Volume 16 - 28 Marzo 2018

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Perdita del lavoro, elaborazione del lutto e nuova progettualità.
L’esperienza di “COP 21” a Mantova

Autori



RIASSUNTO

Il testo racconta l'esperienza realizzata dal consorzio di cooperative sociali Sol.co Mantova che si è occupato di accompagnare un gruppo di operai in seguito al licenziamento da una importante e storica azienda petrolchimica mantovana. Una equipe multidisciplinare ha realizzato interventi di supporto psicologico per la elaborazione del lutto per la perdita del posto di lavoro. Contemporaneamente ha lavorato al processo di worker buyout, mettendo gli operai nella condizione di costituire una cooperativa, Cop 21, attivarsi imprenditorislmente e rigenerare nuovi posti di lavoro.

L'articolo narra, più specificatamente, il lavoro di elaborazione del trauma che la disoccupazione aveva comportato per il gruppo, gli individui e le loro famiglie.


ABSTRACT

The text speaks about the experience produced by the Consortium of Social Cooperatives, Sol.Co Mantova, in the two last years. It has been busy in supporting a group of workers after their dismissal from an important and hystorical Petro-Chemistry Company of Mantova.

A team-work, with different abilities, realized psychological supportive interventions to help the grieving process for the loss of work place. In the maintime the group worked on the workers buy-out process, setting the workers in the situation to be able to build a cooperative, Cop 21. That allowed them to activate their business abilities and to create new places ok work.

The text tells particulary the grieving process of trauma that the unemployement had represented for the group, the persons and their families.


Introduzione. Sognare in tempi che cambiano

La salute consiste nel saper amare,
saper avere relazioni di cui gioire e lavorare, provare piacere nel farlo.
Sigmund Freud (1)

Non si entra mai in nuovo gruppo,
si esce sempre da un gruppo precedente.
Josè Bleger (2)

La questione del trauma è centrale in questi ultimi anni nella nostra società, e lo è con una qualità, per certi versi, nuova, almeno per chi è, attrezzato a trattare traumi familiari, in cui questo “familiari” presenta un doppio significato. Familiari perché legati alle vicissitudini delle famiglie, violenze, abusi, trascuratezza, ma familiari per noi, ovvero facenti parte di una serie di esperienze entrate nella pratica quotidiana.

Da qualche anno invece, le nostre vite sono state interrogate da qualcosa di diverso: dalla crisi economica e dalla conseguente esperienza della perdita del lavoro, con tutti i suoi inquietanti effetti esistenziali e sociali.

L’impoverimento e la destabilizzazione delle nostre comunità ci hanno spinto a formulare un’inventiva nuova che non poteva semplicemente posarsi su una risposta di tipo assistenzialistico e burocratizzato ma ci ingaggiava, anche come istituzioni, a sviluppare pensieri gruppali in cui economia e psicologia fossero ricombinate insieme.

Il pensiero si è fatto sempre più “comunitario”, perché solo nella collocazione dei problemi in un contesto di studio più ampio era possibile dare respiro ai vissuti d’ansia e alle aspettative, quasi magiche e salvifiche, che decine di persone riversavano nelle strutture, ad esempio chiedendo lavoro.

Un ulteriore impatto del trauma è arrivato a fronte dell’incalzare delle migrazioni. Nel lavoro di accoglienza dei richiedenti asilo prendiamo coscienza di quanto cultura, cura, e ospitalità siano impregnate della esperienza traumatica: separazioni violente, traumi da migrazione forzata, dolori causati dalla cosiddetta doppia assenza. Per dirla con Saiad (3), smarrimento della sicurezza culturale o, per citare Jaswant Guzder, traumi da guerra o da terrorismo.

Ci siamo dovuti attrezzare per pensare con dispositivi di etnopsichiatria e psicologia transculturale, consapevoli che, come lo stesso Devereux (4) avvertiva nel suo “Dall’ansia al metodo nelle scienze del comportamento”, una questione centrale del lavoro sul trauma da migrazione consiste nell’occuparsi di che cosa accade ai gruppi e agli operatori sbalzati, con una certa violenza, nella necessità di occuparsi di qualcosa di diverso, di nuovo, seppur antico. Qualcosa che rinnova angosce di perdita, di frammentazione eppure consente un rinnovamento della creatività, una rottura degli stereotipi, un rimescolamento delle idee.

Tutto questo, a patto che nel procedere incerto del cammino, possiamo sostenerci con nozioni e supporti che tengano in pista il nostro metodo, riducendo al minimo il rischio che “non conoscendo un oggetto, cominciamo a maltrattarlo”, come sostiene Francoise Sironi (5).

Alcune nozioni hanno consentito di aprire una breccia nel nostro operare. Dalla psicoanalisi operativa abbiamo preso:

- la teoria degli ambiti di Josè Bleger (6) che rende conto della complessità delle nostre esistenze, rappresentandole sui quattro ambiti, simultanei del nostro accadere: individuale, gruppale, istituzionale e comunitario.

- La nozione di socialità sincretica e socialità per interazione (7), che ci apre un pensiero sulle differenti forme di appartenenza sociale, e ci consente di esplorare la componente muta e inconscia che lega affettivamente gli uni agli altri e tutti noi al paesaggio, alle istituzioni. Ci permette di comprendere il vissuto di sicurezza depositato nei legami istituzionali, nel lavoro, appunto, o nei legami con la propria terra d’origine, nelle ritualità, nella lingua.

- Il trattamento del trauma, si è arricchito con lo studio dei processi di trasmissione inter e trans-generazionale. Alcuni autori quali Ferenczi (8), Abraham e Torock (9), Eiguer (10), Pichon Rivière (11, 12), con nozioni come quelle di cripta, trasmissione del vuoto, trasmissione al negativo, ci suggeriscono il valore di dispositivi tempestivi per l’elaborazione dei vissuti traumatici, di vergogna, di fallimento, di separazione che individui e gruppi vanno sperimentando per prevenirne il dilagare degli effetti storici e comunitari.

Infine, dal punto di vista della metodologia dell’intervento, la scelta per noi cade sul gruppo, come luogo di lavoro prioritario sia in termini di equipe, che come setting privilegiato per il trattamento delle situazioni problematiche (13, 14, 15, 16).

Nel nostro approccio, l’istituzione è realmente curante nella misura in cui possiede una teoria istituzionale solida ovvero, per noi, la consapevolezza, per dirla con Jaques, di funzionare come contenitore delle angosce paranoidi e depressive degli individui (17,18).

Solo così, l’istituzione consente di sviluppare pensiero, creatività, identità. Di mantenere un aspetto istituente e rigenerativo dei legami intersoggettivi, di configurare degli interstizi, cui alludeva tra gli altri Loureau (19), in cui il potere e la leadership siano supportivi e non autoreferenziali, sadici, espulsivi.

Allora l’istituzione diviene un contenitore di narrazioni, che, seppur in piccola parte, possano custodire e potenziare un’area di salute dei legami sociali, una competenza di relazione e di apprendimento, in una ininterrotta dialettica tra sé, gli altri ed il compito (20).

Un compito, che, come segnalano Pichon Riviere e Bleger, è sempre di adattamento attivo alla realtà, di riconfigurazione delle proprie gestalt, e che pur di fronte alla mancanza, e al trauma, possa includere una attitudine alla rêverie, come Bachelard (21) segnala nella sua Poetica della Rêverie:

“Il sognatore di rêverie, allora può aprirsi sempre al mondo quando può contemplare l’universo senza contare le ore, il tempo allora sospeso, inghiottito in una duplice profondità che annulla i concetti di ieri e di domani, può sognare e progettare una esistenza nuova”.

Il lavoro di gruppo di cui raccontiamo in questo lavoro ha permesso di ricomporre l’aspra e drammatica percezione di un tempo amaro, impellente, catastrofico, con la calma necessaria per elaborare la speranza di pensieri e funzioni nuove.


Il Progetto

L’inizio del percorso di cui qui trattiamo nasce dall’incrociarsi di due particolari segmenti di esperienza nella città di Mantova. Mantova, tra il 2013 ed il 2014 ha visto la chiusura di alcune industrie storiche per la città, aziende aperte all’inizio del dopoguerra, che davano lavoro a centinaia di persone, e che hanno costituito fino ad allora il tessuto produttivo ed economico del nostro territorio.

Fra le più importanti, la raffinera IES e la cartiera Burgo, significative non solo dal punto di vista economico, ma anche sociale ed identitario al punto che la storia di molte famiglie e lo stesso sky-line della città, noto fino ad allora per il suo profilo medievale, ha “incorporato” nel tempo gli impianti della raffineria e della stessa cartiera progettata dall’architetto Nervi.

Nel 2013 la cartiera Burgo ha chiuso e 180 dipendenti sono entrati in cassa integrazione; nel 2014 è toccato alla raffineria.

Ai lavoratori, ai sindacati ed alle istituzioni locali è stata comunicata, dai vertici della multinazionale Mol, proprietaria dell’insediamento produttivo, la decisione di dismettere la raffinazione del greggio e di trasformare così l’insediamento in un semplice luogo di stoccaggio di carburanti. Prende così avvio una crisi che sostanzialmente espelle circa 300 dipendenti e lascia senza lavoro altri 200 lavoratori dell’indotto.

Da quel momento in poi la storia della città non è più stata la stessa: i luoghi della industrializzazione, e per certi versi della sicurezza per decine di famiglie, per diverse generazioni, sono “collassati”; la progettualità industriale si è de-localizzata lasciando alla sue spalle fallimento e crisi.

Una storia industriale, peraltro, non priva di zone d’ombra, legate ai danni ambientali da inquinamento, a tristi primati che posizionano da anni Mantova ai vertici della classifica per tumori legati anche agli agenti inquinanti emessi dalla zona industriale.

Tutto questo cede il passo ad un vuoto di lavoro, di appartenenza, di identità.

In questo quadro si inseriscono le azioni del consorzio Sol.co Mantova, che attraverso un suo gruppo di lavoro, specializzato in orientamento e formazione mette mano alla ideazione di un progetto di workers buyout. Si tratta di una complessa operazione societaria ed imprenditoriale che consente ai dipendenti di una azienda di acquistarla, mantenendone o modificandone le finalità e lo scopo.

Il fenomeno, discretamente diffuso soprattutto all’estero, ha una caratteristica di forte innovazione perché consente, da un lato, il recupero della attività in dismissione o, come nel nostro caso, la sua trasformazione produttiva; dall’altro il mantenimento del posto di lavoro da parte dei lavoratori.

Per essere efficace, questa operazione richiede una regia ed un gruppo di lavoro con competenze complementari e la disponibilità all’assunzione di un rischio pesante, che inizialmente non può essere direttamente scaricato sugli operai, lavoratori, già alle prese con la elaborazione del lutto per la perdita del posto di lavoro. Richiede, inoltre una reputazione istituzionale forte che consenta l’attivazione di reti fiduciarie complesse in grado di attivare e operazionalizzare idee allo stato nascente.

C’era bisogno di un pensiero progettuale in grado di trasformare, anche solo parzialmente, i connotati di una azienda storica, il rapporto tra le persone ed il lavoro, ri-appassionando soggetti spesso già logorati da anni di ammortizzatori sociali e sfiducia nel futuro. Tutto questo lavoro è stato reso possibile anche grazie ad una serie di finanziamenti regionali e statali.

Con questi strumenti ci siamo occupati di circa una settantina di operai, ideando per alcuni di loro una ricollocazione lavorativa in altre aziende locali e, per altri 46, la proposta di costituire insieme una nuova cooperativa, che ha preso la denominazione di “Cop 21”. Il nome scelto per la cooperativa si riferisce alla conferenza tenutasi a Parigi nel dicembre 2015 sui cambiamenti climatici.

La cooperativa si occuperà della coltivazione di biomassa, della sua trasformazione, tramite pellettatura, in combustibile rinnovabile senza emissione di anidride carbonica, a basso impatto ambientale perché non necessita il disboscamento di foreste.


Il lavoro con i gruppi di ex lavoratori

Lo sguardo con cui abbiamo affrontato il lavoro con i gruppi è stato impregnato dalla consapevolezza del fatto che stavamo tutti affrontando un viaggio, uno spostamento, da processi, metodi, linguaggi noti verso un ambiente e problematiche… perturbanti.

Come sappiamo, il movimento di una istituzione richiede l’analisi del mandato sociale ovvero la continua attenzione al nostro essere implicati in una duplice eventualità, come Basaglia (22) avrebbe sostenuto. Da un lato il rischio di divenire un “apparato di cattura” o, al contrario, essere luoghi in cui possano disvelarsi processi terapeutici, effettivamente supportivi.

Che cosa ci stavano veramente chiedendo gli ex lavoratori, la comunità, le istituzioni, attraverso questa esperienza?

Quali personali vissuti di perdita e di rigenerazione si muovevano nel nostro gruppo di lavoro, così attivato dalle angosce e dalle fantasie che ci venivano depositate?

Come trattare tutto questo materiale?

La cosa chiara fin dal momento della conoscenza del gruppo è stata che quel trauma, quella particolare perdita, sarebbe diventata per un lungo tempo, una faccenda comune. Non avevamo il diritto e non potevamo sostenere che non ci riguardasse. Una ferita in una parte della città, è una ferita per tutti i cittadini. Si fa pensare come un danno che dal comunitario percorre il tessuto sociale fino all’individuale e ci coinvolge sul piano della giustizia sociale.

Questa idea quindi ci riporta ad una rappresentazione degli effetti del trauma sempre gruppale. Il trauma della perdita del lavoro non investe mai solamente l’individuo implicato, ma tutte le sue relazioni poiché tocca le funzioni del soggetto ed il suo ruolo, esercita un effetto di dis-empowerment in cui la perdita della sicurezza e l’alterazione della vita quotidiana conducono ad un impoverimento economico, ma anche al sentimento gruppale di non possedere più le risorse necessarie per affrontare la vita, gli impegni, il futuro.

Corpo, mente e relazioni sono implicate in questa esperienza. Il corpo degli operai che abbiamo conosciuto e ospitato nei nostri gruppi, quello delle loro famiglie, il loro modo di pensare e pensarsi nella vita quotidiana, le loro relazioni: tutto si presentava come fortemente sofferente e segnato.

Allora, per certi versi, la costruzione di spazi terapeutici è, come direbbe Houellebeq (23), una questione di urbanistica: di una urbanistica attenta che non comporta solamente mettere a disposizione una procedura o una serie di protocolli, delle stanze, degli appuntamenti, ma incontri in cui siano presenti dispositivi per trasformare racconti, gesti, paure, in “pensieri”; elementi beta in elementi alfa, come direbbe Bion (24, 25).

In questo caso, l’urbanistica era la cifra centrale della dialettica che si andava sviluppando intorno al progetto: la fabbrica svuotata e dismessa, l’abbandono dei luoghi del lavoro, dei macchinari, delle consuetudini che organizzavano un tempo ed uno spazio garantiti da ruoli e compiti. E viceversa.

Nel nostro schema di riferimento non crediamo che questo processo di trasformazione sia sostenibile da un solo individuo ma da gruppi che, come affermava Leon Grinberg (26), permettano elaborazioni per evitare l’erosione della radice identitaria, trasformazioni di sofferenze che rischierebbero altrimenti di rimanere imbrigliate in parti corporee, frammentate in agiti a loro volta proiettati nel tessuto sociale.

In questo quadro scientifico, rapidamente tratteggiato, abbiamo realizzato, nell’ultimo anno, gli incontri con gli ex operai. Lo abbiamo fatto costituendo un gruppo di lavoro multidisciplinare, che potesse integrare competenze psicologiche, con un approccio psicoanalitico ben preciso, con competenze finanziarie, progettuali, agronomiche e industriali, di diritto societario. Un gruppo che potesse quindi occuparsi del vissuto degli operai, della loro posizione contrattuale e della idea imprenditoriale che avrebbe portato alla costituzione della cooperativa. Il gruppo di lavoro è stato composto da una dozzina di persone.

L’impostazione che abbiamo dato al lavoro di accompagnamento è stata di tipo formativo, con l’adozione della tecnica operativa (27). Il piano “formativo” messo in campo dal progetto ci ha consentito di articolare circa 200 ore in setting gruppali con compiti e funzioni ben distinte, ma integrate:

  • il primo “compito” era offrire agli operai un luogo in cui fosse possibile ripensare e affrontare, dal punto di vista emotivo, l’esperienza della perdita del proprio lavoro, un lavoro che per molti di loro durava da venti o trenta anni.
  • Il secondo era un compito prevalentemente formativo articolato in due step: l’oggetto dell’apprendimento era il funzionamento di una Cooperativa Sociale, con tutte le sue differenze rispetto all’esperienza fino ad allora realizzata dagli operai, che erano prima dipendenti di una azienda la cui stabilità, per anni, non era stata minimamente messa in discussione; lo sviluppo condiviso e co-costruito del business plan della nuova cooperativa sociale.
  • Il terzo compito era orientato al mantenere il gruppo in una condizione di costante conoscenza dei passi, degli avvenimenti, dei processi che permettevano l’avanzare del progetto di costituzione della cooperativa, da un lato, dell’impresa, dall’altro. Criticità, successi e fallimenti: tutto veniva discusso in modo assembleare, in maniera realistica e democratica, con l’attenzione alla tutela delle condizioni psicologiche dei membri del gruppo.

Il lavoro dei gruppi: perdere per ritrovarsi

I partecipanti ai gruppi potevano contare su due momenti particolari: uno spazio più formativo, in cui venivano presentate nozioni e informazioni, ed uno spazio che chiamiamo di Gruppo, in cui i membri avevano il compito di discutere delle tematiche presentate, fare associazioni con i loro pensieri, analizzare ed esporre i loro vissuti, stare insomma all’interno di una dinamica relazionale che li rimettesse in una dimensione di ri-apprendimento.

Per il setting predisposto per accogliere il loro vissuto traumatico abbiamo preparato alcune lezioni che si basavano sulla psicologia della vita quotidiana, sul rapporto tra lavoro ed identità, sul rapporto con le istituzioni e sulle relazioni e dinamiche gruppali (28, 29).

Gli emergenti dei lavori in gruppo sono stati di una potenza che oggi possiamo definire straordinaria.

Rabbia, vissuti paranoidi, spaesamento, diffidenza, lunghi silenzi imbarazzati lasciavano piano piano lo spazio a racconti sulla “cosa” perduta: la regolarità di una esistenza preordinata in cui quasi tutto sembrava prevedibile o comunque controllabile.

La nostalgia di un tempo dell’abitudine, delle stanze del lavoro, seppur, spesso rischioso o noioso, si confondeva alla nostalgia di un sé in grado di garantire efficienza e sostegno alla propria famiglia, alle mogli e ai figli.

In una fase iniziale i sentimenti di rabbia, tradimento, senso di colpa ed inadeguatezza coincidevano con la inconsolabile sensazione di essere improvvisamente e senza appello invecchiati. Troppo anziani per qualsiasi nuova cosa, per essere assunti in altri posti di lavoro, per sostenere la speranza, per essere amati.

In questa fase abbiamo assistito ad una riacutizzazione importante, in diversi dei partecipanti ai gruppi, di alcune malattie croniche (diabete, sofferenze articolari, reumatiche, insonnia, attacchi di panico, sofferenze circolatorie) e alla comparsa o risveglio di alcune forme di dipendenza (gioco d’azzardo, uso di alcol, alterazione dei comportamenti alimentari, fumo). Il vissuto prevalente era un sentimento di consunzione, uno sfinimento ed una stanchezza che avevano tutti i tratti di una depressione latente.

Le paure venivano prevalentemente posizionate sul fronte della delusione inferta alla propria famiglia, alla cerchia dei propri conoscenti. Il fantasma del fallimento risvegliava il gruppo interno degli operai, madri, padri, già morti, riapparivano con giudizi, sconferme, disapprovazione. L’impotenza e la rabbia talvolta venivano descritte come l’impossibilità di imparare cose nuove.

La fabbrica perduta in un primo tempo veniva idealizzata come un paradiso smarrito per sempre, un pensiero quasi totalmente acritico attraversava i gruppi.

La richiesta di pensare, che sostanziava la pratica di gruppo, di usare parole per esprimere le emozioni, inizialmente sembrava insostenibile. In questa fase credo sia stato fondamentale per il gruppo rendersi conto che qualcuno, un altro gruppo, stava pensando a loro. Che la nostra equipe li teneva nella testa.

Ricordiamo affermazioni stupite, sorprese col procedere del tempo, nel rendersi conto che all’indomani delle nostre sedute, noi eravamo ancora lì, ad aspettarli, che non ci eravamo stancati di loro, che non li avevamo... lasciati fuori dalla porta. Era molto evidente, in quei passaggi, quanto la nostra istituzione funzionasse come una sorta di organizzazione-contenitore vicariante, in grado di accogliere il dolore e la regressione, in una sua parte, e di pensare e progettare soluzioni per il futuro, in un’altra sua parte.

Crediamo che nell’incedere dei mesi e delle varie fasi del progetto risultasse centrale il fatto che le diverse parti dell’equipe, psicologica, imprenditoriale ed organizzativa, si mostrassero spesso insieme, unite, nelle riunioni assembleari.

Era l’evidenza di un contenitore integrato, di un reale tentativo di mettere insieme aspetti della realtà che fino a quel momento, nell’effetto del trauma si mostravano scissi, slegati: la sofferenza emotiva, gli elementi di realtà, la possibilità di pensare e di pensarsi, gli attori dell’accadimento della loro disoccupazione.

Nella fase centrale delle attività gruppali gli emergenti toccarono il culmine dell’impotenza e della disperazione. Fu la fase del racconto dei sogni, per lo più connotati da luoghi noti irriconoscibili, dal vedere se stessi aggirarsi per la fabbrica vuota, dall’essere tornati bambini e passeggiare mano nella mano con i propri genitori in un luna park e poi, improvvisamente trovarsi soli e perduti.

Vi furono, durante i gruppi, momenti importanti di somatizzazione. Dolore alla testa, capogiri, freddo, caldo, tentativi di cambiare posizione nel gruppo, manifestazioni di difficoltà a capire, ad apprendere, aggressività, attacchi all’organizzazione.

In molti casi il gruppo si dibatteva tra il desiderio di mettersi in gioco, di fidarsi di noi e la resistenza al cambiamento, spesso manifestata in una forte sfiducia verso il futuro.

Finalmente un giorno cominciarono ad apparire discorsi più realistici, de-idealizzati sulla esperienza in fabbrica: l’eccesso di gerarchia, la burocratizzazione, una certa forma di nonnismo, un non-senso di alcune attività, il passare degli anni senza riuscire a ricordare nulla in particolare, se non la noia e la ripetizione di sé, sempre uguali. Venivano ricordate una comunicazione tra colleghi all’insegna del potere passivizzante; la scissione tra il tempo del lavoro ed il tempo di vita.

La gruppalità in quel momento cominciava a dare i suoi frutti: il gruppo cominciava ad esistere al di là di una lunga e condivisa pratica di lavoro dipendente, diventava luogo di pensiero, di dibattito, di confronto paritetico sui propri sentimenti, sulle paure ma anche sul desiderio di tornare nella vita.

Nel frattempo le lezioni sull’organizzazione del lavoro in cooperativa instillavano dubbi ed interrogativi, cambiamenti di prospettiva: che cosa significava investire in un lavoro responsabilizzante anche dal punto di vista societario, economico; mettersi a produrre cose nuove; iniziare a ristabilire relazioni democratiche che passassero da una corresponsabilità?

Fu evidente che la cosa perduta era anche per certi versi una esperienza del lavoro “dipendente”, che frustrava l’ideazione e predisponeva a processi di sottomissione.

Ma quanto sarebbe costato svegliarsi da questo... torpore?

In questa fase, alcuni membri del gruppo lasciarono il progetto, incapaci di sostenere psicologicamente ed economicamente una quota di rischio e corresponsabilità. Fu un momento delicato, in cui fu necessario aumentare le riunioni assembleari, contenere le angosce di perdita dei compagni, introdurre ulteriori informazioni sull’andamento imprenditoriale del progetto. Qualcuno frequentemente chiedeva colloqui individuali, altri manifestavano timide speranze ricostituite, altri ancora cominciarono a vedersi e descriversi in un contesto nuovo, con un ruolo nuovo, altri lasciavano.

In questo periodo vedevamo gli aspetti materiali del gruppo rinnovarsi: nuovi abiti, visi sbarbati, qualche sorriso, battute, scherzi, allusioni ad una ripresa sessualità.

L’evoluzione del percorso fu positiva, lo capimmo anche da semplici azioni: il gruppo sviluppò nuove forme di leadership; molti cominciarono a partecipare a differenti attività culturali consortili. Il rifiuto dell’apprendimento si trasformò in curiosità, lettura, appunti che venivano fotocopiati e diffusi.

Qualcuno cominciò a portare la propria moglie ad alcuni particolari incontri, altri misero a disposizione del gruppo il proprio tempo per accelerare la costituzione della cooperativa.


Conclusioni

Oggi, a pochi mesi dalla costituzione della nuova organizzazione di lavoro, la cooperativa “COP 21”, e dall’avvio dei primi lavori, dall’assunzione di almeno una trentina di dipendenti, crediamo di poter affermare che, come sosteneva Ferenczi (30), “talvolta l’uva colpita dalla grandine aumenta il suo gusto”.

Crediamo che l’apprendimento fondamentale sia consistito nel fatto che una perdita assoluta ha potuto essere trasformata in una perdita relativa, prima, e poi in una nuova progettualità.

Negli ultimi tempi i membri del gruppo ci hanno ringraziato per una psicologia così semplice e cosi normale, che non li aveva etichettati come depressi o a-sociali. Dal nostro punto di vista, questo è stato uno dei momenti più emozionanti dell’intera esperienza.

Un ulteriore apprendimento del gruppo crediamo sia stato legato all’idea che il lavoro è anche la trasformazione psichica che facciamo delle cose che viviamo, cioè che con le nostre emozioni ed i nostri pensieri, con i nostri legami e la nostra vita quotidiana possiamo fare qualcosa, ricombinarla, ripensarla, re-inventarla. Possiamo stabilire un rapporto, consapevolmente, meno dipendente con la realtà ed i suoi limiti.

Il gruppo continuerà ad essere seguito nei suoi passi di ri-apprendimento di un nuovo modo di lavorare, sostenuto nella sua dimensione finanziaria ed organizzativa, ma il valore di questo tratto di strada percorso insieme, effettivamente ci ha cambiati tutti.


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