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Territorio e mediazione:
prospettive partecipative in Salute Mentale di Comunità

Autori


Riassunto

L’articolo si propone di mettere in evidenza come il passaggio dall’Ospedale Psichiatrico al Territorio determinato dalla Riforma psichiatrica italiana, richieda un costante lavoro di rimessa in discussione delle forme e dei modi attraverso cui sono declinate operativamente le dimensioni del potere e del sapere all’interno del processo di cura. Vengono brevemente riassunte le modalità di redistribuzione del potere via via adottate nei Servizi territoriali di salute mentale, mentre maggiore attenzione è posta sulla necessità di ridiscutere le forme in produzione del sapere e di applicazione del sapere in salute mentale di comunità. Da questo punto di vista, diventa centrale il concetto e la pratica della mediazione.


Abstract

The Italian Psychiatric Reform produced the transfer from Psychiatric Hospitals to the Territory as milieu of the care pathways. This transfer requires a consistent process of questioning of forms and ways in which the dimensions of power and knowledge are declined. In this article, the forms of redistribution of power adopted by Community Mental Health Services are summarised. Instead much more attention is paid to the necessity of calling in to question the forms of production and application of knowledge in Community Mental Health. From this point of view the concept and practice of Mediation become central.


1. Premessa

La Riforma psichiatrica italiana ha determinato la chiusura degli Ospedali psichiatrici e l’apertura dei servizi di salute mentale territoriali. Questo transito fisico e organizzativo presuppone a monte e richiede a valle una diversa declinazione delle dimensioni di potere e di sapere fondanti le discipline interessate (psichiatria e psicologia innanzitutto) (1,2).

Agire nel e col territorio, promuovere la partecipazione degli utenti, dei familiari, delle comunità e delle altre forme di organizzazione sociale e collettiva richiede agli operatori dei servizi pubblici di elaborare un diverso rapporto con il potere e con il sapere relativi alla psicopatologia e alla salute mentale. Gli Ospedali psichiatrici hanno infatti rappresentato una specifica forma di declinazione del potere e del sapere sul malato e sulla malattia e chiuderli ha comportato non solo l’individuazione di nuovi spazi fisici della cura. È stato necessario, e in ogni momento occorre, individuare modalità democratiche e partecipative di relazione fra i diversi attori del processo di cura. Si rivela come sempre più necessaria anche l’individuazione di modalità democratiche e partecipative di produzione e di applicazione dei diversi saperi, delle diverse conoscenze e delle diverse intenzionalità a cui questi stessi attori si rifanno o che comunque esprimono.


2. Promozione della partecipazione attraverso la ridistribuzione del potere

A partire dall’istituzione dei Dipartimenti di Salute Mentale, la dimensione del potere in salute mentale è stata declinata in diverse forme discendenti dalla Riforma psichiatrica, coerenti con essa o rappresentanti di sue possibili attualizzazioni ed evoluzioni:


3. Partecipazione alla produzione e all’applicazione del sapere

Meno frequentati, o ancora scarsamente tracciati, almeno in Italia, sono i percorsi di ricerca e di azione che si sono misurati con l’individuazione di nuove forme di declinazione della dimensione del sapere in salute mentale, discendenti o coerenti con la Riforma psichiatrica italiana. L’Ospedale psichiatrico ha istituito una delle modalità di riproposizione del rapporto di conoscenza fra soggetto e oggetto (clinico e paziente). Il paziente viene considerato isolatamente e diventa oggetto dell’osservazione scientifica operata da un soggetto epistemico chiamato a definire i contorni della malattia, a individuarne le cause e a determinarne le modalità di terapia. Questa stessa modalità di conoscenza trovava parallelamente altre forme di attuazione già nel nascente setting psicoanalitico (11). Ancora oggi, la medesima configurazione del rapporto di conoscenza si ritrova nei laboratori di ricerca neuroscientifici, così come nella stragrande maggioranza dei metodi psicoterapeutici (benché alcune impostazioni allarghino il proprio sguardo ai sistemi familiari). Questo rapporto di conoscenza produce il sapere che legittima la dimensione del potere nelle relazioni di cura. Da esso deriva e in esso viene riproposto un argomento di autorità concernente, in prima istanza, la natura della malattia e a seguire i modi di curarla e la verifica dei risultati. In questo modo vengono distribuiti i ruoli e il grado di attività/passività di ciascun attore.

La partecipazione degli utenti, dei familiari e dei gruppi sociali nel loro insieme alle azioni di cura e di promozione della salute mentale richiede di intervenire non solo sulle forme e sulle modalità di distribuzione del potere, ma anche su quelle della produzione e dell’applicazione del sapere. Questo secondo aspetto è in parte presente nelle forme di ridistribuzione del potere più sopra indicate, in particolare nell’inclusione di utenti e familiari nei processi di valutazione degli interventi di cura, nelle forme di auto e mutuo-aiuto o nelle esperienze che ricorrono all’expertise degli utenti e dei familiari. Si tratta tuttavia di una presenza spesso implicita, che occorre approfondire al fine di mettere in evidenza alcuni temi che altrimenti rimarrebbero inevasi. Si perderebbe l’importanza e la necessità di promuovere e sviluppare alcune azioni nel campo della salute mentale di comunità. Infatti, i processi di valutazione – soprattutto dell’erogazione pubblica dei servizi – si concentrano molto di più sulle modalità organizzative e sulla qualità dell’erogazione delle prestazioni, fino alle attitudini individuali degli operatori, mentre minore attenzione è posta su ciò che viene erogato, sui suoi assunti e sulle sue implicazioni e, soprattutto, sull’acquisizione di una nuova postura degli utenti e dei loro gruppi sociali di riferimento rispetto ai saperi psichiatrici, psicologici e psicoterapeutici.

Sono due i fenomeni sociali che hanno chiamato in causa la necessità di una critica e di una rimessa in discussione della struttura e dei meccanismi di produzione del sapere in salute mentale. Il primo è rappresentato dalle associazioni di utenti organizzati intorno a una specifica patologia. In questa forma collettiva, in alcuni casi, gli utenti hanno iniziato ad interrogare i rispettivi esperti. Non si tratta del consueto processo di verifica di efficacia di un certo strumento terapeutico (farmaco, psicoterapia a orientamento teorico definito, ecc.), secondo i criteri di scientificità ritenuti opportuni (valutazione tramite rating scale del gruppo sperimentale e di controllo, ecc.). In questo tipo di proposta l’elemento caratterizzante è costituito dalla capacità di simili soggetti collettivi di interrogare esperti, ricercatori e i clinici, rispetto alle loro teorie di riferimento, alle tecniche che ne discendono e ai risultati ottenuti. Il soggetto del classico rapporto di conoscenza in ambito scientifico è chiamato non solo a condividere ciò che ha osservato con i suoi pari (la comunità scientifica e professionale nel suo complesso), ma ad esplicitare con i diretti interessati – e latamente con la società nel suo complesso – le intenzionalità che lo guidano, gli impliciti contenuti nelle sue azioni e che riguardano le concezioni di persona veicolate e i connessi problemi di salute mentale. Si realizza un passo ulteriore verso la pubblicità e la democraticità del lavoro in salute mentale, poiché si misura la pertinenza del sapere per i suoi stessi destinatari e per la società nel suo complesso (12, 13, 14, 15). Il secondo fenomeno sociale che chiama in causa il problema della produzione del sapere in salute mentale è legato ai flussi migratori internazionali e all’incontro fra culture che essi realizzano. Questo incontro fra culture è anche un incontro e un confronto fra teorie del male e della malattia e fra sistemi terapeutici. La clinica transculturale mette costantemente in evidenza il conflitto che si produce fra le teorie della malattia, della cura e della guarigione dell’operatore e quelle di cui è vettore ed a cui si riferisce il migrante. Questi conflitti sono essenzialmente di natura teorica, prima ancora e più ancora che interpersonale: non sono infatti le disposizioni o le attitudini personali e soggettive del migrante a determinarli, ma le produzioni culturali (teoriche, appunto) di collettivi umani (14, 16).

Entrambi i fenomeni sociali – le intenzionalità collettive espresse da un certo modo di fare associazionismo degli utenti e le produzioni culturali delle collettività originarie dei gruppi migranti (teorie e tecniche della malattia e della cura) – mettono in evidenza un problema generale relativo alla produzione del sapere in salute mentale e a come questo sapere è riprodotto nelle relazioni di cura. Mettono in evidenza come il tema della partecipazione degli utenti e dei loro gruppi sociali di riferimento debba riguardare anche la produzione e l’applicazione del sapere delle discipline coinvolte e implicate nella cura dei problemi di salute mentale (14, 17, 15).

Promuovere la partecipazione degli utenti e dei loro gruppi sociali di riferimento significa, da questo punto di vista, allestire contesti e metodologie operative attraverso cui i saperi della salute mentale si confrontano, si comparano, e anche vengono sottoposti ad un lavoro di mediazione, con le intenzionalità di collettivi sociali interessati a interrogare quei saperi e con i saperi sulla malattia e sulla cura dei collettivi culturali. Rispetto alle popolazioni migranti, l’etnopsichiatria clinica ha mostrato il valore della mediazione etnoculturale condotta da un gruppo multidisciplinare a partire dalla lingua del paziente. Successivamente questo modello è stato ripreso e adattato all’intervento con altri gruppi sociali (vittime di sette, persone in condizioni di estrema marginalità, transgender, ecc.) (18, 19, 20).


4. Il lavoro di mediazione nella clinica e nel territorio

Queste diverse declinazioni delle dimensioni di potere e sapere che attraversano il disturbo psichico, dispongono complessivamente un quadro diverso della cura in salute mentale. Al centro della scena non c’è più una battaglia fra un soggetto terapeutico (oltre che epistemico) monodisciplinare e un oggetto individualizzato e preso nella sua singolarità, finanche sottoposto ad un processo di riduzione teso ad estrarne la malattia. Una scena in cui il primo soggetto detiene un argomento di autorità sull’oggetto, oltre che dei dispositivi operatori per attualizzarlo (seppure con diversi gradi e forme di potere a seconda del dispositivo utilizzato, al cui vertice si trova appunto l’Ospedale psichiatrico). Il quadro, nei servizi di salute mentale, è composto da un soggetto collettivo (multiprofessionale e multidisciplinare, eventualmente multiculturale e multilinguistico) che dialoga con un altro soggetto collettivo: il sistema utente composto dal paziente, dai suoi familiari e dai suoi gruppi sociali di riferimento. La cura – nella globalità dell’azione dei servizi – diventa il luogo/momento di una mediazione fra il sapere/potere scientifico e il sistema utente: il paziente inserito in una trama relazionale, sociale e istituzionale assai articolata e complessa in cui si riconoscono altre figure umane (familiari, parenti, amici...), organizzazioni (gruppi di auto-aiuto, associazioni di familiari, associazioni e cooperative di servizi…), istituzioni (Enti locali, Magistratura, Prefetture e forze dell’ordine...). Di questa trama fanno parte anche elementi astratti: saperi e conoscenze depositate nei singoli e nei gruppi, per quanto marginali e assoggettati. Si tratta di saperi e conoscenze che possono presentarsi in forma astratta, oppure che sono incorporati più o meno inconsapevolmente in modi di fare e pratiche sociali. Nel loro complesso questi saperi e conoscenze costituiscono la dimensione culturale dell’agire individuale e sociale. In questo senso, i Servizi possono trarre notevole giovamento dal ricorso ad una modalità etnografica nel relazionarsi: alle singole persone, alla loro specifica agentività e alla loro capacità riflessiva da cui può derivare una competenza esperta sulla sofferenza propria e altrui; ai gruppi di persone che possono associarsi per condividere questa expertise e rifletterla collettivamente, come pure per interrogare i saperi scientifici e tecnici di ricercatori e clinici; ai saperi sulla malattia e sulla cura che i collettivi umani hanno elaborato e che riproducono nel loro agire sociale.

In altre parole, gli operatori della salute mentale si ritrovano in qualche misura ad essere il luogo di contatto e di mediazione fra scienza e società, anche quando il malato è incontrato nella sua singolarità. Tale singolarità è del tutto apparente, perché in ogni momento (prima, durante e dopo l’incontro clinico) rinvia a, ed è in connessione con, le dimensioni ambientali, relazionali, sociali e culturali dell’esistenza.

La mediazione è operata nei due sensi. Il primo è quello che va dalla scienza alla società: agli operatori il problema di mostrare la pertinenza di una scoperta per il malato (e per tutti coloro che hanno una relazione significativa con lui). Il problema della pertinenza della scoperta scientifica per il malato e la società, il fatto che la scoperta è o potrebbe essere interessante per l’uno e per l’altra, riguarda sia le scienze dure (es., la pertinenza di un nuovo farmaco) ma anche per quelle più “morbide” (si pensi ai modi in cui le varie teorie e tecniche psicoterapeutiche o riabilitative cercano di diventare interessanti e quanto tempo impiegano). Questo compito è reso più complicato dal fatto che i metodi di verifica dell’efficacia di uno psicofarmaco, di una tecnica terapeutica o anche riabilitativa, così come i risultati di queste verifiche, non sono mai in grado di mettere d’accordo tutti gli esperti (scienziati, ricercatori e clinici). L’efficacia sempre relativa di ogni tecnica o strumento di intervento (non sempre molto superiore al placebo) fa sì che il rapporto fra scienza e clinico si colori di aspetti “teorici” relativi alla visione della malattia di quest’ultimo, alle sue idee sulla cura e su ciò che è o dovrebbe essere una persona o una psiche in salute. In altri termini, non si è ancora eliminata (e non è detto che sia eliminabile) una quota di “credenza”, o se si vuole di ideologia, dal lato del clinico. Il secondo senso in cui opera la mediazione cerca di permettere un flusso inverso che dalla società torna alla scienza. Un qualunque argomento di autorità deriva ed è incorporato nel contesto attrezzato per dispiegarne la verità, permettere l’apparizione della malattia ed eventualmente cercare di curarla; indipendentemente dal fatto che questo contesto sia costituito da un laboratorio, da un ambulatorio psichiatrico, da un setting psicoterapeutico o da un luogo riabilitativo. Il contesto tecnico creato per permettere il dispiegarsi dell’argomento di autorità implica sempre un processo di semplificazione: cioè di riduzione delle variabili da considerare. Questa semplificazione, innanzitutto, produce un resto: un qualcosa che rimane fuori dagli elementi presi in considerazione dall’argomento di autorità e dal suo contesto di attuazione e che può fare problema in un qualche momento del percorso di cura. Questo far problema al limite si presenta come non adesione alla cura da parte della persona. Questo resto, in secondo luogo, è costituito da forze (ascrivibili post hoc alla biologia, alla psicologia, alla sociologia, all’antropologia, alla storia o alla politica) che non solo si traducono in negativo in resistenze alla scienza e ai suoi metodi; ma che si possono anche manifestare in positivo come attori in cerca di un ascolto (è il caso ad esempio delle associazioni di utenti e familiari) oppure come concezioni della malattia e della cura che attivano ricorsi ad altre terapeutiche, sia in modo alternativo sia in modo parallelo. Tutto ciò è ancora più vero nel territorio attuale dei Servizi di salute mentale, in cui si registra una moltiplicazione dell’eterogeneità culturale: all’eterogeneità culturale “endogena” ed autoctona, per così dire, si somma quella “esogena” portata dai flussi migratori internazionali.

La mediazione comporta la presa in considerazione del resto che il sapere scientifico aveva escluso intenzionalmente o che comunque non aveva preso in considerazione inizialmente. Questa presa in considerazione mira a confrontarsi in modo nuovo rispetto ai fenomeni prodotti “in negativo” da quel resto (es., recalcitranza degli utenti e non adesione ai percorsi di cura), ma ambisce soprattutto a determinare “in positivo” nuovi modi di interazione con gli utenti e i loro gruppi sociali di riferimento, in modo che la loro “voce” possa emergere e determinare effetti rispetto ai percorsi di cura, così come rispetto all’applicazione del sapere insita in quei percorsi e alla produzione di conoscenza che ne deriva. La mediazione, intesa in questo modo, si propone dunque come ulteriore strumento di partecipazione degli utenti e dei loro gruppi sociali di riferimento in cerca di un riscatto materiale, sociale e culturale.

Nel momento in cui ciò si attua, i Servizi di salute mentale possono legittimamente rappresentare la voce dei loro utenti, ovvero possono unirsi legittimamente alla loro auto-rappresentazione presso altre istanze istituzionali o sociali, operando nel senso dell’advocacy e dell’empowerment. E questo diventa un ulteriore modo di agire dei Servizi nel e col Territorio.


Bibliografia

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