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Disturbi di personalità e trattamento psicoterapeutico

Autore


Riassunto

Sono descritti alcuni meccanismi difensivi dei pazienti con Disturbi di Personalità, in particolare Borderline e Narcisistici, sottolineando con Kernberg la difficoltà a gestire l’aggressività nelle organizzazioni borderline, che spesso ci costringono a modificare la tecnica del modello di base, introducendo parametri temporanei (Eissler).
Le tecniche espressive sono distinte da quelle supportive secondo vari gradi di modulazione (Rockland), nonostante alcuni autorevoli psicoanalisti sostengano la stessa efficacia (Wallerstein).
Sono evidenziate, inoltre, le principali teorie psicoanalitiche nel trattamento della patologia del carattere che, in questi ultimi tempi, si sta spostando dalla centralità del setting alla centralità della relazione (Correale), ampliandone le esperienze della quotidianità, pur lasciando spazio all’elaborazione emotiva e fantasmatica. È quanto sta accadendo in alcune residenze a gestione psichiatrica dove, in accordo con Racamier, si assiste alla presenza di due terapeuti con funzioni ben distinte: fantasmatiche e reali che permettono quell’integrazione fra individuale e gruppale, indispensabile per una corretta gestione della struttura.


Summary

Some personality disorders patients’ defense mechanism, Borderline and Narcisistic particulary, are described, in accord with Kernberg about the difficulty to manage the aggessivity in the borderline organizations, that often oblige us to modify the thecnique of the basic model, with the introduction of temporary parameters (Eissler).
The espressive thecniques are distinguished from the supportive ones, in order to some grades of modulation (Rockland), even if some influential psychoanalysts belive in the same efficacy (Wallerstein).
The principal psychoanalytical theories are evidenced in the treatment of the character‘s patology that, in these last years, is shifting from the centrality of the setting to the centrality of the relationschip (Correale), enlarging the experiences of the everyday and leaving the space to the emotional and phantasmatic elaboration. This is what’s happenig into some psychiatric residential facilities where, in accord to Racamier, we are in front of the presence of two therapeutics with well difference functions: phantasmatic and real, that permits the integration between individual and grouppal, necessary for a good management of the structure.


La psicoterapia dei disturbi di personalità, e in particolare quella dei borderline e dei disturbi narcisistici, che rappresentano frequenti disturbi del carattere di pertinenza della psicoanalisi e/o della psicoterapia psicodinamica in genere, è sempre stata fonte di discussione e di acerrime polemiche (Auchincloss, 2015) fin dai primi anni settanta, con la pubblicazione di “Narcisismo e analisi del sé” (Khout, 1971) e di ”Sindromi marginali e narcisismo patologico” (Kernberg, 1975).

Secondo Gabbard (2005), che concettualizza la dimensione caratteriale della personalità dei borderline per realizzare specifici pattern relazionali, questi pazienti cercano d’imporre all’analista un particolare modo di reagire e sentire. I loro tratti caratteriali giuocherebbero un ruolo fondamentale nella riattualizzazione di una relazione oggettuale interna, che rappresenterebbe l’esaudimento di una loro fantasia (Sandler, 1981). La chiave per comprendere le relazioni del paziente al di fuori del contesto analitico va, pertanto, rintracciata nell’osservazione di ciò che emerge nelle dimensioni transferali e controtransferali del processo analitico stesso.

Il modo con cui tali relazioni sono riattualizzate nel rapporto con il terapeuta è spesso descritto come un processo d’identificazione proiettiva. Secondo questo modello, i pazienti agirebbero utilizzando arcaici meccanismi difensivi, che esercitano una pressione interpersonale sull’analista affinché questi si conformi a ciò che il soggetto proietta su di lui. In altre parole, un paziente fa cenno all’analista di assumere il ruolo dell’abusante in risposta a quello di vittima da lui interpretato. Un soggetto che tratta l’analista con disprezzo, può attivare, per esempio, un sentimento controtrasferale di rabbia o di odio e indurre l’analista a fare commenti sarcastici o svalutanti su di lui, o diventare eccessivamente gentile ed empatico, impiegando una formazione reattiva per neutralizzare intensi sentimenti di rabbia o impulsi sadici.

È ciò che spesso sperimentiamo trovandoci di fronte a pazienti con gravi disturbi di personalità quali i borderline, che fanno di tutto per spingerci al passaggio all'azione o a un enactment. Personalmente ricordo una ragazza giovane e carina, dalla personalità gravemente disturbata, che dopo sole due sedute mi costrinse a dirle che: “....se ha tempo da perdere offendendomi per tutta la seduta….. io non sono disposto ad accettarlo e se vuole può pure andarsene via”.

Così fece, dopo aver informato il responsabile di allora sul mio comportamento. A mio discapito devo dire che anche tutti gli altri colleghi del servizio ai quali si era rivolta si comportarono nel mio stesso modo, non sapendo gestire la loro aggressività verso quella paziente interpretando precocemente e attivamente il transfert negativo che si stava sviluppando nella relazione.

In effetti, come ha sempre sostenuto Kernberg (1976, 2018), il principale conflitto psicologico dei borderline è rappresentato dalla gestione della rabbia e dell’aggressività, dovuta sia a fattori costituzionali, sia al predominio dell'aggressività sulla libido nelle prime esperienze del bambino. Secondo l'autore, il terapeuta deve, pertanto, vigilare fin dall'inizio sulla comparsa di un transfert negativo e interpretarlo precocemente, non appena si manifesta. La sua mancata interpretazione determinerebbe una diffusione “clandestina” del transfert negativo, con un conseguente accumulo di aggressività, che potrebbe causare la rottura dell'alleanza terapeutica o l'instaurazione di una relazione distaccata, di stallo. Kernberg (1984) riconosce, tuttavia, che il proprio approccio espressivo-interpretativo può anche essere modificato, perché i pazienti borderline si comportano in maniera impulsiva secondo prassi distruttive e autodistruttive e sono in grado - quando nel trattamento non sono introdotti parametri sufficienti - di porre sotto minaccia il trattamento o anche la loro situazione di vita.

Mi viene in mente quanto importante e fondamentale, ai fini di un’adeguata relazione terapeutica volta a facilitare la comunicazione paziente-analista, sia stata l'introduzione di un parametro di tecnica secondo la nozione fornitaci da Eissler (1956) cioè: “…la deviazione, sia quantitativa sia qualitativa, dalla tecnica del modello di base, ovvero da una tecnica che richiede l'interpretazione come strumento esclusivo”.

Per esempio, quando l'interpretazione è sostituita dal consiglio o dal comando, s’introduce un parametro temporaneo, che deve soddisfare tre condizioni (Tav.1):

  1. Deve essere introdotto soltanto quando la tecnica di base non è sufficiente.
  2. Non deve mai oltrepassare il minimo inevitabile.
  3. Va utilizzato soltanto quando porta, alla fine del trattamento, alla propria autoeliminazione.

Tav. 1
tav. 1

Si deve, tuttavia, precisare che ogni introduzione di un parametro comporta il rischio che sia temporaneamente eliminata una resistenza, senza che questa sia stata adeguatamente analizzata e grande è la tentazione di coprire, con la sua introduzione, l’incapacità di usare, in maniera appropriata, la tecnica interpretativa.

Quanti interventi, allo stato attuale, escludono questa tecnica specifica (Strackey, 1934) ma ciò nonostante sono considerati, comunque, a tutti gli effetti, parte della tecnica psicoanalitica.

A tal proposito Gunderson (1984) sostiene che sono varie le controindicazioni al lavoro interpretativo e in particolare (Tav.2):

  1. I pazienti che hanno subito esperienze traumatiche di perdita e separazione non tollerano un lavoro esplorativo, presumibilmente per la minaccia di perdita di una relazione terapeutica idealizzata.
  2. I pazienti distanti e paranoidi, anziché dipendenti e attaccati, tendono a leggere i commenti interpretativi come critici e accusatori.
  3. I pazienti con scarso controllo degli impulsi sono inclini all'acting out distruttivo e autodistruttivo, come reazione all’angoscia provocata dal lavoro interpretativo.
  4. I pazienti narcisisti, che vivono gli interventi non assertivi come minaccia al loro senso poco sviluppato di autostima, prendono le distanze o s’irritano.

Tav. 2
tav. 2

Al contrario, in alternativa ai trattamenti espressivi, si fanno sempre più presenti le tecniche supportive nelle quali l'attività del terapeuta-analista promuove il funzionamento adattativo del paziente all'interno e all'esterno dell'interazione terapeutica, rappresentando fonte di sostegno emotivo e modello di identificazione per il paziente. Il fattore curativo primario, in questo caso, è costituito dall'esperienza del paziente, simbolicamente contenuto e consolato dal terapeuta, esperienza che compenserebbe quelle deficitarie con le figure parentali durante le prime fasi dello sviluppo.

In questo tipo di relazione paziente-terapeuta è come se si realizzasse, per l'implicazione del ruolo e dell'azione del terapeuta, una sorta di esperienza emotiva correttiva, un concetto sviluppato da Alexander (1961) e molto criticato a suo tempo anche se, a mio avviso ingiustamente, mentre adesso è stato rivalutato da molti psicoanalisti.

Possiamo, comunque, affermare che la gran parte degli interventi, nella psicoterapia dei disturbi di personalità e soprattutto nei disturbi borderline, è rappresentata da complesse combinazioni d'azioni di sostegno ed esplorative che sono adattate, di volta in volta, ai singoli pazienti. Tali combinazioni di terapie sono state raffigurate da Rockland (1988) in cinque aree lungo un continuum di psicoterapie dinamiche, secondo una sequenza che va dalla terapia di sostegno, terapia di sostegno-esplorativa, terapia esplorativa-di sostegno, terapia esplorativa fino alla psicoanalisi, in percentuali diverse a seconda della prevalenza di una terapia (supportiva) sull'altra (esplorativa).(Tav.3)

Tav. 3
tav. 3

Dobbiamo, tuttavia, precisare che non sempre i risultati con una terapia esplorativa sono stati migliori di quelli con una terapia supportiva e, in accordo con Wallerstein e la sua ricerca presso la Fondazione Menninger pubblicata nel 1986 in un libro, ormai datato, ma molto conosciuto e citato dal titolo Forty-two lives in treatment, si può affermare che gli effetti di una psicoterapia di sostegno possono essere paragonati favorevolmente, quanto a profondità, stabilità nel corso del tempo e “cambiamento strutturale”, agli approcci espressivi.

In realtà, queste tecniche raggiungono spesso il tipo e il grado di cambiamento che si riteneva dipendesse da una risoluzione dei conflitti in termine d’espressione e d’insight. Wallerstein concluse il suo saggio affermando che, essendo stati raggiunti risultati maggiori con la psicoterapia, in particolare nella sua espressione di sostegno, la psicoanalisi, ritenuta la quintessenza del sistema terapeutico espressivo, si dimostrava più limitata, quanto a risultati raggiunti, di quello che si era predetto o previsto per questi pazienti.

In riferimento alla Psicoanalisi, sappiamo molto bene che oggi non è più possibile parlare di lei al singolare, tanto che lo stesso Wallertstein, in qualità di Presidente dell’IPA, in un suo famoso discorso in occasione dell’apertura del Congresso di Roma del 1989 parlava, già allora, di: “Una o molte Psicoanalisi”, per sottolineare il concetto che anche questa disciplina non può più essere considerata una struttura monolitica come ai tempi di Freud ma, a rischio della sua stessa sopravvivenza, deve essere accettata la possibilità che, allo stato attuale, al suo interno possano convivere più “scuole”. L'autore intendeva con ciò la possibilità di una coesistenza, nella stessa chiesa, di molte dottrine: da quella americana della Psicologia dell’Io, alla scuola kleiniana, bioniana, quella inglese delle Relazioni d’Oggetto, talora avvicinata alla scuola winnicottiana, e la scuola lacaniana, fino alla recente diffusione in America della Psicologia del Sé di Kout, come principale modello teorico alternativo alla Psicologia dell’Io di Hartmann e di Rapaport. Per concludere, aggiungerei anche la Psicoanalisi Relazionale, quella Intersoggettiva, la teoria del “Linguaggio dell’Azione” di Schafer e la prospettiva ermeneutica di Gadamer, Habermas e Ricoeur, prevalentemente diffusa in Germania e in Francia. Per inciso, Wallerstein tenne a precisare che gran parte di queste teorie, pur convivendo all'interno dell'IPA, sono molto più dissimili fra loro di quelle che spinsero Jung e Adler, fra il 1910 e il 1913, ad allontanarsi dal movimento psicoanalitico.

Per quanto attiene agli interventi di psicoterapia psicoanalitica nei disturbi di personalità e, in particolare, nei borderline o meglio, per usare la terminologia di Kermberg, nelle Organizzazioni Borderline di Personalità (diap.4), come per Wallerstein esistono “Una o molte psicoanalisi”, si contano più teorie sullo sviluppo psicologico a sostegno di uno specifico trattamento della patologia del carattere. Le principali si riferiscono a quattro modelli teorici rappresentati, in ordine cronologico, dalla: (Tav.4)

  1. Psicologia dell’Io. Diretta discendente del modello strutturale freudiano (Es, Io, Super io), che è molto sviluppata in America. (Hartmann, Kris e Lowenstein, Rapaport).
  2. Teoria delle Relazioni Oggettuali (Kermberg). Le rappresentazioni relazionali interiorizzate sono qui descritte in termini di diadi di relazioni oggettuali, e ogni diade è composta dalla rappresentazione di una particolare esperienza affettiva del sé in relazione ad una specifica rappresentazione dell’altro. Si passerebbe, in questo caso, secondo Gill (1994), da una psicologia “monopersonale” a una psicologia “bipersonale”, dove l’elemento terapeutico fondamentale è caratterizzato dalla relazione con l’altro, inteso come coppia terapeutica. Caratteristica della personalità di questi individui, che usano come meccanismi difensivi la scissione, la dissociazione e l’identificazione proiettiva, è la rappresentazione superficiale di sé e dell’altro, con un basso grado d’integrazione e di complessità, che Kernberg definisce con il termine di “Diffusione d’Identità”. Con questo concetto l’autore intende evidenziare nel borderline la presenza di valori, abitudini, atteggiamenti, dominati da chiunque stia con loro fino al punto di percepirsi senza alcuna identità. L’autore pone molta enfasi sull’importanza, nella sua PFT (Psicoterapia Focalizzata sul Transfert), di trattare il transfert negativo, soprattutto nella fase iniziale del trattamento, per elicitare i sentimenti di rabbia e d’ostilità, convinto che un’interpretazione precoce del transfert negativo possa creare un’alleanza più salda con il paziente (Clarkin J.F. et al.,1999). Con tale gesto, gli comunicherebbe che il terapeuta è in grado di accogliere e di tollerare l’espressione dei suoi stati affettivi interni più difficoltosi.
  3. Psicologia del Sé (Kohut) Viene sostenuta l’importanza di una mancata formazione nel primo sviluppo di un sé nucleare per un’incapacità dell’ambiente oggetto-sé di dare quelle risposte empatiche, che avrebbero consentito l’organizzazione del mondo del bambino e sostenuto la sua innata fiducia in se stesso. Si assisterebbe, pertanto, in patologie narcisistiche o borderline, a un’identificazione con oggetti-sé immaturi, che determinerebbe un deficit strutturale della loro personalità, con evidenti ripercussioni sul loro carattere. Il ruolo del terapeuta è favorire il bisogno del paziente di ricevere risposte oggetto-sé mature, che lo conducano allo sviluppo di un senso di sé più adeguato. Kohut (1984) pone l’accento sull’importanza terapeutica dell’Empatia o “Introspezione Vicariante” descritta come: ” il tentativo di sperimentare, da parte di una persona, la vita interiore di un’altra, pur conservando, nello stesso tempo, la posizione di osservatore imparziale”, promuovendo lo sviluppo di un transfert di oggetto-sé. Ciò avviene attraverso due principali processi transferali: il transfert speculare e il transfert idealizzante.
  4. Teoria dell’attaccamento (Bolwby e Fonagy) Viene messo in evidenza la centralità del legame affettivo, che si sviluppa nelle relazioni interpersonali intime, cercando di aiutare il paziente a passare da uno stile di attaccamento “disorganizzato”, dove gli stati affettivi sono più mutevoli e imprevedibili, a uno stile di attaccamento più “sicuro”, nel quale l’affettività è meno incostante e più stabile. Molto importante è stato l’apporto fornito da Fonagy (2001), soprattutto per quanto attiene al concetto di “Funzione Riflessiva” o “Mentalizzazione” ossia la capacità di pensare ai propri stati mentali e a quelli degli altri che, in questi soggetti, a causa di traumi infantili, sarebbe inibita a scopo difensivo (Allen e Fonagy, 2006).

Tav. 4
tav. 4

Mi preme, inoltre, chiarire come, nel trattamento della patologia dei borderline e dei pazienti gravi (Correale,1997), si stia assistendo, in questi ultimi anni, a uno spostamento d’accento dal rapporto individuale a quello inserito in un continuum di interventi. Si realizzerebbe, in tal modo, uno spostamento dalla centralità del setting alla centralità della relazione. Sembra, infatti, che il paziente grave si giovi notevolmente di un rapporto duttile e modulato, che gli testimoni l’adattabilità della relazione ai suoi specifici bisogni, piuttosto che il contrario. Ciò non significa un superamento indiscriminato del setting, ma piuttosto una sua costante rilettura e riadattamento all’interno della relazione. In effetti, non ci dobbiamo scordare le parole di Searles (1986) sul corretto assetto d’assumere di fronte a questi pazienti quando afferma che: “l’analista deve possedere, o per quanto possibile deve formarsi, una identità professionale che non sia alleata delle forze della rimozione ma piuttosto faciliti l’emergere della rimozione di quei sentimenti, fantasie o altro che il paziente borderline ha bisogno che il suo analista possa sperimentare, per diventare egli stesso capace, anche identificandosi con lui, di integrare esperienze analoghe nel funzionamento del proprio io.”

Altrettanta importanza acquistano le esperienze di quotidianità intendendo con ciò, secondo Correale (1997), la doppia possibilità di fare da un lato esperienza diretta in situazioni controllate di intere sequenze di vita condivisa, dall’altro di usufruire di spazi per la rielaborazione emotiva e fantasmatica delle esperienze stesse. Mi riferisco, per esempio, anche ai buoni successi che stiamo riscontrando nei pazienti delle nostre strutture intermedie, che vanno letti non soltanto come riacquisizione delle funzioni perdute, ma anche come momenti di sperimentazione d’una quotidianità individuale e gruppale, che permette loro una serie di esperienze affettive, oltre che cognitive, delle quali hanno profondamente bisogno.

Si può dire, rileggendo Racamier (1972), che attraverso questi due aspetti della relazione (individuale e gruppale), che talvolta possono coinvolgere altrettanti terapeuti, si mette in atto un tentativo per salvaguardare la neutralità presunta dello psicoterapeuta a scapito di quella dello psichiatra, responsabile dell’organizzazione della vita del paziente, del suo ambiente familiare, sociale e talvolta anche ospedaliero: in definitiva, di tutto ciò che concerne la realtà concreta della sua esistenza. Si può, dunque, affermare che, in questi casi, in accordo con Racamier, un terapeuta lavora nel fantasmatico e l’altro nel reale.

Talvolta, in effetti, è quello che avviene nelle nostre residenze, dove il medico responsabile della struttura è, solitamente, diverso da quello di riferimento del paziente, soprattutto nelle sue funzioni terapeutiche che, in gran parte, si avvicinano molto a quelle descritte nel 1972 da Racamier.

Vorrei terminare citando una frase, che mi ha particolarmente colpito, che riassume quello che intendo dovrebbe essere l’operare di un buon terapeuta, che si avvicina a questi casi così difficili da trattare. L’ho letta in un libro di Margaret Little (1986) dal titolo “Verso l’unità fondamentale”. La Little è una psicoanalista britannica del cosiddetto Gruppo Indipendente, la cui posizione le permise di mantenersi equidistante dal gruppo dei seguaci d’Anna Freud e da quello di Melanie Klein e quindi poter attingere creativamente a entrambi i modelli teorici. L’autrice, riferendosi alla possibilità di ottenere dei successi nel trattamento di questi pazienti, ci ricorda che: “Il successo deriva dalla nostra onestà o ipocrisia fondamentali, dall’integrità o dalla mancanza d’integrità. Dobbiamo ammettere le limitazioni delle nostre conoscenze, della nostra abilità e del nostro insight. È possibile che ci troviamo a dover agire secondo il principio dell’equilibrio-tra-bene-e-male; possiamo usare quello che abbiamo in mancanza di meglio. Oppure possiamo usare quello che abbiamo perché è degno di essere usato. Quello che abbiamo è ciò che si trova in noi e nei nostri pazienti: corpo, sensazioni ed emozioni; movimenti e azioni; parole, idee, pensieri, intelligenza e immaginazione. Ed è veramente molto”.

Queste parole mi ricordano Ferenczi quando sosteneva, con il concetto d’ipocrisia professionale, che il terapeuta deve essere sincero non solo con se stesso, ma anche con il paziente, soprattutto in relazione ai suoi sentimenti e ai suoi possibili errori, che devono essere considerati non soltanto come una possibilità ma anche come una realtà perché: ”…L’ammissione di un errore da parte dell’analista vale all’analista la fiducia del paziente (1932)”.


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