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CURARE A BABELE
Il dialogo clinico transculturale con i pazienti stranieri

Autori


Riassunto

Mai come prima d'ora nella storia umana, milioni di individui stanno fuggendo dalla fame e dai regimi repressivi o si stanno spostando alla ricerca di opportunità e vite migliori. Non occorre più attraversare il mondo per incontrare culture diverse dalla nostra. Esse raggiungono i luoghi in cui viviamo.

Maggiori sono le occasioni di incontro, maggiori sono anche le possibilità di scontro e malintesi. Persone di culture diverse percepiscono il mondo in modo differente e le loro lingue interpretano la realtà e classificano le esperienze difformemente.

Questo articolo si propone di analizzare l'impatto della barriera linguistica sulla resa dei servizi sanitari e di accrescere la consapevolezza sui problemi di comunicazione nelle relazioni di cura tra medici e pazienti appartenenti a culture diverse. Intende anche offrire alcune possibili soluzioni.


Summary

Never before in human history have millions of people escaping from hunger and repressive regimes, or seeking more opportunities and a better life somewhere else. Therefore, we do not need to fly across the globe to experience diverse other cultures. They come to us wherever we live.

Increased opportunity for encounters with people from other cultures has meant increased possibility to cultural misunderstandings and even serious conflicts. Indeed people from different cultures perceive the world differently and their languages have different ways of interpreting reality and of categorizing experience.

This article aims to analyze the impact of the language barrier on the effective rendering of healthcare services, and to raise awareness on miscommunication that may occur in healthcare settings between physicians and patients with different cultures. It also aims to provide possible solutions.


12 ottobre 1492

Partito alla ricerca di una rotta alternativa per le Indie, Cristoforo Colombo sbarca su un’isola del Nuovo mondo e ne incontra gli abitanti. Pur essendo poliglotta, non vuole credere che i Taino caraibici parlino una lingua umana. La loro vocalità inaudita e inintelligibile lo porta ad annotare sul diario di bordo:


«Io, a Nostro Signore piacendo, quando mi partirò da qui, porterò con me 6 di questi uomini che condurrò alle Vostre Altezze affinché imparino a parlare» (1, p. 32).


Soltanto qualche tempo dopo si convince che i nativi possiedono un proprio idioma. Tuttavia esso gli appare simile al canto degli uccelli e uguale in ogni contrada, così come identiche tra loro gli sembrano le diverse popolazioni incontrate:


«Questa gente [...] è della stessa sorta e costumi degli altri incontrati prima […] E anche la lingua è una sola […]» (1, p. 58).


Trascorrono altri giorni e il navigatore immagina che la comprensione reciproca con gli isolani stia migliorando sempre di più e lo metta finanche nella condizione di non lasciarsi ingannare dai loro racconti a proposito dei terrificanti Caniba, travisamento dell’etnonimo Caribo, con il quale essi avrebbero definito un popolo di antropofagi insediato su un altro lembo di terra dell’arcipelago. Convinto di trovarsi in Asia e per assonanza fonetica, l’Ammiraglio li identifica come i sudditi del Gran Can, Imperatore del Catai:


«[...] torno a dire […] che Caniba altro non è che la gente del Gran Can, la quale dev’essere assai prossima; ed egli deve possedere navi, con le quali i suoi uomini approdano qui per catturarli e, visto che non ne fanno ritorno, credono essere essi stati mangiati. Ogni giorno di più comprendiamo meglio questi indigeni ed essi noi […]» (1, p. 99).


Dalle annotazioni sui Caniba, divoratori di carne umana, si è originato in Occidente il termine rabbrividente di cannibale, spesso brandito per stigmatizzare una doppia condizione di presunta inferiorità antropologica, congenitamente trasmissibile per natura e cultura, riscontrabile in remote popolazioni straniere.


Malinteso culturale

Lo straordinario viaggio colombiano, con cui si compie il passaggio nell’era moderna dell’Occidente, si fonda su una serie di malintesi e genera una spirale di distorsioni valutative (antropologiche, religiose, scientifiche). L’idea con cui Colombo abbraccia il Nuovo Mondo e i suoi abitanti è la conseguenza di verità già apprese dai testi biblici e dai resoconti di Marco Polo.

I malintesi del navigatore italiano non sono attribuibili alla sola ignoranza della lingua, ovvero a un difetto di comunicazione. Se pure avesse avuto a disposizione un dizionario bilingue, sarebbe stato indotto comunque a male intendere. Davanti all’intero spettro dei significati messi a disposizione da una voce del lessico, avrebbe dovuto scegliere l’accezione più probabile e rilevante in quel contesto e in quel mondo. Avrebbe dovuto tener conto non solo di regole strettamente linguistiche, ma anche di elementi di un contesto storico e culturale a lui sconosciuti.

Le diverse lingue sezionano differentemente il continuum di quanto è esperibile e pensabile da un soggetto (2, 3). Affinché le differenze possano essere ricondotte a significati transitivi, comprensibili e validi nelle dimensioni linguistiche e culturali raffrontate, è necessario istituire una comparazione tra le lingue stesse. Tale comparazione avviene grazie alla traduzione di parole, frasi, discorsi nella forma e nella struttura espressiva di un secondo idioma. Ogni atto traduttivo consiste, essenzialmente, in un’operazione interpretativa che bilancia, lungo vari gradi di approssimazione, il significato da assegnare a un’espressione linguistica elementare o complessa. La traduzione aggiunge o sottrae significati possibili, plausibili, legittimi ed efficaci; non riproduce l’esatto equivalente di una lingua, ma fornisce il suo quasi equivalente (4, 5).

Analogamente, il malinteso è quel quasi niente, quel non-so-che inafferrabile e inestinguibile che da sempre affligge le relazioni umane, non soltanto tra estranei, ma anche tra simili, persino tra intimi o amici (6).

L’incomprensione, sempre in agguato, può amplificare una difficoltà comunicativa e convertirsi nell’impossibilità di “scoprire” l’altro, soprattutto se questo appartiene a una cultura diversa (7).

Tuttavia non bisogna essere intimiditi dal malinteso. Diffuso, persistente e inevitabile, può comunque assolvere una funzione sociale, istituendo un ordine provvisorio che, se non sostitutivo dell’intesa, è comunque preferibile al conflitto aperto (8). In tal senso è possibile costruire una tipologia specifica: si ha il doppio malinteso quando due persone si fraintendono a vicenda; c’è l’inganno se una fraintende, ma l’altra comprende che la prima non intende; nel malinteso beninteso la falsa vittima finge di equivocare; infine, nel malinteso doppiamente beninteso tutti capiscono l’equivoco ma preferiscono non rompere l’equilibrio generato dall’incomprensione.

Il primo tipo è quello che meglio si presta agli scopi del nostro discorso: la duplice inconsapevolezza del doppio malinteso immobilizza, infatti, gli interlocutori nello stallo di una pseudorelazione, la cui esperienza temporale si fissa nel presente o, addirittura, nell’istante, senza riuscire a evolvere in direzione del futuro. L’altro è immaginato talmente familiare o totalmente estraneo da poter essere agevolmente situato, alla perfezione, nella mappa delle proprie concezioni e aspettative. È questo il caso del “falso” incontro, alla fine del XIX secolo, tra Aby Warburg, geniale storico dell’arte tedesco, e gli Hopi, irriducibile popolo del Southwest degli Stati Uniti. Spinto dal desiderio di conoscere l’ignoto con l’ausilio di ciò che gli era noto, l’intellettuale europeo giudica culturalmente affini questi altri, come se fossero incarnazioni viventi degli antichi Greci. Dal canto loro, gli Hopi soppesano il “viso pallido” sulla base di una profezia originaria nella quale si annuncia il ritorno di Pahana, il loro Fratello bianco perdutosi in viaggio verso Oriente dopo la comparsa degli uomini sulla superficie terracquea. In questo doppio malinteso, nessuno riesce davvero a conoscere l’altro perché la reciproca immaginazione positiva – i Greci idealizzati dall’uno, il fratello sacro atteso dagli altri – eleva un ostacolo all’incontro effettivo e al sapere sostanziale (9).

In ogni caso il malinteso consente alle diverse soggettività di percepire i propri confini identitari e la differenza intraducibile tra le culture, segnalando la necessità di una costruzione dialogica e interattiva della relazione interculturale (10).


Babele

Per incontrare gli altri, gli Europei non devono più spingersi a esplorare territori al di là dei confini del mondo conosciuto (11). Negli scenari quotidiani dell’Occidente, ormai da decenni, si assiste alla proliferazione di varietà antropologiche e linguistiche che attivano fenomeni di contatto e perturbazione culturale (12).

Il processo di globalizzazione planetaria crea un’osmosi istantanea tra gruppi, territori e lingue, ma la natura di queste ultime continua a rimanere un mistero irrisolto. I ricercatori contemporanei non sono più vicini a rispondere agli interrogativi fondamentali sulle origini della nostra capacità linguistica di quanto lo fosse Charles Darwin.

La maggior parte degli studiosi ritiene che il linguaggio verbale sia un prodotto dell’evoluzione, nel modo in cui lo è qualunque altro tratto biologico degli organismi viventi (la filiera dominante dei neodarwinisti). Una minoranza scientificamente sempre più autorevole e originale intende invece dimostrare che le lingue sono strumenti culturali, artefatti concreti dotati di una peculiare funzione immateriale (comunicazione), ovvero di un valore d’uso e di scambio simbolico senza equivalenti sostitutivi (13). Infine, qualcuno opera in direzione della conciliazione delle due posizioni, integrando nella teoria evoluzionista una dimensione ecologica, intesa come acquisizione conseguente all’interazione dell’uomo con l’ambiente.

Nell’Antico Testamento è scritto che gli uomini parlavano un unico idioma e volevano erigere una torre per raggiungere Dio il quale, perciò, decise di vanificarne l’impresa arrogante e di renderli stranieri gli uni agli altri. L’anatema divino moltiplicò improvvisamente il numero degli idiomi e li fece diventare tra loro incomprensibili (confusione delle lingue). Di conseguenza, il genere umano si disperse nel mondo (14).

La potenza divina non sottrasse soltanto la capacità di parlare una stessa lingua ma quella di tradurre le lingue l’una nell’altra allo scopo di conquistare il senso condiviso che permette di costruire comunità dialoganti. Inibendo la traducibilità reciproca, Dio sottrasse alle popolazioni terrene la possibilità di creare un potere unico, un solo pensiero, un’accumulazione di forza da sconfinare nella dismisura dell’onnipotenza (rendersi simile al Creatore è sempre stato un ingenuo piano segreto e un peccato capitale dell’umanità). Egli preferì la proliferazione dell’incomprensione, del malinteso e del conflitto tra i popoli piuttosto che l’aggregazione all’interno di una sola identità totalizzante, incline a trasmutarsi in ente supremo.

La presenza dell’altro, rappresentante di un mondo linguistico e culturale differente, ci costringe a rievocare ogni volta il mito di Babele con cui avvertiamo la nostalgia o esaltiamo l’illusione dell’esistenza arcana di un’unica lingua. Gli idiomi attivi, invece, continuano a essere numerosi, muovendosi e trasformandosi insieme ai gruppi che ne articolano la sostanza espressiva. Nella realtà contemporanea si diparte una doppia deriva: da un lato, le lingue diminuiscono di numero, mentre dall’altro esse tendono a incrociarsi, variare e influenzarsi, catturate da un vortice di ricombinazione incessante (lessicale, sintattico, prosodico) a causa di pressioni mutative sprigionate dallo scambio sociale generalizzato.


Lingue che curano

Se l’incontro con lo straniero avviene per mezzo della parola, a maggior ragione l’esercizio clinico interculturale richiede una circolazione del flusso linguistico che permetta di trasformare le modalità espressive (il paziente verbalizza nella propria lingua la condizione patita) in contenuti comunicativi (dietro l’espressione della sofferenza esiste una necessità di interpretare le cause, i sintomi e gli esiti della malattia, sia da parte del paziente che del curante). Tale circolazione è resa possibile dall’introduzione di un terzo agente con funzioni di traduzione e interpretazione linguistica oltre che di mediazione culturale (15).

Il soggetto sofferente deve potersi esprimere attraverso la propria lingua perché essa è una sua proprietà ontologica fondamentale e inalienabile, fornitagli dal lavoro di iscrizione e affiliazione culturale al gruppo originario di appartenenza.

Il problema linguistico assume sempre un ruolo centrale, soprattutto nelle pieghe drammatiche della storia (16). Le esperienze dei profughi e dei rifugiati nel corso della Seconda guerra mondiale continuano a essere materia di insegnamento universale sulla funzione linguistica nelle condizioni in cui si sperimentano effetti di estraneità culturale:


«[ci muovevamo] nello spazio limitato di un lessico costantemente ripetuto. […] I nostri interlocutori non fornivano nuova linfa alla lingua, la loro non era che l’immagine speculare della nostra. Giravamo intorno agli stessi argomenti, alle stesse parole, alle stesse frasi fatte e al massimo arricchivamo i nostri discorsi attingendo incuranti e nel modo più orrendo alle formulazioni della lingua del paese ospitante. […] Noi eravamo esclusi dalla realtà tedesca e quindi anche dalla lingua tedesca» (17, p. 99).


Lo sradicamento da un luogo e da una comunità produce un impoverimento progressivo della ricchezza semantica dei vocaboli per semplice amnesia da disuso: non si producono più le esperienze che si potevano invece verificare nell’ambiente originario del locutore.

L’impoverimento diventa approssimazione linguistica (vaghezza), aggravata dalla ripetizione e dalla stereotipia espressiva, non contrastate dall’apporto linguistico degli altri stranieri, costretti anch’essi ad esprimersi nella lingua ostile di arrivo:


«Il fatto che la lingua madre si mostrasse ostile, non implicò che quella straniera, [...] ci divenisse autenticamente amica [...] nell’altra lingua sarei stato sempre un ospite appena tollerato [...] Ogni lingua è parte di una realtà complessiva nei confronti della quale, se si vuole accedere alla sfera linguistica con la coscienza tranquilla e a passo sicuro, è necessario avere un ben fondato diritto di proprietà» (17, p. 101).


In tali condizioni si congelano la ripetizione e la stereotipia del comportamento e della trama storica: la lingua viene utilizzata al suo grado zero, per sottrazione graduale di contenuti e significati. Ciò ne provoca il disseccamento progressivo (impoverimento linguistico) e la dissecazione irreversibile (scisma linguistico: perdita dell’intonazione originaria seguita da quella dei contenuti esprimibili) fino a essere non più usata e infine dimenticata (18).

In particolare, lo sradicamento e il trapianto in un altrove geoculturale comporta una scissione improvvisa e imprevista dell’individuo dal proprio gruppo d’origine, con indebolimento dei legami quotidiani intrattenuti in base alla semplice collocazione nel rango sociale di appartenenza. L’effetto di questo processo potrebbe essere opposto a quello ipotizzabile: isolato dal proprio gruppo, la persona amplifica reattivamente le concezioni ideologiche predominanti nella società di provenienza in modo da esaltare la sua appartenenza identitaria e i valori originari che orientano la sua azione sociale. Lo stato di isolamento può innescare un’apertura soggettiva al mondo esterno, a condizione di rimuovere o rendere inapparente la costituzione ideologica originaria, o generare un conflitto generalizzato sulla base della rivendicazione dell’identità originaria, infine proclamata come differenza radicale e irriducibile.

Più in generale, in una lingua si dicono cose che non si possono né si riescono a dire in un’altra per cui, se si vogliono creare le condizioni operatorie per attingere alle esperienze fondamentali e dirimenti dei pazienti, bisogna sviluppare l’interazione terapeutica nelle lingue primarie o vernacolari (19, 20). L’innovazione di parlare nelle lingue d’origine dei pazienti viene considerata una semplificazione utile e necessaria, finalizzata a sintonizzare la comunicazione interculturale e intersoggettiva sulla lunghezza d’onda dell’autenticità, ingaggiando i locutori in un gioco di identificazioni reciproche (empatia culturale).


Mediazione

Quando il clinico accetta che si parli della malattia nella lingua dell’interlocutore straniero, passa da una condizione di sovranità (conferita dalla sua sapienza professionale) a una di dipendenza (causata dal suo non-sapere linguistico). Per superare questo stato di impotenza relativa bisogna ricorrere a un’astuzia tecnico-relazionale densa di conseguenze: interporre un mediatore linguistico-culturale che parla la lingua del paziente, in modo da aiutare il sistema assistenziale a capire le modalità espressive della patologia incarnata nell’individuo e, soprattutto, i contenuti veicolati da quello specifico idioma (21). Grazie alla funzione dell’interprete, che permette di parlare nella e sulla lingua del paziente, si viene obbligati a discutere anche sulla e nella lingua del clinico, in modo da renderne comprensibili, per comparazione dinamica e istantanea – qui e ora – i princìpi di funzionamento e i sistemi di pensiero resi udibili dalle lingue utilizzate.

Siccome la lingua si concentra sul disordine psicopatologico, l’interprete o il mediatore deve essere necessariamente esperto delle nosologie correnti in almeno due mondi, quello di provenienza e quello di arrivo del paziente. I mediatori etnoclinici non possono ignorare la nosologia che i malati impiegano in base al proprio apprendimento sociale precedente – logica acquisita nella terra di partenza, che conferisce un ordine a un fenomeno morboso enigmaticamente disordinato – per quanto tale sapere sia sempre parziale e incompleto (i pazienti non possiedono la competenza avanzata dei guaritori tradizionali).

È chiaro che l’introduzione di altre figure e altre lingue nell’attività di cura incrementa i livelli di complessità dell’operazione clinica. Tuttavia tale complessità non può portare a rinunciare alla sfida posta dal paziente straniero. Senza la mediazione l’intervento terapeutico potrebbe tramutarsi, infatti, in una forma di maltrattamento perché precluderebbe all’individuo sofferente la possibilità di ricorrere, per guarire, alla forza del suo gruppo di riferimento e ai legami significativi con la propria comunità (14).

La costruzione di un ambiente operatorio monolingue porta a separare l’altro da tutto ciò che ha contribuito a fabbricarlo come essere umano specifico. Questa prepotenza è il preludio di un’altra sopraffazione del clinico nei confronti del paziente: l’imposizione delle teorie e degli oggetti del primo – rischio che persiste persino qualora ci sia il traduttore ma non una teoria della traduzione.

Come abbiamo visto, tutte le lingue portano con sé necessariamente degli impliciti e generano malintesi anche tra affini; una lingua sconosciuta raddoppia vertiginosamente il peso dell’implicito e il rischio dell’equivoco. L’attività di mediazione etnoclinica incomincia proprio nel momento in cui una parola, una frase o un intero discorso risultano ambigui, facendo oscillare le possibili traduzioni lungo uno spettro di senso molto ampio e non immediatamente comprensibile (22).

La traduzione è simile a un cammino che si biforca in una serie infinita di sentieri, i cui punti di diramazione obbligano i soggetti a immaginarsi come compagni in movimento, essi stessi cangianti e vincolati a prendere simultaneamente decisioni tra alternative di significato, a causa della natura del loro rapporto e dello scopo della loro missione. Durante il cammino lungo la traduzione interlinguistica, il mediatore crea punti di convergenza, a partire da punti di divergenza, tra significati esistenti in mondi alternativi, autonomi e compiuti. In tal senso la sua funzione può essere considerata secondo un’ottica polemologica perché serve a evitare i bias universalizzanti che derivano dall’estensione unilaterale ed egemonica della propria dottrina ai membri di altri mondi culturali. Ogni lingua lancia una dichiarazione di “guerra” all’altra, diventando un potente fattore di contestazione degli assunti concettuali veicolati ed espressi dall’antagonista (15). La convocazione di un mediatore, agente principale della traduzione, è anche un antidoto efficace contro la tentazione di raffigurare gli stranieri come nullatenenti (senza nomi propri, storicamente assegnati e vissuti, né relazioni sociali e familiari): essi sono proprietari, innanzitutto, di una lingua (22).

La mediazione è il fulcro del dispositivo etnopsichiatrico che, per essere tale, deve farsi multiprofessionale (psichiatri, psicologi, assistenti sociali, infermieri, antropologi, storici, esperti di specifiche questioni di interesse clinico, figure di riferimento sociale), multilinguistico (non si preclude l’espressione di nessun idioma presente o emergente nello scambio terapeutico) e multiculturale (si accoglie e utilizza ogni inclinazione antropologica, religiosa, ideologica).


Dispositivo di interazione etnoclinica

Il dispositivo etnoclinico è fortemente dinamico perché con la propria struttura portante provoca una moltiplicazione dei soggetti interagenti (a forte eterogeneità costitutiva), una progressione delle trasformazioni progettate (dall’individuo ai gruppi di riferimento), un incremento esponenziale dei discorsi (dal sintoma alla vita reale), un processo di traduzione multiverso (tra tutte le lingue disponibili nelle sedute).

Il dispositivo prefigurato è strutturalmente e funzionalmente coerente: 1) con la struttura multiversa delle società globalizzate/creolizzate, create dalle migrazioni di massa multicentriche (dislocazioni demografiche da e verso ogni dove: il movimento non è solo centripeto verso Occidente ma multidirezionale) e caratterizzate dalla proliferazione inarrestabile delle differenze antropologiche all’interno di nuove ecologie sociali; 2) con l’istanza di riconoscimento identitario avanzata dai gruppi stranieri migranti che si giovano della funzione lenitiva e riparativa esercitata dal proprio patrimonio culturale originario senza il quale vengono deprivati di una solida base esistenziale (trauma e distress da sradicamento culturale); 3) con la trasparenza operativa in uno spazio pubblico, dove le evidenze conoscitive sono raggiunte attraverso processi di mediazione (scientifica e politica) tra gli attori dello scambio sociale finalizzato alla cura (mediazione tra teorie cliniche in conflitto, comprese quelle offerte dal paziente e dal suo gruppo di appartenenza); 4) con la dislocazione attraverso i mondi culturali entro cui emerge la sofferenza particolare che aiuta a inventare una cura specifica (23).

In tale dispositivo si riproduce, in un certo senso, la situazione originaria di Babele, ma senza l’effetto esiziale dell’anatema che genera confusione e impedisce agli individui di comprendersi.


Riferimenti

1) Colombo C. Diario di bordo. Torino: Einaudi; 1992.

2) Eco U. Kant e l’ornitorinco. Milano: Bompiani; 2013.

3) Whorf BL. Language, Thought, and Reality. Cambridge: the M.I.T Press; 1989.

4) Casadei F, Inglese S. Psicopatologia e cultura. Idee per un progetto di costruzione dei dispositivi di cura etnopsichiatrica. In: Cardamone G, Giuffrida A, Vigevani R, eds. Psichiatria, linguaggi e comunicazione nella società multietnica. Firenze: Quaderni di Porto Franco; 2003: 13-26.

5) Eco U. Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione. Milano: Bompiani; 2012.

6) Jankélévitch V. Il non-so-che e il quasi niente. Torino: Einaudi; 2011.

7) Todorov T. La conquista dell’America. Il problema dell’«altro». Torino: Einaudi; 1992.

8) La Cecla F. Il malinteso. Antropologia dell’incontro. Bari: Laterza; 2009.

9) Inglese S, Gualtieri M. Dall’etnopsichiatria all’iconologia: il malinteso culturale nella fondazione di discipline senza nome. Formazione psichiatrica e scienze umane. 2014; 1: 57-68.

10) Inglese S, Gualtieri M. Frontières cliniques du malentendu culturel: une psychopathologie en métamorphose. In: Hintermeyer P, Le Breton D, Profita G, eds. Les malentendus culturels dans le domaine de la santé. Nancy: Presses Universitaires de Nancy – Éditions Universitaires de Lorraine; 2015: 79-96.

11) Inglese S, Cardamone G. Dèjà Vu. Tracce di etnopsichiatria critica. Paderno Dugnano: Colibrì; 2010.

12) Inglese S. La moltiplicazione delle lingue nelle terre del rimorso: metodologia ed esperienze di etnopsichiatria comunitaria in Italia meridionale (Calabria). In: Inglese S, Affettuoso P, Romano N, eds. Genova: Il vaso di Pandora; 2005: 107-125.

13) Everett DL. Cultural Constraints on Grammar and Cognition in Pirahã. Another Look at the Design Features of Human Language. Current Anthropology. 2005; 46:1-69.

14) Inglese S. L’uso dell’oggetto-lingua in etnopsichiatria: traduzione, interpretazione, mediazione etnoclinica (2009). In: Inglese S, Cardamone G, eds. Déjà vu 2. Laboratori di etnopsichiatria critica. Paderno Dugnano: Colibrì; 2017: 213-244.

15) Casadei F, Festi G, Inglese S. Profili di una teoria della mediazione linguistica, culturale e clinica per la salute mentale. In: Attenasio L, Casadei F, Inglese S, Ugolini O, eds. La cura degli altri. Roma: Armando; 2005: 268-317.

16) Inglese S, Cardamone G, Inglese GD, Zorzetto S. Scenari di salute mentale: migrazioni internazionali e generazioni discendenti. Rivista di Psichiatria e Psicoterapia Culturale. 2016; IV: 91-111. www.psiculturale.it

17) Améry J. Intellettuale a Auschwitz. Torino: Bollati Boringhieri; 2011.

18) Deleuze G, Guattari F. Kafka. Per una letteratura minore. Milano: Feltrinelli; 1975.

19) Devereux G. Saggi di etnopsichiatria generale. Roma: Armando; 2010.

20) Nathan T. Principi di etnopsicoanalisi. Torino: Bollati Boringhieri, 1996.

21) Inglese GD. Clinica delle condotte autolesive tra psicopatologia e cultura. Università Chieti-Pescara: Tesi di Laurea Magistrale in Psicologia clinica e della salute; 2011-2012.

22) Casadei F, Inglese S. Babelogue. Lingue e processi di mediazione clinica (2011). In: Inglese S, Cardamone G, eds. Déjà vu 2. Laboratori di etnopsichiatria critica. Paderno Dugnano: Colibrì; 2017: 245-268.

23) Inglese S, Gualtieri M. Metodologia ed epistemologia clinica per la salute mentale transculturale. Tra teorie e prassi. In: Fantozzi P, Fedele V, Garofalo S, eds. Le sfide del multiculturalismo. Soveria Mannelli: Rubbettino; 2015: 57-68.