Volume 15 - 10 Novembre 2017

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Struttura e attività del sistema di cura per la salute mentale in Italia

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Per tracciare un quadro esaustivo rispetto alla situazione strutturale e delle attività del sistema di cura per la salute mentale attuale in Italia è quanto mai essenziale definire con precisione almeno due elementi della dinamica che riguarda tutti i servizi alla persona: i bisogni che determinano la domanda di assistenza, e gli investimenti, le risorse che vengono dedicate ai servizi cui è demandata la responsabilità dell’intervento.

Già da alcuni anni si pone il problema della sostenibilità del nostro sistema di cura, dovuto in modo particolare alle politiche di tagli lineari avviate in tutto il settore della sanità, che si ripercuotono in modo drastico sul settore della salute mentale, in cui le risorse in gioco non presentano caratteristiche legate all’elevato contenuto tecnologico ma rimangono essenzialmente legate alle risorse umane. In questa prospettiva, il taglio di risorse umane equivale ad un taglio della capacità di “fare salute mentale”.

In termini di programmazione sanitaria, occorre interrogarci su quello che c’è prima che la domanda di assistenza si esprima, utilizzando strumenti in grado di stimare il bisogno di salute mentale. L’ISTAT produce rilevazioni periodiche (Condizioni di Salute e Ricorso ai Servizi Sanitari - ISTAT) che possono essere di straordinaria utilità per la programmazione in salute mentale; a partire dal dato sull’invalidità per disturbi mentali che colpisce circa 700 mila individui, alla stima delle persone affette da depressione nella popolazione generale che sono circa 2,6 milioni. Se si confrontano i dati delle due ultime rilevazioni ISTAT si rileva come nella popolazione generale vi sia stato un aumento di circa 1 milione di persone, dal 2005 al 2013, con un punteggio sopra-soglia per il rischio di un disturbo psichiatrico comune (15,7% nel 2005, 17,7% nel 2013). È facile comprendere che se questi soggetti si traducessero in modo lineare in un aumento di domanda di assistenza, i nostri servizi avrebbero scarse possibilità di fare fronte a tale richieste. Ma quali sono le caratteristiche strutturali e di attività del sistema di cura per la Salute Mentale nel nostro Paese? Ce lo dice il Rapporto Salute Mentale del Ministero della Salute, che ha analizzato i dati del Sistema Informativo per la Salute Mentale, ed è stato pubblicato nel Dicembre 2016. Il Rapporto, che comprende i dati raccolti in modo uniforme su tutto il territorio nazionale, rappresenta un’eccezione anche rispetto a realtà internazionali di alto profilo. L’importanza di avere un sistema informativo omogeneo risiede nella possibilità di orientare la programmazione su base annuale, rilevando le criticità di alcuni indicatori; ad esempio: tassi di incidenza per patologie specifiche, numero di TSO, bilancio tra posti letto residenziali e ospedalieri, etc.

Questo strumento permette finalmente di avere un quadro chiaro su alcuni punti chiave per il sistema di cura per la salute mentale. Uno degli aspetti di maggiore interesse è rappresentato dal rapporto fra la quota complessiva di finanziamento dedicata alla salute mentale e la spesa complessiva sanitaria: a parte le Province Autonome di Trento e Bolzano, solo la Regione Emilia-Romagna arriva alla soglia del 5%, che la Conferenza dei Presidenti delle Regioni si era data nel 2001; secondo i dati ministeriali molte Regioni risultano ampiamente al di sotto di tale quota attestandosi su valori inferiori al 3%, mentre, il valore medio nazionale per la salute mentale pari al 3.5% della spesa sanitaria, di poco superiore a quello di Paesi come Bulgaria, Portogallo, Azerbaijan. È evidente che il nostro sistema di cura non sembra valorizzato sufficientemente a dispetto dei risultati che produce. È inoltre necessario considerare la variabilità inter-regionale, oltre che di quella osservata tra le diverse Regioni. Ad esempio la Regione Emilia-Romagna, seppure rappresenti un’anomalia positiva, mostra variazioni spesso significative anche al suo interno. Questo dovrebbe essere di stimolo per lavorare con strumenti informativi anche negli stessi contesti regionali per promuovere un riequilibrio della distribuzione di risorse. D’altro canto, quando si parla di risorse, è necessario tener presente che non si tratta esclusivamente di conoscere quantitativamente il fenomeno ma anche di conoscerne gli aspetti qualitativi, e dunque conoscere come queste risorse vengono impiegate, come vengono spesi i finanziamenti ricevuti. Più in generale, occorrerà considerare le risorse strutturali, gli ambienti destinati alla cura, come i CSM e i SPDC, che se trascurati possono determinare il noto fenomeno per il quale chi si trova in un contesto poco curato tende a sua volta ad averne poca cura. Vi è poi il problema delle risorse umane; in questo caso è imprescindibile fare riferimento al dato preoccupante relativo all’invecchiamento degli operatori dei servizi; si stima che nel decennio in corso si verificherà una carenza di oltre 800 unità di specialisti in psichiatria per il bilancio negativo tra il pensionamento dei medici in servizio e il numero di nuovi professionisti formati dalle Scuole di Specializzazione.

Un altro aspetto fondamentale è quello legato alle risorse di “conoscenza”, intesa questa come potente strumento di cambiamento. Come è possibile indurre questo cambiamento se la conoscenza sui temi della salute mentale e sui dati del sistema di cura per la salute mentale non sono compresi all’interno dei principali strumenti di cui il Sistema Sanitario Nazionale si è dotato per verificare il proprio funzionamento? Non vi è riferimento alla salute mentale nella griglia LEA, all’interno del Progetto Nazionale Esiti, nell’Indice Ambrosetti, nell’indice CREA prodotto dai ricercatori di Roma di Torvergata; solo nel Progetto Bersaglio è incluso qualche indicatore specifico, di cui tuttavia sarebbe opportuno discutere l’appropriatezza. Un altro patrimonio dei DSM sono poi le risorse di prossimità, che tuttavia vengono corrose dal meccanismo di accorpamento dei DSM all’interno delle “mega-ASL”, con la creazione di “mega-Dipartimenti”, che perdono una delle loro prerogative essenziali, quella appunto della prossimità, della conoscenza e dell’interazione con le comunità locali e con i loro rappresentanti. Come è possibile realizzare integrazione socio-sanitaria in contesti in cui un DSM abbia un bacino di utenza per una popolazione che può arrivare, come succede anche in Emilia-Romagna, ad oltre un milione di persone? Non da ultimo dobbiamo considerare le “risorse di cittadinanza” e considerare gli sforzi necessari, differenti a seconda delle caratteristiche dei territori, per combattere le disuguaglianze, le discriminazioni, per promuovere la partecipazione alle scelte individuali e alle politiche sanitarie. Queste risorse, fondamentali per la salute mentale, sono tutte immateriali ma esercitano un’influenza determinante sulle prassi. Infine, è necessario considerare le risorse amministrative: siamo sicuri che i sistemi di acquisto e remunerazione più appropriati per i servizi di salute mentale siano quelli creati per un sistema ospedalo-centrico? L’acquisto di beni e servizi dovrà essere calibrato sulla modalità classica dell’appalto generando economie di scala su prodotti standard o occorrono meccanismi amministrativi più adatti alla personalizzazione degli interventi? Risulta difficile conciliare la “standardizzazione” con la “personalizzazione” ma, se i meccanismi amministrativi prevedono la prima modalità, inevitabilmente il risultato sarà la standardizzazione, che è esattamente il contrario di quello che si afferma nei documenti di programmazione e che ci chiedono utenti e familiari.

Tornando ai dati del Rapporto, la parola chiave che emerge nella lettura degli indicatori riportati nel documento è “variabilità”. Questa variabilità si esprime anche in ambiti sensibili come la disponibilità di posti letto nelle diverse realtà regionali rispetto al valore medio nazionale (10 posti letto per 100.000 ab), che rispecchia gli standard nazionali, ma considerato singolarmente nelle diverse realtà presenta variazioni profonde anche fra Regioni confinanti come ad esempio Friuli-Venezia-Giulia e Veneto. Inoltre, appare chiaro come il dato relativo alla maggiore disponibilità numerica di posti letto in SPDC sia in diretta correlazione con una maggiore tendenza al ricovero ospedaliero, rafforzando l’impressione che l’offerta sia in grado di influenzare la domanda: in altri termini, rendere disponibili più posti letto sul territorio induce una modalità assistenziale di tipo ospedaliero. Inoltre, potremmo riflettere sull’ospedalizzazione che si realizza in tutti gli altri reparti del sistema ospedaliero, cioè tutti quei casi di ricovero che ricevono una diagnosi principale psichiatrica. Anche in questo caso, quando osserviamo valori elevati, è lecito parlare di inappropriatezza del ricovero? Questi dati, nelle mani di programmatori capaci, possono indicare la via per cambiamenti necessari.

Un altro tema sensibile è poi quello dei trattamenti sanitari obbligatori. Il valore medio nazionale dei TSO è pari a 17.3 per 100.000 ab; anche in questo caso si osserva una estrema variabilità nel Paese. Il dato relativo ai TSO rischia inoltre di essere sottostimato nei casi in cui il trattamento obbligatorio non venga registrato al momento della dimissione, che avviene di norma in regime volontario. Dunque, paradossalmente, il dato elevato che alcune Regioni presentano potrebbe essere dovuto al fatto che più semplicemente la registrazione dei TSO avviene in modo appropriato. È dunque quanto mai opportuno, prima di formulare giudizi, verificare attentamente l’accuratezza/appropriatezza della rilevazione dei dati.

Il Rapporto Salute Mentale, oltre al sistema informativo per la salute mentale (SISM) e a quello delle schede di dimissione ospedaliera (SDO), trae informazioni anche dal sistema informativo dei servizi di emergenza e urgenza. Sappiamo quindi quanti accessi in Pronto Soccorso sono avvenuti per motivi psichiatrici. Questo dato segnala la frequenza del ricorso all’ospedale rispetto ai CSM, per le situazioni di crisi, ossia, in che misura le politiche sanitarie per la salute mentale di quel determinato territorio siano disegnate per intercettare il disagio della popolazione residente. Le differenze osservate indicano quanto siano diverse le prassi nelle varie Regioni a dispetto di politiche sanitarie simili. Quando si riflette sulla prevalenza trattata (quanti soggetti arrivano ai nostri servizi), si osserva una estrema variabilità fra le Regioni: ad esempio il dato per la Regione Emilia-Romagna risulta quasi doppio rispetto alla Basilicata. Se consideriamo poi come i casi trattati si distribuiscono secondo le categorie diagnostiche, la prevalenza media osservata nel Paese è di 308 casi di schizofrenia per 100.000 ab, 118 casi con diagnosi di disturbo bipolare, 106 casi con diagnosi di disturbo della personalità. Tuttavia, nelle diverse Regioni, secondo i dati del Rapporto, la diagnosi di schizofrenia può variare dal 5% al 38%, dato che è confermato dalla ricerca svolta dall’Università Bocconi. Dunque, o esistono delle macroscopiche variazioni di prevalenza nelle diverse Regioni, ipotesi da escludere, oppure esiste un meccanismo, evidentemente non attivo ma presente, di selezione dell’accesso. Questo ci fa pensare che il “treatment-gap” è in realtà un problema legato all’accessibilità dei servizi. In altri termini, non possiamo immaginare che vi sia un gap di trattamento del 40% circa per la schizofrenia e per il disturbo bipolare che dipende dalla casualità o dalla variabilità di prevalenza. Inoltre, anche tralasciando la componente strutturale e organizzativa dei CSM, la questione fondamentale rimane “chi” gli utenti trovano dietro la porta di accesso al CSM, cioè il personale. Gli utenti troveranno sufficiente personale, ad esempio, nei servizi della Valle d’Aosta e dell’Emilia-Romagna, che costituiscono le uniche realtà regionali dove il parametro di 1 operatore per 1.500 abitanti è rispettato, mentre l’accoglienza risulterà più difficile nei servizi, ad esempio, del Molise, Abruzzo e Liguria. Sarebbe importante segnalare questo dato a livello locale per valutare in modo appropriato la capacità dei servizi di rispondere alla domanda di salute mentale della popolazione. Anche l’analisi delle singole figure professionali restituisce informazioni che sottolineano una profonda variabilità. Ancora più interessante è la valutazione del carico teorico, ossia del numero di utenti prevalenti suddivisi per il numero dei medici presenti; ancora una volta si osservano notevoli differenze, anche tra Regioni vicine, come ad esempio la Toscana e l’Umbria. Ancora più critica è la situazione legata alla disponibilità di psicologi: vengono in questa prospettiva vanificate tutte le indicazioni delle più autorevoli linee guida, che prevedono interventi psicoeducativi e/o psicoterapici. Sarebbe dunque opportuno prima affrontare queste criticità per organizzare gli interventi che prevedano la figura dello psicologo.

Un altro elemento cruciale del nostro sistema è quello relativo alle strutture residenziali; in questo caso la valutazione di merito è molto più complessa. Il Rapporto offre una fotografia parziale della situazione, ci dice cioè il numero complessivo delle strutture ma non fornisce indicazione sul numero di posti letto effettivamente disponibili. Ciononostante è evidente come alcune regioni siano più propense alla gestione residenziale rispetto ad altre. Quello che più ci sollecita tuttavia, è la variabilità nella durata del trattamento residenziale, che può durare oltre 2000 giorni in Regioni come Veneto e Sicilia, mentre in Campania si attesta su una media di 30 giorni. Questa differenza merite di essere valutata anche alla luce dei meccanismi amministrativi regionali che incidono sul dato; ad esempio, Regioni nelle quali la tariffa per la residenzialità viene abbattuta dopo 6 mesi, potranno “indurre” comportamenti opportunistici per cui alla scadenza del periodo previsto si effettua una dimissione seguita da un reingresso.

Infine, un dato di particolare interesse è quello relativo alla distribuzione dei soggetti trattati con farmaci antipsicotici. Sebbene il dato possa essere sovrastimato (poiché è stato raccolto attraverso il conteggio dei farmaci erogati sia in regime di distribuzione diretta che convenzionata), esso mostra una notevole variabilità con differenze fra le regioni che arrivano addirittura al 400% (è di quest’ordine, ad esempio, la differenza tra Abruzzo ed Emilia-Romagna). Più recentemente, abbiamo provato a verificare se esista un rapporto fra prescrizione di antipsicotici e la dotazione di staff dei servizi. Ebbene, abbiamo osservato che esiste una relazione lineare diretta e inversa; minore è lo staff dei servizi, maggiore è la prescrizione di neurolettici. In altre parole, una variabile (prescrizione di farmaci neurolettici) che dovrebbe essere influenzata esclusivamente dalla condizione clinica dei soggetti trattati viene influenzata in modo determinante da fattori di natura organizzativa. La relazione fra prescrizione di antipsicotici e dotazione di personale rimane significativa anche controllando per altre variabili come il numero di utenti trattati per operatore sanitario.

In conclusione, il lavoro di analisi che SIEP ha condotto (siep.it/quaderno-siep) sui dati del Rapporto Salute Mentale del Ministero della Salute è stato guidato da due principi ordinatori: abbiamo preso in considerazione, per ciascun indicatore, le variazioni nelle diverse Regioni e, per ciascuna Regione, il posizionamento dei singoli indicatori, assumendo come riferimento il valore medio nazionale. È stata inoltre prodotta una sintesi dei punti di forza e di debolezza per ciascuna Regione. Il volume SIEP rivela come pure realtà storicamente virtuose presentino alcuni punti da tenere sotto controllo e su cui lavorare. In alcuni casi essi potrebbero essere diretta conseguenza della profonda riorganizzazione che la sanità ha subito a livello territoriale e all’interno della quale l’attenzione alla salute mentale sta perdendo il suo peso specifico. La conoscenza e la disseminazione di questi dati dovrebbero richiamare l’attenzione dei decision-makers e aiutare a superare la mancanza di impegno politico osservata negli ultimi anni. A tal fine, la SIEP ha lanciato l’Appello per la Salute Mentale, sottoscritto da molti dei partecipanti alla Riunione Scientifica e da tutte le associazioni e le società scientifiche: per promuovere la discussione su questi dati, in un contesto partecipato, trasparente, in cui tutti gli stakeholder siano rappresentati. Stiamo attendendo risposta dalle Istituzioni, sappiamo che sono in corso valutazioni, ma siamo convinti che adesso più che mai occorre passare dalle parole ai fatti.