si è imposta come tentativo di offrire le migliori opportunità di crescita psicologica sin dall’infanzia. Tra i paesi nordici, il caso della Finlandia, con la sua enfasi sulla “vita secondo natura”, rappresenta il punto estremo del discorso sugli stili di vita sani (healthy lifestyles) a partire dall’infanzia. Ma in molti paesi ormai, inclusa l’Italia, i c.d. life skills vengono ora insegnati ai giovani, in ambito di interventi educativi, e di salute comunitaria, rivolti in particolare all’adolescenza (44).

A volte viene usata e compare la parola coping, al posto della semplice enunciazione dello stile di vita, in quanto essa sembra essere più focalizzata, più efficace se si circoscrive il problema, come si suol dire risulta task-oriented. Il coping è legato alla gestione di una situazione critica, ma rappresenta una parte del bagaglio di difese che la persona ha, che si è costruita sulla base delle esperienze e sulla modulazione delle proprie tendenze comportamentali, sul controllo degli impulsi ad esempio in tema di dipendenze patologiche e non solo. Si torna allora alla relazione con la malattia, che rientra prepotentemente nel quadro. Se non di malattia mentale, si tratterà di malattie fisiche, organiche.

In molte condizioni compaiono serie di prescrizioni che indubbiamente soffrono di una certa genericità, riferendosi a un insieme di norme e abitudini, condotte e precauzioni salutari ma aspecifiche, “buone un po’ per tutto”. Sono di questo tipo gli “accorgimenti” citati nel campo della prevenzione dell’Alzheimer, ma anche del suicidio (45). Tra i fattori di rischio individuali del suicidio è compreso l’uso dannoso di alcol e di sostanze, che sarebbe riscontrato nel 25-50% di tutti i suicidi, mentre i lifestyles sono evidenziati come fattori protettivi le relazioni interpersonali sane e il contatto sociale in genere, i valori religiosi e culturali, e gli stili di vita adattivi, le strategie di coping positivo e il benessere soggettivo. I comportamenti di richiesta di aiuto in caso di stress o disturbo conclamato (c.d. help-seeking behavior), e l’aderenza alle cure, anche farmacologiche, sono visti come componenti di uno stile di vita appropriato.

Il maggiore sforzo compiuto fino ad oggi di coniugare proprio le cure farmacologiche e gli stili di vita è legato da un lato al miglioramento della sicurezza dei trattamenti psicofarmacologici, ma anche dall’altro incidere sullo stile di vita condizionato dalla passività, dall’inerzia e dalla sedentarietà, oltre che dal fumo, dal cibo e dall’uso di sostanze. Partendo dal dato allarmante di letteratura che la speranza di vita delle persone affette da disturbi psichiatrici severi è di molti anni inferiore alla media, la dichiarazione “Healthy and Active Lives” (HeAL) ha creato una campagna per la tutela della salute generale dei giovani all’esordio psicotico, richiamando l’attenzione sui trattamenti, ma anche sui controlli medici rispetto agli effetti collaterali dismetabolici, e sui comportamenti dei curanti oltre che dei curati. Il senso del progetto è coinvolgere, in un atteggiamento responsabile, tutti i soggetti, inclusi i carers (46).

Più di recente l’OMS ha editato una serie di raccomandazioni sulle condizioni di comorbidità, basate sulla mortalità evitabile (47). Le persone con gravi disturbi mentali hanno infatti di 10-20 anni in meno come aspettativa di vita inferiore rispetto alla popolazione generale, e la maggior parte di questi decessi prematuri sono dovuti a condizioni di salute fisica. L’accesso a servizi sanitari completi che offrano promozione della salute, screening e cure per le condizioni di salute fisica e mentale rimane di fatto precluso alla maggior parte delle persone con gravi disturbi mentali. Per coloro che sono in grado di accedere all'assistenza sanitaria, l'assistenza ricevuta è spesso di scarsa qualità e superficiale.

Le raccomandazioni riguardano allora cambiamenti dello stile di vita (ad esempio una dieta più sana, una maggiore attività fisica e la cessazione del fumo), e il supporto psicosociale, oltre che opportune cure mediche per il trattamento di persone con gravi disturbi di salute mentale che hanno al contempo malattie cardiovascolari, diabete, HIV / AIDS, tubercolosi ed epatite B e C, e quelle con dipendenza da tabacco, che mostrano un uso dannoso di alcol o altre sostanze o che sono in sovrappeso (nota 11).

Ci sono comunque voluti alcuni anni per consolidare sufficienti evidenze a supporto dei programmi di prevenzione e promozione della salute. Oggi si raccomanda la valutazione e la disseminazione dei programmi e degli interventi che hanno raggiunto lo status di good / best practices (48). -A livello di popolazione, le leggi e i regolamenti per controllare la domanda di alcolici e limitare l'accesso ai mezzi letali di suicidio sono stati considerati best practices. Le leggi sulla protezione dell'infanzia, il miglioramento del controllo della neurocisticercosi e le campagne di sensibilizzazione di massa sono state identificate come good practices.

-A livello di comunità, i programmi di apprendimento socio-emotivo nelle scuole e i programmi di genitorialità durante l'infanzia sono stati identificati come good practices. Sono state identificate tutte come "buone pratiche": integrazione delle strategie di promozione della salute mentale nelle politiche di salute e sicurezza sul lavoro; informazioni sulla salute mentale e programmi di sensibilizzazione nonché individuazione di disturbi neuropsichiatrici nelle scuole; programmi per l'arricchimento precoce / istruzione prescolare e programmi per genitori per bambini di età 2-14 anni; equità di genere e / o programmi di empowerment economico per i gruppi vulnerabili; formazione dei gatekeeper per identificare le persone con disturbi neuropsichiatrici nella comunità; e formazione di membri della comunità a livello di vicinato per assistere con il supporto e la riabilitazione basati sulla comunità delle persone con disturbi mentali.

Altre pratiche di salute si appellano a comportamenti sociali di gruppo, come la prevenzione delle malattie sessualmente trasmesse o gli interventi psicosociali di diversa natura proposti nell’ambito scolastico per prevenire il bullismo e la violenza. Ma qui restiamo nel vasto campo dell’efficacia solo probabile e (forse) del socialmente utile.


9. L’individuo, il consumatore di salute

In ogni caso, quale che sia la natura di questi interventi, medico-sanitaria o psicologica e comportamentale, essi risultano prescrittivi nei confronti degli stili di vita e di consumo, e pervadono la sfera individuale, modellando le esistenze concrete dei soggetti.

Rinasce qui la visione delle competenze pedagogiche attribuibili all’area della salute mentale nel suo insieme, la vecchia idea della rieducazione che era contenuta nel moral treatment. Solo che essa si applica in anticipo, ai ‘normali’. Le strategie di soggettivazione (vedi ad esempio quanto scrive Alain Touraine) (49) sovvertono questa impostazione normativa o regolatoria del vivere individuale per enfatizzare la dimensione dell’individuo.

Attraverso le politiche sanitarie, anche gli stili di vita individuali dovrebbero omologarsi a delle norme, e diventano oggetto di prescrizioni, da un lato auspicando l’adattamento a stili di vita positivi, salutari, che diventano modelli collettivi di comportamento, e dall’altro evitando invece quelli dannosi per la salute. Il life style è così diventato come un farmaco, come nella campagna dell’OMS per la depressione, il “black dog” (50). Si prescrive uno stile di vita; o meglio si modella uno stile di vita come nuova identità. Ci domandiamo se sia questo un passaggio transculturale, o quanto esso debba invece essere appropriato culturalmente. Certo solo ciò che è globalizzato, trasmissibile attraverso internet e social media, diventa realmente norma del vivere sociale, in quanto comportamento da imitare e da diffondere, da assumere e indossare.

Lo stile di vita resta ancorato più che all'esperienza, alla comunicazione, cui nell'era della massima raggiungibilità é impossibile svanire o sottrarsi, nascondersi e rifiatare. L'identità stessa sembra legata a forme di Social media, in cui esistere vuol dire connettersi o meglio restar connesso, a volte tramite il proprio avatar. Qual é allora l'influenza di questo stile di vita interpersonale e meglio inter-mediatico? In che misura esso rappresenta una trans-cultura? Fin dove ci pervade? Fin dove costituisce identità o le sostituisce?

Ha affermato ancora Gadamer: (14)

Tutti noi dobbiamo curare noi stessi. Il tragico destino della civiltà moderna, secondo me, consiste proprio nelle notevole difficoltà di questo compito, in quanto lo sviluppo e la specializzazione della capacità tecnico-scientifica ha indebolito le forze che ci permettono di prenderci cura di noi… In futuro la nostra esistenza dipenderà in modo decisivo da questa attenzione dedicata a noi stessi, senza la quale non possiamo far fronte alle mutate condizioni di vita di un mondo tecnologico.

In questo quadro gli stili di vita risultano insomma un elemento determinante, perché sono la giunzione tra il generale e il particolare, tra un modello sociale, anche declinabile in campo biomedico, e la singolarità, la soggettività degli individui. E in questo senso trova le più grandi resistenze, opposizioni, contraddizioni.

Ad esempio, come ha affermato Kirsch (51), l’esercizio fisico va prescritto esattamente alla pari di un farmaco, o in sostituzione ad esso, in quanto presenta evidenze di efficacia pari agli psicofarmaci antidepressivi nelle forme lievi di disturbo. Pur essendovi qui un avanzamento rispetto al modello medico, ritenere che lo stile di vita, oltre che ispirare politiche di prevenzione, diventi terapia in sé appare illusorio rispetto agli interessi potenti che agiscono nel campo della salute.

Lo stile di vita è in fondo uno stile di consumo, laddove i bisogni sociali, nel linguaggio odierno, vengono tradotti in stili individuali, e così venduti e consumati. I singoli si riconoscono solo nella dimensione, quasi tribale, del gruppo identitario.

Se la “formazione tra pari” sembra una modalità di affrontare le tematiche relative all’inclusione e all’emarginazione a livello delle scuole, la norma del gruppo, il suo potere normante/tivo di questa aggregazione di base, fondata sul condividerne le sottoculture, si impone come vera prescrizione dello stile di vita.

Il diritto alla salute, al contempo, si aggancia alla Bioetica. Nuove prescrizioni, più o meno di ambito New Age, si presentano allettanti ad assicurare certezze ai soggetti, spesso travestite da scuole “psi”.

La Psicologia della salute (Health Psychology), di questo parla, invece che di malattia. In questa disciplina specifica, così denominata, il concetto di lifestyle resta ambiguo, di difficile collocazione teorica e metodologica. Se riferito unicamente al dominio biomedico, esso impedisce un pieno apprezzamento della multifattorialità di molte condizioni studiate attraverso di esso. L’importanza dei fattori di personalità, le strategie di coping e l’influenza dell’ambiente sociale intervengono in maniera decisiva nei lifestyles correlati a malattie o nel mantenimento del benessere individuale (52). La correzione, il cambiamento degli stessi è legata a modelli interpretativi e causali dove intervengono motivazioni, ma anche bisogni, pressioni sociali e abitudini culturali. Il rapporto tra la personalità, il “soggetto”, e la cultura in cui è inserito, viene qui interpretato con modelli sistemici piuttosto che behaviorisitici, che pongono l’accento sugli stili cognitivi e difensivi rispetto ad un ambiente visto in una prospettiva soprattutto socio-culturale.

La “salute mentale positiva”, ripresa dall’OMS, é intesa soprattutto come auto-realizzazione del proprio potenziale, per cui lavorano discipline relativamente nuove come la psicologia positiva, che ha studiato il rapporto tra l’individuo e il suo ambiente, nel senso della padronanza (mastery) e dell’autonomia. Il senso soggettivo del benessere tende peraltro ad influenzare l’ambiente maggiormente di quanto accada il contrario, come ha sostenuto Murphy (14). Un approccio “salutogenico”, come quello di Antonovsky, sottolinea il senso di coerenza, la risposta flessibile agli stressor, e l’ottimismo come accettazione della realtà e fiducia nella crescita personale. I tipi di personalità vengono per lo più riferiti alle strategie di coping, alcune delle quali sono particolarmente insane (unhealthy). È anche stato chiamato in causa anche il concetto di resilienza, inteso come capacità di difendersi e resistere a circostanze avverse. Tuttavia la stessa OMS riconosce che queste sono teorizzazioni per lo più nordamericane, mentre ribadisce che vi sono condizionamenti determinati dalle diverse culture.

La società del rischio evocata da Beck si riferisce alla fine proprio direttamente agli individui, è a loro che minaccia e promette. In condizioni societarie altamente differenziate, la lotta quotidiana per costruirsi una vita propria è per Beck ormai “l’esperienza collettiva dell’Occidente”, laddove anche

beni come l’amore, il matrimonio e la famiglia (che l’incertezza del futuro rende oggi più agognati che mai) vengono menzionati con riserva perché coinvolgono e legano singole biografie mosse da una forza centrifuga che le spinge l’una contro l’altra (53).

Ma per Beck “quella che si definisce la propria vita non è affatto ‘propria!’ e dipende quasi totalmente dalle istituzioni”. Essa è condannata all’attività, all’interno di un destino, il che implica che l’eventuale fallimento divenga fallimento personale.

Allora quali sono le culture - in senso lato - che queste politiche queste pratiche “di promozione” sottendono? Che modello di società o di persona umana le sostiene?

Certamente una visione di salute pubblica estesa ai comportamenti umani degli individui nei confronti della propria salute, tradotti in stili di vita, richiama visioni collettivistiche, ma forse è maggiormente orientata dalla codeterminazione dei sistemi sociali e della persona umana insieme. È stato ancora Gadamer a ricordare che nella grandiosa utopia della repubblica, “Platone descrive la vera rettitudine del cittadino della comunità ideale identificandola con la salute, ossia con un’armonia nella quale tutto s’accorda”. (14)

È in fondo una chiamata a determinare un cambiamento dei comportamenti individuali verso modelli socialmente utili, che permettano tra l’altro di reindirizzare le risorse destinate alla sanità verso interventi di welfare community, come esemplificato dai programmi di ‘microarea’ a Trieste. I mercatini e le attività di rione, gli sportelli, la cultura e la pratica della socialità partecipata, il porta-a-porta che è un avvicinamento reale dei servizi alle persone, sembrano invocare una reale partecipazione sociale, all’interno di una modulazione dei comportamenti individuali, che diventano domanda sanitaria, dentro il cosiddetto “sviluppo di comunità” – un’attenzione alla creazione di legami sociali, di capitale sociale mediato dalle istituzioni intese come servizi per le persone (54).

Le questioni relative al libero arbitrio, alla scelta libera di un tipo di vita anche dai versanti autodistruttivi o che si consuma diversamente e più rapidamente, sembrano passare sotto silenzio nella nuova e larga pedagogia che esse sembrano introdurre.

Si tratta insomma di “dare valore alle persone”, e ciò in psichiatria avviene in un orizzonte di disvalore (la follia) introdotto dall’illuminismo e dalla freniatria positivista che ne è stata figlia, che hanno codificato i concetti di norma e di devianza. Essi hanno dominato i saperi psichiatrici, costituitisi a loro misura, con finalità normative e basati su di un giudizio di valore. In questo quadro quali stili di vita sono tipici o sono attribuiti, o meglio concessi, permessi, alla devianza?

La cogenza dei fattori sociali o dei determinanti sociali ha a che fare anch’essa con questa statistica, che li pone l’uno a fianco dell’altro, in un effetto finale di sommatoria fondata su dati quantitativi. Scolarità, lavoro e casa, un ambiente sociale adeguato, diventano determinanti di salute, ma vengono allora prima degli individui? Certo ogni ipotesi sulle malattie, che sia legata alla multifattorialità (sia nel senso del rischio che della protezione), ci fa interrogare su forme di determinismo, dove gli elementi macro dominano la scena questa volta.

Dove va allora la salute? Dobbiamo aspettarci allora un’ingegneria sociale come elemento decisivo? Gli stili di vita si dispongono in secondo piano, sono dei modulatori di tali fattori, e la variabile individuale che essi comportano a sua volta può anch’essa venir disposta su un asse continuo. Qui l’individuo sembra attendere la sua normalizzazione, ponendosi docile al seguito delle potenti co-determinazioni sociali.

Eppure la questione dell’ambiente sociale, di come esso influenzi e in qualche modo determini salute e salute mentale, resta cruciale, a partire dai primi vagiti di una psichiatria sociale (55).


10. Uno stile di vita “sociale”: la relazione tra contesti, reti sociali e capacità individuali

Modelli di causalità sociale o le teorie sulla deriva o la selezione sociale sono stati invocati, e poi ampiamente riconosciuti per sostenere l’associazione, in forma ciclica, tra povertà e disturbo mentale, specie nelle sue correlazioni con depressione, suicidio e psicosi, ma anche con il neurosviluppo dell’infanzia.(16)(17) Così come quelli della sfera economica, l’impatto di determinanti sociali come il genere, con il rischio di depressione ed ansia nelle donne anche in relazione a violenza e traumi collegati, è stato approfondito, ed è pure noto il loro agire in modo combinato, a cluster. Si impone tuttavia una serie di altre domande riguardanti l’effettivo ruolo della mediazione sociale, ovvero della comunità locale, dell’ambiente e del dominio socio-culturale, tra cui particolarmente noto e rilevante è l’istruzione (vedi gli studi di Sen in India sulla mortalità delle donne, cit. in Desjarlais et al. (24)), mentre va ricordato il ruolo, peraltro assai studiato, della famiglia, sia come fattore protettivo che di rischio.

In definitiva, l’ambiente in sé si può tradurre in salute? In che modo influenza il capitale sociale ed esso stesso a sua volta influenza le condizioni di salute? In che modo le reti sociali di cui è costituito diventano supporti, o sostengono gli individui nelle fasi critiche e attraverso gli eventi stressanti della vita, ne garantiscono in qualche modo la salute se essi risultano inseriti in una struttura di rete di rapporti? Che condizionamento esercitano i contesti sociali, micro e macro, sulla salute mentale? Che gioco hanno i fattori culturali e valoriali in senso lato?

E ancora: che relazione c’è tra le reti e gli stili di vita, di relazione e di comunicazione? Come si può ricevere aiuto oppure scambiarlo? A che cosa serve la relazione umana in senso lato per finalità di salute? Che implicazioni ha sulla salute la socialità? A che punto interviene e come interagisce la mediazione tra ambiente e singolo individuo?

Sono tutti interrogativi cui le ricerche forniscono risultati contraddittori, perché proprio di contraddizioni si tratta. Una ricerca cui abbiamo contribuito (56) ha dimostrato che le attività sociali realizzate sulla base delle preferenze dell’utente, che si svolgono nella sua sfera (rete) personale, in cui le relazioni sono state recuperate o riattivate, al di fuori dei servizi e delle relazioni ‘di servizio’ con gli operatori professionali, appaiono più efficaci nel potenziarne la vita sociale degli interventi più sofisticati e complessi tipici della riabilitazione psichiatrica. Ciò è vero per persone con disturbo severo (schizofrenia), ma solo se e quando sono in un processo di recovery e mostrano un miglioramento clinico significativo, sono cioè capaci di “usare” le relazioni stesse.

Qui possiamo sintetizzare i passaggi dal sociale all’individuale, che attraversano il campo dello stile di vita.

1. Le teorie della rete sociale e del ‘supporto sociale’ hanno costantemente sostenuto la rilevanza dei legami e delle relazioni sociali, di cui sono costituite, sull’insorgenza, sul decorso e sull’esito di molte condizioni di salute, tra cui i disturbi psicotici e la schizofrenia, in termini di fattori protettivi o viceversa di rischio. Al tempo stesso su di essi sono stati costruiti interventi e specifici trattamenti volti ad utilizzarne le potenzialità a fini terapeutici e riabilitativi, in particolare della rete familiare, o di integrazione e di inclusione sociale di quella più ampia, intendendo così influenzare gli esiti degli stessi trattamenti e quindi modificare il decorso. La qualità di vita dei pazienti con schizofrenia è risultata essere correlata positivamente con la rete sociale e l’empowerment, e negativamente con lo stigma e la depressione (57). Il supporto sociale é stato incorporato in alcuni modelli esplicativi della riabilitazione (come da Libermann) o in modelli integrati di trattamento dello stress (Fallon, Leff per le EE); nella depressione esso è parso legato alla prossimità della relazione, la c.d. ‘relazione di confidenza’ di Brown e Harris (58).

2. Il concetto più largo di capitale sociale, anch’esso di area economica e sociologica, resta di dubbio valore euristico nonché di modesta applicazione pratica (59) benché altamente evocativo di una serie di ipotesi. Il concetto di capitale sociale si riferisce alle risorse relazionali possedute dagli individui, e che li sostengono nelle loro decisioni ed azioni. In altre parole, è riferito anche a stili di vita e relative capacità e scelte individuali. Secondo Bourdieu (che per primo lo teorizzò nel 1980) (60) esso è la rete delle relazioni personali e sociali che un attore (individuo o gruppo) possiede e può mobilitare per perseguire i propri fini e migliorare la propria posizione sociale. È quindi un insieme di relazioni che un individuo o gruppo può usare per i propri interessi – è in questo senso “produttivo”. Sta dunque nella struttura delle relazioni (61) ed è misurato da valori quali fiducia, reciprocità e partecipazione civile, ed in molte ricerche risulta positivamente correlato con le condizioni di salute fisica e mentale (62). Come ha notato Ota De Leonardis, il nesso tra sviluppo economico e salute ripropone allora la necessità di sviluppo del potenziale umano delle società e degli individui che le compongono, e dunque il nesso tra politiche sociali e sanitarie perché le prime hanno effetti diretti, visibili, sugli indicatori di salute. Non è comunque percepito a livello individuale né è una risorsa attivabile dal singolo, né esso appare misurabile agevolmente (15). Ciò nonostante, nella sua relazione con la coesione sociale, o inversamente con la sua mancanza, il suo ruolo è stato anticipato dalle prime ricerche sul comportamento antisociale (Shaw & McKay) (15) e sul comportamento suicidario nell’ “anomia” descritta per primo da Durkheim (1897).

3. Le abilità, gli skills, la capabilities come mediatori e modulatori individuali, sono state riconosciute primariamente in ambito economico e sociologico come fondamentali aspetti dello sviluppo umano (63). Recenti teorizzazioni fondate su ricerche empiriche e qualitative pongono le capacità personali di base e le abilità acquisite attraverso la pratica e le capacità acquisite attraverso la crescita complessiva, in relazione alle opportunità (opzioni sociali) come sviluppo di un senso attivo di sé (agency development) nell’ottenere le mete che migliorano la qualità della vita degli individui. La costruzione di tali capacità avviene anche nelle opportunità offerte dall’interazione con i servizi.

4. Tutto ciò va a definire l’integrazione sociale proprio nei termini, prima discussi, di qualità della vita. Il concetto di integrazione si riferisce al processo attraverso il quale individui con disabilità sviluppano ed esercitano in modo crescente le loro capacità per la connectedness (la capacità di creare legame sociale) e la cittadinanza. Questi due costrutti teorici, piuttosto complessi, sembrano rispondere alla necessità di utilizzare nuove e più pregnanti categorie capaci di cogliere la complessità del processo di crescita di una persona verso l’integrazione sociale, in quanto attore (agent) del suo percorso piuttosto che mero utilizzatore di servizi (consumer). La prima nozione rinvia alla costruzione e al mantenimento efficace di relazioni interpersonali, che danno anche accesso a risorse. In tal senso va ben al di là del semplice supporto sociale ma implica reciprocità, e si costituisce attraverso competenze sociali (comunicative), morali ed emozionali, insieme con un certo grado di social currency (attributi sociali, come talento, bellezza etc). Anche il senso di comunalità e di identificazione in un gruppo sembra avere un ruolo. Inoltre l’acculturazione, e tutte le modalità di formazione culturale e di consapevolezza sociale e politica in senso lato rispetto allo status di cittadinanza, pongono l’accento sull’integrazione come processo fatto da azioni che creino occasioni ed opportunità per una persona come soggetto agente / attore della propria vita (64). Riferendosi al in particolare concetto di connectedness, la stessa definizione di salute (mentale) è stata allora recentemente modificata nel documento più recente dello Special Rapporteur (2019) (65):

La buona salute mentale e il benessere non possono essere definiti dall'assenza di una condizione di salute mentale, ma piuttosto devono essere definiti dall'ambiente sociale, psicosociale, politico, economico e fisico che consente agli individui e alle popolazioni di vivere una vita dignitosa, con pieno godimento dei loro diritti e nell'equa ricerca del loro potenziale. Ciò richiede la creazione di ambienti abilitanti che valorizzino sia la connessione sociale che il rispetto attraverso relazioni non violente e salutari a livello individuale e sociale per tutta la vita.


11. La speranza della Recovery e la diversità rivendicata

Ciò che sembra interessante di questi concetti é l’induzione virtuosa di pratiche nei servizi di salute mentale operanti sul territorio in un’ottica di comunità, e di culture e stili operativi che siano volti ad affiancare l’utente nella vita quotidiana, alla demedicalizzazione di ambiti di intervento, alla valorizzazione di risorse per la qualità della vita.

In questo senso sembra strategico in termini culturali il nesso tra ricognizione delle risorse sociali attorno agli individui e necessaria attenzione alla ricostruzione delle storie personali e del mondo della salute dell’utente (interessi, aspirazioni, mete, valori), come sottolineato da molte esperienze e modelli centrati sulla recovery.

Negli ultimi anni le indagini sulla recovery hanno modificato questi concetti in senso più qualitativo, modulandoli soggettivamente sull’individuo (66, 67, 68, 69). Le forme di peer support, le figure di helper nelle pratiche ed esperienze di self-help, le recovery guides, gli assistenti terapeutici, i support worker, gli STAR, i Social inclusion worker, le esperienze molteplici di impiego di facilitatori-accompagnatori vanno inquadrate in una miriade di tentativi e di pratiche, scarsamente formalizzate, che si basano su relazioni di reciprocità e tendenzialmente paritarie e forse proprio in questo senso sembrano essere empiricamente più efficaci.

Una risposta alla pressione normativa e delle determinazioni sociali del comportamento umano, alle prescrizioni sugli stili di vita, proviene proprio dal campo dell’Antinorma. Il modellamento dello stile di vita che contrasta la disabilità e la malattia, attraverso l’auto-determinazione del soggetto, ne é il vero elemento-chiave. Ricerche qualitative sulla recovery tendono a definire la stessa esperienza del percorso individuale di ripresa come declinata in una dimensione sociale (70), che rimanda all’uscita da una condizione di esclusione ed all’entrata in una cittadinanza vissuta o meglio esercitata (71). Non a caso la stessa socialità, come “connectedness”, è stata introdotta come uno dei fondamenti della recovery nell’acronimo CHIME (Connectedness, Hope and Optimism, Identity, Meaning, Empowerment) (72).

A fronte della genericità delle prescrizioni e delle indicazioni circa salute e benessere, e quindi sugli stili di vita, sta la grande e straordinaria molteplicità e creatività delle strategie che le persone sviluppano quando affrontano e superano la condizione di impasse esistenziale provocata da un disturbo mentale, che ne dimostrano l’urgenza verso la salute, la loro capacità di sopravvivere e andare oltre.

Occorre tornare qui ad Amartya Sen,(63) che aveva definito l’orizzonte delle speranze individuali riconoscendo ai soggetti il diritto ad acquisire funzionamenti di natura sociale, che permettono in realtà un vero esercizio di libertà ed equaglianza. Essi chiamano in causa il modo in cui ogni individuo sceglie un tipo di vita piuttosto che un’altra: ovvero, definisce il proprio stile di vita. La speranza di un valore emancipativo dello stile di vita viene allora dagli angoli di maggior sofferenza del campo della “mental ill health”. In salute mentale, l’immaginario della liberazione o del riscatto (recovery) sta dentro il movimento dell’individuo che si sposta lontano, via dalla malattia, a ridefinire anche le priorità dell’esistenza e dunque lo stile di vita. Qui il recupero da una lato di una reciprocità con gli altri che si sostituisce all’invalidazione, e di un’autenticità del Sé al di fuori del dominio dell’alienazione, ci ricorda la figura del Misantropo di Moliére: colui che disprezza le norme, la falsità del gioco sociale, per recuperare la sua dignità in una posizione e definizione di scontrosa e distante.

La proposta della recovery, ossia l’individuo che si fa da sé o che conosce la sua via - esperto per esperienza, o studente che “di sé stesso e della sua malattia” – toyshio kenyu in Giappone - ripone ancora sull’individuo la potenzialità di trasformare la sua vita. Uno stile di vita sano – ad esempio libero da sostanze (autentico?) - rinvia al tema delle norme e della libertà. Ma solo l’ampliamento della norma, il cercare di cambiarla per garantire un’opportunità per tutti, appare come un orizzonte aperto e promettente. Come ha notato Gadamer a proposito del processo di recupero (14):

ogni turbamento non comporta necessariamente l’eliminazione di qualcosa, ma piuttosto un adattamento, un reinserimento nel ciclo della vita umana, familiare, sociale e professionale, che si svolge attraverso il comune accordo degli uomini.

E ancora: “La dissoluzione della persona nell’ambito della scienza medica si realizza mediante l’oggettivazione di una molteplicità di dati. Ma l’essere dell’individuo negato dalla medicina è sempre necessario per riacquisire l’equilibrio di cui l’uomo ha bisogno” (14).

Nel particolare processo di individualizzazione che caratterizza l’attuale fase storica, inteso come “aspetti soggettivo-biografici del processo di civilizzazione”, descritti da Ulrich Beck - vanno distinte le situazioni di vita (oggettive) e le situazioni di coscienza (soggettiva) (identità, personalizzazione) (73). La singola persona diventa l’unità di riproduzione del sociale nel mondo della vita, ma proprio i fattori che realizzano l’individualizzazione sono quelli che producono anche una standardizzazione; ed esse “non sono più situazioni soltanto private, ma sempre anche situazioni istituzionali. Possiedono il doppio volto, contraddittorio, di situazioni individuali dipendenti dalle istituzioni” a livello di lavoro, formazione, consumo, norme giuridiche, interventi assistenziali, incluse le “modalità di consulenza medica, psicologica e pedagogica”. Le biografie diventano pertanto politicamente configurabili. (73)

Lo scarto tra determinazione sociale/istituzionale e libera scelta da parte del singolo, che si pone nelle politiche sugli stili di vita, apre di fatto la questione fondamentale sugli stili di vita alternativi, o marginali. Essi spesso ci appaiono come eccentrici, fantasiosi modi di vivere, come ha scritto Alec Jenner: “schizophrenia or some ways of being human” (74). Pur essendo stati, e lo sono tuttora, scambiati spesso solo per sintomi, e confusi nella vasta congerie dei comportamenti patologici, sono in realtà, come si raccoglie dalla narrazione delle esperienze, modalità personali di gestire la malattia, di reagirvi, mantenendo il proprio 'potenziale energetico', come ha notato molti anni fa Luc Ciompi. Il positive social withdrawal (il distacco sociale positivo) (75) ad esempio si osserva in persone che frequentano luoghi del vivere sociale, o più spesso non-luoghi, come stazioni, supermarket, centri commerciali, senza entrare in relazione diretta con gli altri. È uno stile che si pone a fianco della socialità, la rasenta e la assorbe, ma non vi entra dentro.

Il dialogo le voci, che si può osservare anche come comportamento sociale alla stregua di un parlarsi tra sé e sé, si è dimostrato essere una strategia efficace di gestione del sintomo restituisce paradossalmente la dimensione di senso, quasi razionale, ad esso.

Pensiamo anche al corpo, ultimo baluardo delle anoressiche, il corpo-macchina luogo del potere del Sé, da istruire in una fitness paradossale; oppure al corpo tossico da svezzare e da recuperare nelle dipendenze da sostanze, anche attraverso la pratica comune del wellness; e alla spiritualità come strategia non ascetica, ma di riequilibrio mente-corpo nelle psicosi.

Occorre allentare la morsa dello stigma sulla diversità per permettere l’esistenza sociale di questi stili di vita non comuni. La chiusura dei manicomi ha aperto alla grande operazione del riconoscimento dei diritti alla disabilità psichiatrica e psicosociale, anche in quanto e come tale, a prescindere dalla sua trasformazione terapeutica.

La riappropriazione della propria vita, dentro la quale insistono la salute e la malattia insieme, è comunque la grande lezione di Franco e Franca Basaglia, che i movimenti della recovery echeggiano e sospingono oggi.

La psichiatria resta tuttavia ancora a fianco, non toccata, o appena sfiorata da saperi che non comunicano con essa, e che, raramente ancora, sono capaci di mettere in questione il potere che essa esprime sulla vita, qualsiasi essa sia, del malato – ovvero il suo biopotere, che riconferma di solito l’esistente. Infatti Pre-venire equivale a pre-vedere, come ha sottolineato Sergio Piro: (43)

Se prevenire è sempre adeguare e controllare ed adoperarsi al fine che il previsto accada (se prevengo la devianza, la società ricca e felice finalmente sarà), allora il termine prevenzione primaria è solo il modo in cui ogni società dichiara il suo disporsi al controllo.

L’ultima rivendicazione orgogliosa della differenza legata ad una “disabilità psicosociale” viene dal movimento internazionale che ha sostenuto l’approvazione della CRPD.

La Convenzione, nel ribadire una serie di diritti sostanziali per le persone con disabilità, comprese le persone con problemi di salute mentale, rappresenta un importante cambiamento di paradigma nel riconoscere le persone con disabilità come titolari di diritti e con “una dignità umana intrinseca degna di protezione pari a quella di altri esseri umani”.

La CRPD è il primo standard internazionale giuridicamente vincolante di alto livello che mira a promuovere, proteggere e garantire il pieno ed equo godimento di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali da parte di tutte le persone con disabilità, attraverso politiche e programmi contro la discriminazione e il pregiudizio e a favore della piena ed effettiva partecipazione e inclusione nella società, nel rispetto delle differenze e nell'accettazione delle persone con disabilità come parte della diversità umana. Nel c.d. “modello sociale” della disabilità, essa è infatti vista come il risultato dell'interazione tra le persone che vivono con disabilità e un ambiente che presenta molte barriere fisiche, attitudinali, comunicative e sociali. Pertanto può essere superata modificando l'ambiente fisico, attitudinale, di comunicazione e sociale (le suddette barriere) per consentire alle persone di partecipare pienamente alla società e garantire uguaglianza di opportunità e accessibilità.


12. La salute mentale nell’era del coronavirus

L’espressione “tutela della salute mentale” è inizialmente suonata quasi pleonastica, in molti contesti sanitari, quando il coronavirus è comparso sulla scena planetaria. Eppure, nell’era in cui nessuno può metter in discussione la liceità di una “biopolitica” dettata dalla medicina, non c’è mai stato più bisogno di politiche di salute mentale, proprio perché tutta la popolazione prima o poi, del globo, soffre un disagio formidabile. Esso tocca e toccherà tutti, e non solo coloro che hanno già disturbi diagnosticati di tipo psichiatrico, sconvolgendo il mondo per come lo abbiamo conosciuto. Tra i determinanti relativi agli eventi ambientali, un evento, prolungato e catastrofico, come questo, rappresenta una chiara minaccia alla salute mentale sia a livello individuale che collettivo, chiamando in causa i concetti di vulnerabilità e di resilienza.

Occorre quindi ripensare ad una salute mentale nell’era del coronavirus, che durerà almeno per un po’ dopo la pandemia, come sappiamo, e comunque sta già modellando e trasformando comportamenti e stili di vita abitudini, singoli e collettivi. Il sentimento comune dominante, lo Zeitgeist, é la paura, e la reazione ad essa. Vissuta al tempo stesso collettivamente e singolarmente, come soggetti rigettati nel proprio isolamento e spesso in una vera e concreta solitudine. Di fatto, quella al Covid 19 sembra in partenza una guerra fatta di individui isolati, e quindi di solitudini. Ma lo è anche di famiglie; e di piccole comunità locali, come il condominio, il vicinato; e di reti virtuali, piccole e aperte, o globali. E quindi esso inevitabilmente tocca, di rimbalzo, tutto quel “corpo sociale”, cui facevano costantemente riferimento i Basaglia.

Al suo interno, l’operatore della salute mentale è uno dei tanti. Non deve curare la sindrome da Covid, ma ciò nonostante deve continuare a lavorare, perché c’è bisogno di tanti livelli di sostegno, anche psicologico e psichiatrico. E non c’è reale distinzione tra chi cura e chi è curato, paradossalmente l’operatore può trasmettere il morbo al di là delle precauzioni adottate.

Appare innanzitutto evidente che il “corpo sociale”, sembra ritirarsi. È un corpo sociale ferito e malato, che rivede criticamente i suoi stili di vita precedenti, spesso senza nostalgia, ma senza riuscire ad immaginare un futuro.

Ci pare che quello che sostennero Franca Ongaro e Franco Basaglia sia ancora oggi una chiave di lettura e di comprensione illuminante. Semplificando, un corpo - nuda vita, direbbe Agamben - diventa ‘corpo organico’ solo in rapporto al ‘corpo sociale’ cui si riferisce. La salute è un processo partecipativo e di riappropriazione di questo legame.

Se la norma è una regola imposta a difesa del gruppo dominante, essa impedisce ai dominati qualunque espressione soggettiva, riducendo l’individuo a corpo dominato, corpo alienato e sfruttato da ciò che lo organizza. La dialettica tra individuo e organizzazione dovrebbe esprimersi come dialettica fra un corpo organico che risulti appropriato dal soggetto nella sua organicità alla costruzione delle risposte ai bisogni propri e del gruppo; e un corpo sociale che risulti la somma di soggetti partecipi alla propria organizzazione e all’organizzazione delle risposte ai bisogni propri e del gruppo. Corpo organico e corpo sociale sarebbero, in questo caso, espressione di una soggettività individuale contenuta in una soggettività collettiva. Ma il sistema produttivo che è venuto affermandosi si fonda sull’appropriazione della soggettività dell’uomo, quindi sulla riduzione del corpo organico a corpo, e sulla tendenziale identificazione fra corpo sociale e corpo economico. Il corpo sociale non è, infatti, che l’insieme di sistemi – dipendenti dal corpo economico, quindi dal sistema produttivo – che organizzano la massa, ridotta a tanti corpi privi di soggettività. La dialettica uomo/organizzazione si riduce, di fatto, al tentativo di identificare corpo e corpo economico, per facilitare l’assorbimento dell’uno nell’altro (76).

Se una socialità fatta dalle soggettività diverse, in una logica di “restituzione al corpo sociale”, era l’utopia di Basaglia e della riforma, che fare ora che le reti sociali si restringono all’essenziale, mentre si dilatano tutti i media comunicativi, e specialmente i social media? Si vive connessi tramite internet, o al telefono, o attaccati alla TV. Mentre occorre informarsi, troppa esposizione, e specialmente quella a fonti inaffidabili, può aumentare lo stress.

Gli studi sui comportamenti individuali non danno molto aiuto, non hanno molto senso. Essi soprattutto utilizzano ed enfatizzano tale nozione di stress e il conseguente post-traumatic-stress-disorder (il famoso PTSD). La nota recente review, relativa agli effetti psicologici della quarantena, è basata su condizioni verificatesi in altre epidemie, dalla SARS in poi (77). Ma qui non si tratta di mettere in quarantena singoli individui affetti, o positivi all’infezione, come potenziali fonti di contagio. Il lockdown, lo stare chiusi in casa, che l’Italia e poi altri paesi hanno sperimentato e vissuto, è un immane esperimento collettivo, una nuova Norma: una condizione generalizzata, che ha toccato tutti, soprattutto chi è restato davvero a casa e non si é dovuto recare al posto di lavoro, nella sanità, nella produzione o nei servizi essenziali. Ciò non è molto diverso dalle tecniche di gestione sanitaria e sociale delle epidemie storiche, della peste per prima. Per certi versi, il lockdown nelle case, con le regole, somiglia certamente alle celle dei monaci di cui ha parlato Foucault (78), come primo tentativo di sostituire un biopotere sanguinario a quello disciplinare, basato su una tecnica di gestione della popolazione.

La metafora moderna, prima evocata da Le Breton, di un “hikikomori ordinario”, rinvierebbe a modalità comportamentali caratterizzate non tanto e non solo da un severo distacco sociale, ma da un attivo, egosintonico evitamento sociale, che si osserva soprattutto in soggetti giovani e che ha a che fare non tanto con il confinamento spaziale, quanto con l’impoverimento relazionale. In maniera del tutto differente, le misure d’emergenza, stabilite e quindi imposte per bloccare e prevenire la pandemia, dal lockdown al distanziamento sociale, all’uso delle mascherine e dei guanti, alle misure d’igiene, spesso esemplificate e riassunte in decaloghi, “tips” e quant’altro, hanno costituito la nuova Norma. In tal senso sono state a volte imperative, altre volte prescrittive, ma in ogni caso pervasive. Intendono omologare, modellandoli, i comportamenti collettivi, ma si imperniano sulla introiezione e interiorizzazione della Norma e sulla conseguente responsabilizzazione da parte degli individui, che devono, uno per uno, assumerle e rispettarle, adeguando e conformando ad esse, di conseguenza, la loro vita. È un doppio legame, alla Bateson: devi spontaneamente comportarti da cittadino responsabile, ma te lo imponiamo e ti diciamo anche come va fatto. È un fatto senza precedenti: lo stile di vita prescritto, imposto per decreto sulla base di un sapere medico, va accettato ed eseguito, con poche deviazioni e boicottaggi, pena concrete sanzioni. Non vi è scelta né libero arbitrio.

Questo è dunque un caso eccezionale, in cui immediatamente le politiche sanitarie, che emanano prescrizioni, si traducono in un modellamento non-mediato soggettivamente di comportamenti effettivi e addirittura in stili di vita – senza eccezioni e possibilità di appello.

Sono apparse poi molte raccomandazioni, che hanno riguardato gli stessi operatori sanitari, e tra essi quelli della salute mentale, che devono prendersi cura dei propri pazienti ma anche del proprio benessere mentale durante i periodi di quarantena, e che stanno a garantire il loro proprio lavoro che deve poter continuare.

Si tratta di stili di vita ridotti all’essenziale, quasi ai soli bisogni elementari, che vanno certo assicurati. Si deve mangiare, bere e dormire regolarmente, fare pause, comunicare con i colleghi e le persone care anche attraverso i media, e garantire che sia la propria famiglia che la propria organizzazione siano al sicuro e abbiano un piano in caso di contagio. Una riduzione al biologico, una tutela della sua essenzialità, mirata alla salute come sopravvivenza, non solo individuale ma di gruppo, e forse di specie.

Quali sono stati e saranno gli effetti, la contropartita delle misure più pesanti? Oltre alla immediata paura del contagio, gli studi confermano – ma come potrebbe non essere così – che in situazioni di quarantena, simili a quella del lockdown, aumentano la noia, la frustrazione, e pure il livello d’ansia, che dilata la paura dell’infezione fino al panico, e le cenestopatie, ma non troppo. Ci si attrezza tutti di fronte all’emergenza, ad un pericolo, che è forte e presente, benché invisibile. Pochi deragliano, mettendo in atto comportamenti ispirati da atteggiamenti di negazione e di fuga dal reale, con ostinazione nel mantenere il proprio stile di vita “nonostante tutto”. Ma con l’isolamento soprattutto si può vivere una condizione di trauma generalizzato, con potenziali effetti post-traumatici a breve e lungo termine, benché i primi dati di monitoraggio e di ricerca, in Italia e nel Regno Unito, sembrano sottolineare una straordinaria resilienza.

Questo contrasta il rischio di psichiatrizzazione dei comportamenti di reazione allo stress ed adattivi. Una sanitarizzazione spinta distrugge la dimensione sociale, propone risposte riduzioniste, minimali e specialistiche, soprattutto in una fase d’emergenza. Si identificano sintomi e sindromi, col conseguente ulteriore rischio di produrre risposte individuali, parcellizzate e codificate in senso psichiatrico, e quindi principalmente farmacologiche. Bisogna stare attenti alla tecnicizzazione dei problemi, quale è la direzione che prenderà la grande emersione di reti private di psicologi che forniscono intervento specialistico sull’emergenza. Non é questa, crediamo, la riparazione delle ferite del copro sociale né del corpo organico individuale.

Rispunta peraltro l’antica recezione sociale della malattia come colpa, individuale e collettiva, qualcosa che la psichiatria ha conosciuto nella storia e anche oggi impregna la cultura popolare, soprattutto laddove il modello medico non ha sostituito le vecchie credenze e coperto ogni obiezione. Abbiamo già visto scattare ingiustificate forme di pregiudizio e di stigma rivolti a singoli (ex-malati, positivi) o a intere popolazioni, nazionalità, etnie.

Il distacco sociale resta un possibile effetto a lungo termine del nuovo stile di vita “post-pandemico”. La quarantena si è accompagnata al distanziamento sociale, definizione che è poi stata corretta dall’OMS con quella di “distanziamento fisico”. Le forme elementari del legame sociale interumano sono state inibite nel loro declinarsi attraverso spazi e corpi, e sono state costrette ad essere reinventate nella loro prossemica, oppure a proiettarsi nello spazio virtuale delle telecomunicazioni e soprattutto della rete. L’esercizio fisico, il contatto con la natura, la mobilità, lo spostarsi sono diventati esercizio del singolo o di singoli vicini ma innaturalmente slegati.

Nella popolazione generale, in una situazione omologata in cui sono stati inibiti lo spostarsi, il fare esercizio insieme, il mangiare o il bere in gruppo, la convivialità, perfino il cantare o il suonare insieme, si è affermato per contro lo stare a fianco a fianco nella quotidianità, in una intimità o promiscuità forzata, che è quella della famiglia (per chi ce l’ha). Altri sono condannati alla solitudine del quotidiano, o sono costretti a scegliere se stare da soli o convivere, se si ha una relazione. Chi ha un giardino, una seconda casa, un luogo di ritiro e di fuga, dopo i primi divieti, è tornato ad essere fortunato.

Molti documenti hanno fornito consigli semplici sugli stili di vita di chi sta in svariate forme di quarantena, come quelle ora generalizzate a tutti. Indicazioni che - anche spontaneamente - tutti hanno cercato di mettere in atto: oltre al mantenere un sonno riposante e mangiare pasti regolari, bisogna fare esercizio fisico (in ambiente domestico!); limitare l'uso di alcol, tabacco e altre droghe; parlare con i propri cari, anche di preoccupazioni e timori; praticare eventuali strategie di rilassamento, impegnarsi in hobby e attività piacevoli. Vi sono consigli per chi ha figli, o anziani, e per le famiglie in toto.

Ancora Le Breton ha parlato della vulnerabilità del corpo: (7)

Ora il corpo è il luogo della vulnerabilità, dove malattia e morte mentono per correre attraverso il più piccolo divario. Più che mai il corpo è il luogo della minaccia, è importante sigillarlo, chiuderlo, mediante i "protocolli di barriera", così appropriatamente denominati. La "fobia da contatto" precedentemente sottolineata da Elias Canetti si radicalizza anche nelle nostre società. Il corpo deve essere costantemente lavato, lavato, esaminato, purificato, tenuto fuori da ogni contatto con l'altro sconosciuto e quindi sospetto. Niente più baci, niente più strette di mano o abbracci nelle poche relazioni ancora fisiche che si tengono solo a distanza. Il desiderio è un pericolo perché sfugge a ogni controllo ed espone coloro che vi cedono al peggio. Una forma senza precedenti di puritanesimo accompagna le misure di confinamento e le precauzioni da prendere per evitare di essere raggiunti dalla malattia e non contaminare gli altri. Stiamo assistendo a un indurimento sociologico dell'individualismo con questa necessaria solitudine. La privatizzazione dell'esistenza elimina lo spazio pubblico. L'individuo crea un mondo solo per se stesso "comunicando" in modo permanente ma senza il disagio della presenza fisica dell'altro.

Tuttavia le stesse condizioni, incredibilmente generalizzate, in una sorta di basica uguaglianza dettata dal biologico, impattano sulle diversità e si declinano diversamente sugli individui, anche nei loro effetti. Per esempio, il distacco sociale incombe anche su chi non può, o non sa (e a volte non vuole) difendersene. Se da un lato le persone con problemi psichici più gravi, come è riconosciuto, si dimostrano capaci di far fronte e anche di aiutare in condizioni d’emergenza - così succede, ad esempio, nelle guerre – dall’altra l’isolamento sociale di chi ha problemi psicotici è ora ironicamente permesso e “normalizzato” come comportamento imposto a tutti. Molti sono scomparsi dai servizi, rintanati di nuovo in casa. Le famiglie, ove ci sono, hanno tenuto o si sono riprese i malati prima affidati ai servizi: si sono rinsaldate le relazioni nell’ora del pericolo. Ma sia l’alienazione determinata dall’assenza di legami sociali dei primi, che i conflitti nelle seconde, possono acuirsi improvvisamente e portare a momenti di crisi che vanno assolutamente prevenuti (79).


13. Intravedendo il futuro

In questa scena, che si è centrata su una dimensione prevalentemente domestica, come si declinano allora politiche di salute mentale? Come possono non scomparire i servizi che, diventati asettici, si sono ritirati in una condizione di difesa, che a sua volta ha fatto riemergere la cronica insufficienza delle nostre risorse destinate alla salute mentale, e ai servizi del territorio?

Si é confermato intanto, in tutta la sua rilevanza e drammaticità, il gradiente sociale della salute mentale: il disagio dei più poveri, di chi sta solo, o anche ammassato, in buchi angusti. Molti possono non avere da mangiare e non accedono a mense sociali o attive nei servizi stessi. Lo vediamo nelle periferie del mondo: le grandi masse che vivono ai margini delle città e diventano popolazioni a rischio di sopravvivenza. I determinanti sociali di salute diventano qui una cosa molto concreta: il disagio diffuso della popolazione andrà letto attraverso questi assi.

Lo stile di vita come scelta individuale diventa una chimera per enormi masse di nuovi esclusi.

Bisogna ricordarsi di assicurare bisogni primari, anche con consegne di pasti. I senza casa, sono persi in un nulla sociale, senza elemosine neppure perché non c’è gente per le strade, senza cibi caldi se non con lodevoli sforzi di una parte del volontariato. Qui i servizi devono fare “outreach”, raggiungere chi non vi accede, anche per strada, e sostenere in modo potente con chi garantisce la sopravvivenza, mobilizzando tutte le risorse possibili dei territori, dei rioni, delle associazioni, delle chiese. L’assistenza, la promozione di salute e la prevenzione si sovrappongono ampiamente.

Mai come ora inizia a rendersi evidente il tema dei determinanti sociali di salute e di malattia, che non era mai arrivato così prossimo al livello individuale, ma era attribuito alle comunità, alle condizioni societarie di riproduzione e di esistenza.

Un tema centrale è quello della condivisione di senso, in un approccio di nuovo collettivo, che si è reso necessario nella impensabile curvatura dello stile di vita determinatasi. Nella quarantena, al di là delle giuste norme di igiene che la impongono, accade di valorizzare aspetti personali, dall’introspezione all’intimità domestica, alla cerchia di relazioni che la circoscrivono.

Innanzitutto è stato necessario dare senso all’isolamento: questo è uno straordinario elemento di prevenzione universale, ossia rivolta a tutta la popolazione. Qui emerge la necessità di uscire da visioni individualistiche e optare senza indugio per la condivisione e la solidarietà, civile e sociale. Ora sì che serve innalzare il senso di essere parte di una comunità, e i servizi possono e devono fare da ponti.

Pur sotto la cappa della paura, la sottostimolazione sociale ha avuto anche paradossalmente effetti positivi, grazie all’abbassamento del livello di domande che la società pone agli individui.

Woodshedding è un concetto che è stato enunciato da Strauss (80) e riferito alla preparazione alla recovery, quando gli individui si ritirano socialmente per allenarsi, come i musicisti di jazz nelle piantagioni, suonando e provando “nella legnaia”: “Periodi di non apparente miglioramento mentre si acquisiscono sottili incrementi di autostima, competenza, resistenza e abilità sociali”.

Si è anche parlato di una sfida alla riscoperta del Sé, e di un allenamento non già solo fisico – il fitness, lo stile di vita salutista che è pure di moda – una “cura di sé” di foucaultiana memoria. Che cosa ci serve davvero? Che cosa è essenziale? Mentre siamo rigettati dentro noi stessi, in qualcosa di inaudito per tutti noi, l’ascolto di noi stessi e la focalizzazione sul nostro corpo, perfino sul nostro respiro, vi si contrappone e forse prevale il senso di una comunità, di una lotta comune.(79)

Contemporaneamente al ritiro, un disperato bisogno di socialità si è affermato in tutti i modi possibili, dai social media alle forme di comunicazione collettiva nelle strade e nei condomini.

Il senso di un eroismo collettivo, dove il corpo sociale frammentato e mediatizzato che si riconnette idealmente, o forse anche concretamente, in molteplici forme di aiuto e sopravvivenza.

Occorrerà allora valorizzare e studiare i fattori di resilienza individuali e collettivi, e le strategie di coping per una “recovery” che mai come ora sarà un fatto interpersonale sociale. È stato recentemente ipotizzato il costrutto del “recovery capital”, capitale di recupero (RC) dei soggetti. La mancanza di RC era spesso associata alla mancanza di fiducia in se stessi e negli altri (identità e capitale sociale personale) (81).

A livello macro, si parla di “Whole of Society approach”, un approccio globale di società (82). Andranno potenziate le nuove forme di connessione sociale che si stanno sviluppando in questo sforzo collettivo di lungo-resistenza.

Crediamo perciò che in una fase come questa tutte le forme di condivisione e di socialità che sottraggono al biopotere la capacità univoca di assoggettare i corpi siano decisive. Lavorando dentro i limiti del possibile e del rischio sostenibile. Occorre individuarsi, anche attraverso identità di gruppo e collettive.

Abbiamo già osservato che, proprio nel momento in cui le forme di organizzazione societarie sono compromesse, messe all’angolo, bloccate, e con esse l’aggregazione sociale in tutte le sue forme come elemento generale del legame umano, rinasce più forte il bisogno di relazioni e oltre, il bisogno di comunità. Occorre allora fare lo sforzo di immaginare come riproporre quella dimensione sociale che invera la salute mentale di comunità, in un modo nuovo e integrato che promuova salute e non arrivi solo “dopo”, al momento della riparazione.

Istituire nuovi modi per arrivare alle persone nei contesti di vita, creare nuovi media di comunicazione non può essere la sola risposta. La comunicazione da sola non risolve né realizza la dimensione sociale, che è fatta di materialità di vita, di risposta a bisogni, materialistici e postmaterialistici, e non solo di relazioni, specie se declinate in una sfera prevalentemente virtuale.

Appare importante che dei nuovi servizi si strutturino su una più vasta scala, disincentivando una corsa ulteriore al privato e anche alla dimensione solo individuale della sofferenza. Se si tratta di un bisogno pubblico, della moltitudine, deve essere gestito dal pubblico. Oggi siamo agli stili di vita minimali della sussistenza. Occorre quindi un nuovo welfare che realizzi una risposta globale, integrandosi alle risorse degli individui e al capitale sociale della comunità che si é riaffacciato, sorprendentemente (83).


14. Conclusioni

L’utopistico orizzonte della biopolitica di conformare i comportamenti collettivi, a partire dai corpi, modellando le esistenze concrete dei soggetti, per il dichiarato scopo del benessere collettivo dei cittadini (o per il mantenimento del potere sulla vita dei sudditi), sembra paradossalmente avverarsi oggi, nell’epoca della pandemia.

Un improvviso allineamento ha, almeno temporaneamente, annullato lo iato tra norme sociali, a finalità apparentemente sanitarie, e soggetti individuali.

Questo appiattimento su una Norma, ritenuto necessario, dovrà rapidamente essere superato da una ripresa delle libertà e dei diritti dei soggetti sulla loro propria salute, sui loro corpi e sulle loro condotte sociali.

Ciò nonostante, la pandemia ha già spiazzato buona parte di quanto c’era prima, come l’estensione alla società di prescrizioni per la prevenzione dei disturbi psichiatrici e per la promozione di salute mentale. Il tentativo di esercitare una forte influenza sugli stili di vita, attraverso proposte “in positivo”, formulate dalla psicologia della salute, dalla pedagogia e da altri saperi disciplinari ha attraversato in senso trasversale la salute mentale globalizzata negli ultimi vent’anni. Il tema si è intrecciato a quello dell’azione a livello della comunità, che deve essere direttamente coinvolta, dei gruppi vulnerabili, tenendo conto dei determinanti sociali di salute e delle relative disuguaglianze che emergono da essi, che pone la necessaria trasversalità dell’azione sulla salute mentale a livello governativo al di là dello stretto ambito sanitario. Ciò tenuto conto che l'ambiente sociale stesso può essere tradotto in salute, attraverso il capitale sociale, le reti sociali, che diventano sostegni per gli individui nelle fasi critiche e negli eventi stressanti della vita, e non ultimi, i fattori culturali e di valore.

Il Covid-19 sta sovvertendo il campo della prevenzione e dei fattori sociali e individuali implicati nella salute mentale per come erano stati concepiti finora, con la compressione di diritti e libertà, per andare al rimodellamento dei comportamenti e degli stessi stili di vita attraverso i limiti imposti alla relazione umana e alla comunicazione interpersonale e sociale.

La resistenza a tali forme di omologazione alla Norma era già stata chiaramente espressa dai movimenti per la recovery e delle persone con disabilità, e da tutti i limiti dell’azione che, richiamandosi ai determinanti sociali di salute, e denunciando la disuguaglianza, ha inteso spostare il dibattito a livello di politiche globali di sviluppo umano, che travalicano i limiti stessi delle politiche e degli interventi sanitari e della medicina.

Da questa situazione si potrà venir fuori soprattutto in maniera collettiva, accettando il dato sociale di una condivisione di una sofferenza nuova, la quale, pur essendo diffusa, impatta comunque in maniera differente a seconda delle condizioni sociali. Da queste disuguaglianze si dovrà dunque partire. Tra le azioni da intraprendere da parte degli Stati è raccomandato dallo Special Rapporteur dell’ONU sul diritto alla salute: (65)

-Adottare misure immediate per sviluppare una strategia intersettoriale per la promozione della salute mentale che includa una revisione delle politiche pubbliche in vista di riforme sociali, lavorative ed economiche che prevengano la disuguaglianza, la discriminazione e la violenza in tutti i contesti, promuovendo la non relazioni violente e rispettose tra membri di società e comunità e accrescere la fiducia reciproca tra autorità e società civile;
-Sviluppare strategie e politiche olistiche per il benessere della società e aumentare le risorse sostenibili per interventi che rafforzano i fattori protettivi, sfruttando la resilienza delle persone e delle comunità per tutta la vita e in tutti gli ambienti: la casa, le scuole, i luoghi di lavoro e la comunità in generale.

Una nuova promozione della salute parte allora proprio dagli stili di vita perturbati e profondamente alterati da questa contingenza eccezionale. La nuova sfida è fatta da quel corpo organico e insieme da quel corpo sociale, intrinsecamente legati, come scrivevano Franca e Franco Basaglia, e dalla riscoperta e dall’invenzione dei modi per tenerle assieme, in un rapporto, salute e malattia, superandone la dicotomia.

Ora che lo stile di vita, dalle prescrizioni “salutari” mediate e interpretate dall’individuo, è stato violentemente curvato e omologato su vasta scala dalle ragioni di salute pubblica, la via d’uscita non potrà che essere un esercizio collettivo, di partecipazione tesa ad un obiettivo di benessere comune, ad un diritto alla salute non di individui isolati ma di comunità, che trasformi le condizioni societarie che la determinano. Sperabilmente.


Note

(nota 1) Tra le moltissime voci che si sono levate da diversi anni a questa parte per denunciare questi rischi, Nicholas Rose ha parlato dei “Sé neurochimici”, di una manipolazione costante attraverso gli psicofarmaci delle soggettività delle persone, e della necessità di una neuroetica. Krass, in Listening to Prozac, ha sostenuto il grave rischio di una felicità ottenuta tramite lo psicofarmaco: ma le promesse, come ha dimostrato Rose, non corrispondono alla realtà che è quella di un faticoso lavoro personale di ricostruzione del Sé, di auto narrazione e di senso. Uguali preoccupazioni derivano dal mondo delle disabilità conclamate, come citato nei lavori di Robert Whitaker (2013), il cui aumento su scala planetaria arriverebbe addirittura a configurarsi come epidemico, parallelo e co-determinato dall’aumento del consumo degli psicofarmaci – di cui qui non ci occuperemo.

(nota 2) Per approfondimenti, si raccomanda la completa e accurata analisi sul tema nel libro di Saraceno, cit. (43)

(nota 3) La povertà, le avversità infantili e la violenza sono emerse come fattori di rischio chiave per l'insorgenza e la persistenza di disturbi mentali che, a loro volta, sono stati associati alla perdita di reddito a causa del basso livello di istruzione e della riduzione delle opportunità di lavoro e della produttività (Lancet Commission, cit. (16)

(nota 4) “I Ministri della Sanità degli Stati membri della Regione europea dell’OMS riconoscono che la salute mentale ed il benessere mentale sono fondamentali per la qualità della vita e la produttività degli individui, delle famiglie, delle comunità e delle nazioni, e conferiscono un senso alla nostra esistenza permettendoci d’essere dei cittadini creativi e attivi. Credono che l’obiettivo essenziale delle azioni realizzate nel campo della salute mentale è migliorare il benessere ed il funzionamento delle persone, mettendo in evidenza i loro punti forti e le loro risorse, accrescendo la loro resilienza e stimolando i fattori esterni di protezione …riconoscono il ruolo importante della promozione della salute mentale e del legame pregiudiziale esistente tra i problemi di salute mentale e l’emarginazione sociale, la disoccupazione, l’assenza di domicilio fisso ed i disturbi legati all’utilizzo d’alcool ed altre sostanze... Essendo la salute mentale una componente centrale del capitale umano, sociale ed economico delle nazioni, questa deve quindi essere considerata come parte integrante ed essenziale di altri campi della politica pubblica, quali i diritti dell’uomo, l’assistenza sociale, l’educazione e l’occupazione.”

(nota 5) Vengono qui enumerate le principali strategie di promozione e prevenzione dei disturbi mentali: leggi antidiscriminatorie e le campagne di informazione contro la stigmatizzazione e le violazioni dei diritti umani troppo spesso associate ai disturbi mentali; la promozione dei diritti delle persone con disturbi mentali, delle loro opportunità e delle cure a loro destinate; lo sviluppo delle qualità intrinseche di ciascun individuo durante il periodo dell’apprendimento (programmi per la prima infanzia, acquisizione del saper fare pratico, educazione sessuale o altri programmi volti a favorire la creazione di relazioni sicure e rassicuranti, stabili e stimolanti tra i bambini, i loro genitori e i carer); un’azione precoce attraverso lo screening, la prevenzione ed il trattamento di problemi emozionali o comportamentali, soprattutto nei bambini e negli adolescenti; condizioni di vita e di lavoro sane (una migliore organizzazione del lavoro oppure sistemi di gestione dello stress evidence-based sia nel settore pubblico che in quello privato); programmi di protezione o reti di protezione comunitarie per combattere gli abusi sui minori ed altre violenze a livello domestico o della comunità e protezione sociale per i più poveri.

(nota 6) La salute mentale in tutte le politiche (MHiAP) è definite come un approccio per promuovere la salute mentale e il benessere della popolazione avviando e facilitando l'azione in diversi settori di politica pubblica non sanitaria. MHiAP sottolinea gli impatti delle politiche pubbliche sui determinanti della salute mentale, si impegna a ridurre le disuguaglianze di salute mentale, mira a evidenziare le opportunità offerte dalla salute mentale in diversi settori politici e rafforza la responsabilità dei responsabili politici per l'impatto sulla salute mentale. L'approccio MHiAP può essere applicato a tutti i livelli amministrativi, che vanno dalle autorità locali a livello dell'UE.

(nota 7) Si sostiene che é necessario un migliore coinvolgimento del pubblico nello sviluppo, nell'attuazione e nel monitoraggio della salute mentale in tutte le politiche al fine di innescare azioni di governance e aumentare la trasparenza. Ad esempio, ciò potrebbe significare istituire forum politici locali e / o nazionali con più parti interessate per avviare e sviluppare politiche di salute mentale e come garantire un'adeguata attuazione e copertura della promozione della salute mentale su iniziative sia a livello locale che nazionale. (Mental health in all policies, cit. (36))

(nota 8) Il LSP indaga sul comportamento sociale, ma anche sulla dieta, l’attività fisica, gli interessi e gli hobbies, la frequentazione di luoghi di culto e in genere della comunità.

(nota 9) La qualità della vita è intrinsicamente un attributo del paziente... percepita da ogni paziente individualmente... (gli strumenti esaminati) misurano in realtà vari aspetti dello stato di salute... La necessità di incorporare i valori o le preferenze dei pazienti è ciò che distingue uno strumento che valuta la qualità della vita da tutte le altre misure di salute (Gill & Feinstein, 1994, cit. in De Girolamo et al., Centro Italiano Collaborativo Progetto WHOQOL, La valutazione della qualità della vita: validazione del WHOQoL-breve, 1994).

(nota 10) Lo strumento ICF valuta il grado di limitazione delle attività e delle capacità di una persona nella realizzazione di compiti, o quello che gli impedisce di realizzare quelle funzioni/aspettative di ruolo rispetto a quello che avrebbe se fosse in piena salute. Se l'attività è definita come l'esecuzione di un compito o di un'azione da parte di un individuo, la partecipazione è il coinvolgimento in una situazione di vita. I fattori ambientali costituiscono gli atteggiamenti, l'ambiente fisico e sociale in cui le persone vivono e conducono la loro esistenza, e sono concepito come facilitatori o barriere; e si tiene conto del background etnico e sociale, dell’età, del genere, dello stato di occupazione e delle aspettative di vita.

(nota 11) Queste linee guida sono principalmente destinate all'uso da parte degli operatori sanitari, dalle cure primarie a quelle specialistiche, ai responsabili politici e agli amministratori sanitari a livello locale e nazionale, ai responsabili dei servizi di salute mentale e alle persone che vivono con gravi disturbi mentali e alle loro famiglie. Esse raccomandano che i programmi per migliorare la salute delle persone con gravi disturbi mentali e aumentarne la durata della vita includano interventi individuali di assistenza sanitaria, adeguamenti dei sistemi sanitari e azioni che possono essere intraprese a livello di comunità. (47)


Bibliografia

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