Volume 17 - 3 Settembre 2018

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La cittadinanza come status legale e i fenomeni migratori: considerazioni antropo-fenomenologiche su identità e presenza

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Riassunto

Il concetto di cittadinanza come status legale è stato variamente declinato nella storia in differenti culture. Le derivate nozioni di senso civico e multietnico ed il cosmopolitismo sono ancorati ai principi fondanti e ai destini degli stati nazionali e a nuove forme di interdipendenza planetaria. In questa cornice, le nuove popolazioni di migranti che si mettono in moto alimentano la vexata quaestio del multiculturalismo e dell’accettazione del migrante e conseguenti svariate modalità di riconoscimento dello status legale di cittadinanza. Parallelamente, in uno sfondo di modernità caratterizzato da rapide comunicazioni e una sorta di mondializzazione deterritorializzata, fluttua l’identità del cittadino moderno globalizzato, cosicché il monolitico concetto di identità di stampo occidentale sembra di volta in volta de-fortificarsi o rigenerarsi in un complesso network di culture. Sia il cittadino stanziale, sia il migrante sperimentano una presenza nuda e in crisi tra il far-si storia e un tutt’altro che scontato riconoscimento culturale.

Parole chiave: cittadinanza, migrazione, identità, presenza, doppia assenza


Summary

The concept of citizenship as a legal status has been variously declined in different cultures, historically. Derived notions of civic and multi-ethnic sense and cosmopolitism are bound to founding principles and destiny of former nation-states and to the new forms of global interdependence. Given this framework, the new waves of migrant populations raise the controversial issue of multiculturalism and the acceptance of immigrants, with the consequent debate on models of citizenship and the way of accepting and defining the legal status for immigrants. At the same time, on a background of modernity characterized by fast communication and a sort of globalisation with no root on the territory, the modern globalised citizen’s identity fluctuates, therefore the monolithic Western-bound concept of identity appears to be de-structured and regenerate in a complex network of cultures. Both settled citizens and migrants experience a nude presence as well as the dilemma between making history of themselves and a far-from-granted cultural acknowledgment..

Keywords: citizenship, migration, identity, presence, double absence


La questione della cittadinanza riguarda sia il migrante della nuova era, sia il cittadino stanziale da più generazioni. In effetti, l’accezione moderna del concetto rinvia in modo sistematico al destino degli Stati nazionali e dei propri confini, alle risorse culturali ed economiche che li contraddistinguono ed agli stili identitari che li qualificano. Ad ogni modo, nella storia di ogni popolo, sono riscontrabili periodi più o meno prolungati in cui la discussione sul riconoscimento o sul disconoscimento di nuovi cittadini si è rivelata intensa e controversa. In particolare, la radicalizzazione di queste posizioni si è verificata allorquando il fisiologico divenire di un modello identitario si è aspramente misurato con il traumatismo di rilevanti contingenze intra o inter-nazionali (1).

Da un’analisi storica dei vari modelli di cittadinanza se ne possono ricavare tre paradigmatici (2; 3; 4, 5): 1) come Status legale, in qual caso la cittadinanza è definita attraverso i diritti civili, politici e sociali. Il cittadino è libero di agire secondo la Legge e al contempo può rivendicare i diritti a propria protezione e garanzia, nonché delegare ad istituzioni di rappresentanza le proprie funzioni, compresa quella legislativa; 2) il caso in cui il cittadino è agente politico e partecipa attivamente e pubblicamente alle istituzioni; 3)quando i cittadini appartengono ad una identificata comunità politica in grado di sviluppare e rappresentare una distinta base identitaria. Il primo modello è quello più in uso in epoca contemporanea ed è caratterizzato da una varietà di modi con cui vengono declinate, in particolare, le questioni inerenti la libertà di agire e la sicurezza dei cittadini. In proposito, nei primi decenni del secolo scorso, Freud (6) ha scritto che “la sicurezza senza libertà equivale ad una forma schiavitù, mentre la libertà senza sicurezza scatenerebbe il caos”, concludendo che “l’individuo è disposto a concedere un po’ della propria libertà in cambio di sicurezza”. Lo strano paradosso è che proprio mentre viene invocata la fortificazione e la sicurezza dei confini nazionali, una varietà di intese tra Stati evocano continuamente entità sopranazionali governative e non governative, che si facciano carico di problematiche derivate di vitale importanza come ad es. il crescente divario tra paesi ricchi e paesi poveri, le esplosioni demografiche di alcuni paesi, gli squilibri sulle politiche ambientali, l’incremento delle rivendicazioni etniche, etc.

Il concetto di cittadinanza, inteso come status legale, si è evoluto in specifiche epoche storiche assumendo di volta in volta precise connotazioni.

Trale prime forme di cittadinanza, vi è quella dell’antica costituzione ateniese, sperimentata con la nascita delle polis (città stato). Inizialmente, erano considerati cittadini ellènici, gli aristocratici che conoscevano bene la lingua, condividevano dèi patri e costumi e partecipavano all’ecclesía (assemblea del popolo) che votava le leggi scritte dalla boulé (organismo di programmazione e ratificazione). In epoca successiva vi fu una graduale estensione della politeia (diritto di cittadinanza), prima con le riforme di Solone, che favorirono una maggiore inclusione in particolare di proprietari terrieri (anche se stranieri) e poi con quelle di Clistene, tra i maggiori propugnatori dell’organizzazione in forma di democrazia diretta. Fu quest’ultimo ad istituire le fratríe (unità costituite da due o più ghéne che mantenevano identità separate) e ad abolire le tribù, tentando di riorganizzare i legami di famiglia, di discendenza, di religione, di razza o di appartenenza tribale in senso civico e multietnico. La partecipazione all’assemblea era considerata un dovere pubblico verso la comunità e quindi una virtù. Per grandi linee, erano accettati, ma senza diritto di cittadinanza i bárbaroi (barbari), cioè coloro che non parlavano greco, le donne, gli schiavi, i meteci (immigrati), i servi e i poveri, che erano quindi esclusi dalla vita politica della città (7).

Nella Roma repubblicana degli albori, la civitas romana (cittadinanza romana) era inizialmente diritto del maschio patrizio, adulto e libero, residente nell’urbe. Il civis romanus domo Roma (cittadino romano di Roma) partecipava alle attività dello Stato col plenum ius, optimum ius (diritto pieno), mentre ai latini appartenenti ad una delle trentacinque tribù territoriali era concesso il civis optimo iure (cittadino di diritto pieno), cioè diritto di voto e di fornire i militari da addestrare nel potente esercito romano. Alcune assemblee erano aperte a tutti i cittadini romani (concilia plebis), mentre altre come il senatus, erano aperte solo ai patrizi. Ai comitia curiata avevano diritto di voto tutti i partecipanti all'assemblea (democrazia diretta), mentre ai comitia tributa il voto era attribuito alle Tribù (democrazia indiretta). Vista la straordinaria espansione di Roma, in epoca imperiale, la scelta di derogare il diritto di cittadinanza in favore di altri popoli fu una necessità e fu esteso dapprima ai latini e agli italici col ius migrandi e in seguito con la constitutio antoniana emanata dall’imperatore Caracalla, fu concesso a tutti i popoli e persone entro i confini dell’impero. Parallelamente è stato promosso il passaggio dall’ordinamento del iuris consensus (accordo sui diritti), orientato a determinare e a distribuire l’accesso ai diritti a seconda della classe sociale, al consensus gentium (consenso dei popoli), considerato il primo tentativo di applicazione su vasta scala del cosmopolitismo. Anche per quanto riguarda Roma, per grandi linee, venivano accettati, ma senza il diritto di cittadinanza, i barbari, i peregrini (immigrati),le donne, gli schiavi, i servi ei poveri (8).

Dopo una prolungata eclissi in epoca medievale, la nozione di cittadinanza ha assunto una nuova rilevanza storica e politica verso la fine del XVIII secolo nella Parigi illuminista e borghese. È qui, che nel 1789 ha avuto inizio la rivoluzione francese, destinata a propagarsi negli anni successivi in tutto il resto d’Europa. Proprio in questo anno, la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” emanata dall’assemblée constituante (assemblea nazionale costituente) ha fornito le basi per la fondazione degli stati nazionali così come concepiti in epoca moderna e cioè come territori definiti in cui i cittadini sono “elementi”costitutivi a cui sono concessi i diritti naturali di libertà, di sicurezza personale e di proprietà. Venne così accantonata la nozione di reame e al contempo quella di suddito, sostituita da quella di citoyen (cittadino). Negli anni successivi, il droit de citoyenneté (diritto di cittadinanza) è stato al centro di un fervente dibattito sul naturale o convenzionale accesso ai diritti e doveri da parte di cittadini più o meno attivi rispetto agli organi istitutivi di rappresentanza come ad es. il directoire (direttorio). Per grandi linee era considerato cittadino il maschio libero, adulto e benestante (“attivo” non solo in senso economico, ma anche capace, leale e virtuoso) di origine francese, incluso il soldato in quanto delegato alla defence (difesa) dei confini nazionali e dei diritti stessi. Le donne, gli stranieri, gli schiavi, i mendicanti e i poveri (seppur di origine francese) non potevano esercitare diritti (9).

Nei secoli a seguire, fu la stessa scintilla della rivoluzione francese a consentire dapprima il suffragio universale, diritto di voto a tutti gli uomini di maggiore età di una determinata nazione ed in seguito alle donne, sancendo il moderno principio di sovranità popolare (10; 11).

Per quanto riguarda i fenomeni migratori, storicamente hanno rivelato una intrinseca plasticità che li rende scarsamente controllabili e difficilmente reversibili. Proprio questa instabilità è all’origine di ferventi dibattiti sulle modalità di riconoscimento o meno di uno status legale di cittadinanza stabile o della residenza provvisoria. In ambito internazionale, se da un lato si disquisisce sugli obblighi rispetto a persone migranti in cerca di prospettive di vita migliori, dall’altro la dialettica è focalizzata sul tipo di ombrello etico e su eventuali eccezioni, rispetto al diritto di proteggere la propria integrità, intesa anche in termini di identità nazionale (12). In questo senso, Bauböck (13) sostiene che c’è un “disallineamento tra cittadinanza e ambito territoriale dell’autorità legittima, con cittadini che vivono al di fuori del paese, il cui governo dovrebbe essere responsabile nei loro confronti, e all'interno di un paese, il cui governo non è responsabile nei loro confronti”. Tenuto conto di questa antinomia, ogni nazione fornisce più o meno esplicitamente una carta di cittadinanza con cui si dovrebbe articolare quella di cui è portatore il migrante, alternando epoca e per epoca politiche inclusive a politiche meno inclusive o persino espulsive. La disciplina corrente attraverso cui viene regolamentato il riconoscimento della cittadinanza per i migranti,varia rispetto alla considerazione che viene data allo ius sanguinis (diritto legato alla discendenza), allo ius loci (diritto attribuito in base al luogo di nascita), oggi più conosciuto come ius soli, ed a svariate modalità di naturalizzazione (per anni di permanenza sul territorio, contratto di lavoro, reddito, scolarizzazione, etc.). Nell’Europa odierna ed in particolare in Italia, le richieste dei profughi seguono tutt’altra regolamentazione. Nella fattispecie, viene concessa: a) la protezione internazionale che comprende lo Status di rifugiato politico (di durata quinquennale, rinnovabile senza ulteriore verifica delle condizioni) e la protezione sussidiaria (di durata triennale, rinnovabile previa verifica della permanenza delle condizioni che hanno consentito il riconoscimento della protezione); b) la Protezione umanitaria (di durata annuale, rinnovabile previa verifica della permanenza delle condizioni che hanno consentito il riconoscimento dei motivi umanitari) (D.L. 25/07/1998, n. 286; D.L. 19/11/2007, n. 251; D.P.R. 12/01/2015, n. 21). Con l’alternarsi di aggiornamenti e soluzioni provvisorie o definitive, una proposta radicale e sicuramente ardita è quella di Banks (14), detta della cittadinanza multietnica, che consiste nel riconoscere non solo i diritti individuali dei cittadini immigrati, ma anche le stesse identità etniche delle minoranze presenti sul territorio nazionale. I promotori del modello multietnico mirano ad una forma cosmopolitismo reale, che comprenderebbero anche i processi di mondializzazione economico-sociali e culturali dell’ultimo decennio del secolo scorso (15) in quanto catalizzatori di nuove forme di interdipendenza planetaria (16) che hanno portato a quella sorta di deterritorializzazione (17) in cui fluttua l’identità del cittadino moderno globalizzato.

A questo riguardo, le definizioni di identità sono innumerevoli. Per grandi linee, l’identità rimanda ad una unicità e può essere considerata come il sentimento dell’Io, se si prendono come riferimento i primi studi psicoanalitici (18) o come la configurazione del Sé, qualora ci si riferisca alle teoria delle relazioni d’oggetto (19). Secondo una prospettiva antropologico-evolutiva si distingue il modello auto-determinativo, per cui l’identità è costitutiva e le interazioni con l’ambiente ne influenzano minimamente sviluppo e cambiamenti, dal modello etero-determinativo degli interattivisti, secondo cui l’identità si sviluppa ed ha senso come conseguenza delle interazioni con l’ambiente. Come sintesi tra i due modelli, ne esiste un terzo, secondo cui nell’individuo esiste un locus of control identitario costitutivo a cui si articolano istanze e dimensioni egoiche di mediazione della relazione con l’altro (20). In questo senso, il dasein heideggeriano (l’esser-ci), permette di divincolarsi dall’ambiguità della mera localizzazione spaziale dell’individuo-essere-relazione tra il qui e lì, rappresentando qualcosa di più complesso, la storificazione dell’essere-con e dell’essere-tra, cioè di come l’essere si dà nella storia (21). Le tracce di questo percorso si possono ritrovare nel discorsivo rapporto bipolare tra essere ed essere consapevole, tra identità e cultura, quest’ultima intesa come: “un sistema complesso di tradizioni, simboli e valori attraverso i quali l’uomo organizza e spiega la propria presenza nel mondo” (22). La cultura è incarnata nell’identità e nei suoi mutamenti e allo stesso tempo l’identità si nutre di processi culturali. Da questa prospettiva, può essere spiegato l’equivoco generato dalla semplificazione dell’individuo come mera localizzazione spaziale tra il qui e lì della teorizzazione del melting-pot, calderone di razze che doveva generarne una ibrida creolizzata, che si è incastrato in una wallisiana oscillazione con una salad-bowl di razze poliedrica e bilanciata.

Nella semantica della psichiatria culturale, moderna evoluzione della psichiatria transculturale, il solco del locus identitario è delocalizzabile: a) il mare magnum di culture di stampo occidentale sono incentrate sull’individualizzazione e su un self unitario e monista auto-centrato secondo geometrie dializzanti che separano la mente dal corpo e l’immanente dal trascendente; b) in molte culture orientali e africane il self è allo-centrato nella famiglia, nel clan o nel gruppo di origine. A questo proposito, Parin (23) ha coniato il termine “Io di gruppo”, riscontrando una esternalizzazione nel gruppo o nella comunità d’appartenenza; c) in culture in cui prevalgono o residuano credenze incentrate su visioni magiche, mistiche o animistiche è possibile riscontrare un’ectopica dissolvenza dell’unità dell’identità nell’extraterritorialità del sacro (fuori da, separato da) con restituzioni di rappresentazioni interne regredite ad esso funzionali (24). Secondo Bibeau (25), con le ondate in rapido divenire della moderna globalizzazione, il migrante è il “cittadino globalizzato esemplare”, la cui identità è composta da più culture e il cui Self “polimorfo e variegato” (26) è fatto di “ruoli, valori, modi di essere, stili di vita liberamente presi a prestito da un mercato globale ricco di ogni genere di beni”.

In una simmetria saldamente incardinata nella vicenda humana specei, le identità del cittadino stanziale, ormai transnazionale, e del migrante si ritrovano a difendere strenuamente i capisaldi delle proprie radici o a saggiare impulsi di rigenerazione attraverso tentativi di mutua comprensione. Alla stregua di questo equilibrio, l’insieme di conoscenze, credenze, arti, morale, diritto, costume e ogni altra capacità e abitudine acquisita come membri della società di origine (27), sono a nudo, misurate attraverso la rivisitazione di sfumate figure di rispecchiamento e alla ricerca della cornice del consenso e della legittimazione culturale. Il complesso delle esperienze correlate è scandito dal perturbante “tempo senz’aria” dell’ unheimliche, il “non familiare” (28) e dall’alternarsi di rinnovati paradigmi culturali, oltre che da un marasmatico turbinio di sentimenti di fascinazione per ciò che è nuovo, sovrapposti a quelli di nostalgia per la separazione dagli affetti e l’abbandono dei luoghi di origine. Tutto ciò, avviene col manifesto rimando di conferme di inadeguatezza di stili di vita, comportamenti e costumanze, in quanto entrambi non socializzati allo stesso senso comune (29). Si verifica, quindi, una sorta di frammentazione biografica, da intendersi come traumatica per l’interruzione dell’autenticità, della continuità e della coerenza dell’Io. De Martino (30), ha scritto, che attraverso i conflitti morali, la migrazione, la malattia, la morte, l’individuo sperimenta un’incertezza, una crisi radicale della datità dell’essere storico che lo rende incapace di agire e di determinare la propria azione sperimentando una crisi di presenza (“farsi agire da”): una forma di depersonalizzazione che consiste nella percezione di un senso di irrealtà in cui è persa la spontaneità del corpo che non riconosce lo spazio e l’esperienza del tempo vissuto si disaggrega .Ciò che ne deriva è un clima di spaesamento dovuto alla perdita dei riferimenti che fungono da indici di senso, con l’individuo sospeso tra il far-si storia e i tentativi di riconciliazione con i generi sommi dell’esistenza, assediati nella torre d’avorio dello stereotipo normativo di un’identità non al passo coi tempi. Talvolta, accade anche, che il mondo dei ricordi perda di consistenza e il corpo dell’altro cessi di essere elemento di relazione. In questo caso, il migrante può sentirsi doppiamente assente nel luogo d’origine e in quelli di approdo, per la cultura istitutiva e per quelle costitutive, intrappolato tra il tentativo di ibridazione e un oltre non raffigurabile, che si è arreso alle resistenze istintive ai mutamenti (31). Oltretutto, nella spirale prodotta da questi feedback negativi, intrisi di fallimenti e di rifiuto di riconoscer-si nel percorso di articolazione e di integrazione culturale, può intraprendere un sentiero pauci-identitario e sentirsi né cittadino né straniero, ἄτοπος (fuori-luogo) e di troppo sia per la cultura di origine, sia per il nuovo mondo.


Bibliografia

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