Volume 15 - 10 Novembre 2017

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Salute mentale, stigma e accesso alle cure

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Contributo presentato alla XIV Riunione Scientifica SIEP, “Dalle parole ai fatti – Indicatori e programmi per i Servizi di salute Mentale”, Bologna, 18-19 maggio 2017.


In tutto il mondo, le persone che attraversano l’esperienza di un disturbo mentale fanno fronte non solo a sintomi e disabilità, ma anche allo stigma, una sorta di “seconda malattia” che dura a lungo, spesso anche quando il disturbo mentale è ormai guarito. Imprevedibili, pericolose, affette da malattie inguaribili. Sono questi i luoghi comuni che rendono più difficile per le persone con problemi di salute mentale riprendersi ed essere accettate nei contesti lavorativi, affettivi e sociali (1).

Gli studi condotti sullo stigma nella popolazione generale sono in larga misura concordi nell’indicare la schizofrenia come la forma di sofferenza mentale più stigmatizzante (2). Tali sono le conseguenze negative di questo disturbo in termini di stereotipi, pregiudizi e discriminazioni che la stessa WHO-Europa vi fa riferimento, sottolineando come “tutto ciò che di sbagliato pensiamo sulla malattia mentale lo riferiamo alla schizofrenia...” e aggiungendo che “combattere lo stigma nei confronti delle persone con questa diagnosi avrà effetti positivi sugli atteggiamenti verso la malattia mentale nel suo insieme” (3).

Questo contributo è centrato sullo stigma al quale sono esposte le persone con una diagnosi di schizofrenia in ambito sanitario (4), con particolare riferimento a uno studio recente su questo tema condotto in un campione di Medici di Medicina Generale in Italia (MMG) (5, 6).

I dati sulla salute delle Persone Con Schizofrenia (PCS) sono molto preoccupanti. Rispetto alla popolazione generale, le persone con questo disturbo: hanno un’aspettativa di vita di 25 anni più breve; si ammalano e muoiono di più per patologie fisiche; presentano una più alta prevalenza di malattie cardiovascolari e metaboliche; soffrono nel 50% dei casi di problemi di salute fisica non diagnosticati; muoiono per cancro il 50% di più. A livello di medicina di base, le PCS ricevono meno check-up, misurazioni della PA e verifiche dei livelli di colesterolo degli altri clienti. Queste persone, inoltre, hanno scarso accesso ai programmi di prevenzione dei comportamenti a rischio (fumo, alcool, alimentazione non equilibrata) rivolti alla popolazione generale (studi riportati in 5, 6).

Per quanto riguarda le cure psichiatriche, nonostante sia ben documentata la possibilità per le PCS di avere lunghi periodi di salute mentale, soprattutto quando le cure includono interventi bio-psico-sociali basati anche sul coinvolgimento della famiglia (7, 8), i trattamenti erogati restano per lo più limitati ai farmaci. Nei SSM italiani, ad esempio, una percentuale tra lo 0.5% e il 12% di PCS riceve interventi psicoterapici e tra l’11% e il 16% una forma di riabilitazione. Il sostegno alla famiglia, inoltre, è disponibile al massimo per l’11% dei casi (9, 10). Facendo riferimento ai dati riportati nel primo rapporto del Sistema Informativo Salute Mentale (11), le prestazioni maggiormente erogate alle PCS sono infermieristiche (38.7%), psichiatriche (21.2%), di riabilitazione e risocializzazione (16.4%), e non anche di tipo psicologico/psicoterapico.

Tra i motivi alla base della scadente salute delle PCS è incluso anche lo stigma (4-6). In ambito medico non psichiatrico, i clinici hanno talvolta conoscenze limitate sui disturbi mentali gravi. Inoltre, i clinici e il personale sanitario nel suo complesso – come parte della società – non sono immuni allo stigma. I pochi studi centrati sullo stigma nei confronti delle persone con disturbi mentali gravi nei contesti sanitari riportano che i clinici hanno talvolta atteggiamenti negativi verso questi pazienti; che tendono ad associarne la sofferenza fisica alla presenza del disturbo mentale e che sottostimano la gravità dei sintomi fisici (in 4-6).

Nei reparti ospedalieri non psichiatrici, inoltre, le persone con disturbi mentali gravi sono talvolta trattate in maniera meno gentile e rispettosa delle altre dal personale sanitario, vengono separate dagli altri degenti e spesso trasferite fin troppo rapidamente in psichiatria nel post-operatorio (12). A livello di cure primarie, i Medici di Medicina Generale (MMG) sono più riluttanti ad avere tra gli assistiti PCS che persone con depressione. I MMG inoltre tendono ad interpretare uno stesso dolore fisico più spesso come dovuto al un disturbo mentale se a lamentarsene è una PCS che una persona con depressione (studi riportati in 5).

L’enfasi sul coinvolgimento di fattori biogenetici nella genesi dei disturbi mentali gravi a scapito della rilevanza data ai fattori psicosociali - una tendenza che rappresenta il più comune modello interpretativo delle malattie mentali tra i clinici - inoltre, sembra essere tra i motivi del pessimismo prognostico sulla schizofrenia e della convinzione sulla necessità di psicofarmaci per la vita per controllare sintomi comportamentali associati a una presunta pericolosità (1).

Lo stigma in ambito sanitario, comunque, non sembra limitato ai contesti “extra-psichiatrici”, essendo le discriminazioni indicate dagli stessi utenti come presenti nel 17-31% dei servizi per la cure di patologie fisiche ma anche nel 16-44% dei servizi psichiatrici (13). Per quanto riguarda più specificamente i servizi psichiatrici, i pochi studi disponibili – analizzati complessivamente in sole 3 revisioni sistematiche recenti (13-15) – rimandano a una situazione “intricata” e a risultati “misti”: rispetto alla “gente comune”, gli operatori dei servizi psichiatrici sembrano avere minore percezione di pericolosità e di imprevedibilità ed essere più ottimisti sulla prognosi e l’efficacia delle terapie farmacologiche per la cura della schizofrenia. Tuttavia, gli stessi operatori dei servizi psichiatrici attribuiscono più pericolosità e imprevedibilità e una prognosi più spesso sfavorevole alla schizofrenia che alla depressione. Va anche ricordato che i pochi studi sullo stigma in ambito sanitario sono per lo più descrittivi, e lasciano aperte questioni come le relazioni tra opinioni e cure erogate alle PCS, e l’identificazione di variabili “positive” capaci di mitigare l’impatto dello stigma sulla qualità delle cure.

Nel 2014, il Laboratorio di ricerca in Epidemiologia e Psichiatria Sociale (LEPS) del Dipartimento di Psicologia dell’Università della Campania, ha condotto uno studio sulle opinioni riguardo alla PCS dei MMG della ASL Na1 (5-6). Considerato il ruolo centrale del MMG in Italia come figura-chiave anche di raccordo tra cure primarie e cure specialistiche, lo studio ha inteso verificare l’effetto della competenza diagnostica sulle opinioni del MMG (cioè, la capacità del MMG di riconoscere un potenziale caso di schizofrenia in una descrizione clinica), scorporando la competenza dall’effetto dell’etichetta diagnostica di per sé (che potrebbe influire, per esempio, sulle opinioni del MMG verso un suo assistito che ha ricevuto questa diagnosi da altri).

In particolare, lo studio ha inteso rispondere alle seguenti domande:

  • qual è la posizione dei MMG sulla schizofrenia?
  • i MMG “competenti” hanno atteggiamenti verso le PCS più positivi dei MMG “incompetenti”?
  • la competenza mitiga l’effetto dell’etichetta diagnostica “schizofrenia” sulle opinioni dei MMG?
  • vi sono relazioni significative tra opinioni dei MMG sulle PCS e raccomandazioni sulle cure e sui comportamenti da adottare nei confronti di queste persone nei reparti ospedalieri non psichiatrici?

Per rispondere alle domande sopraindicate, sono stati selezionati con procedura casuale il 50% dei MMG della ASL Na1 (N=860). Il campione è stato poi ulteriormente randomizzato in due gruppi. Al primo gruppo (N=215) è stato chiesto di leggere una descrizione clinica che rimandava alla schizofrenia secondo i criteri dell’ICD-10 (la diagnosi non era indicata), di formulare una diagnosi e poi di rispondere al Questionario sulle Opinioni riguardo ai Disturbi Mentali (nella versione revisionata e rivalidata) facendo riferimento al disturbo diagnosticato. Al secondo gruppo (N=215), invece, è stato chiesto di rispondere allo stesso questionario, senza leggere alcuna descrizione clinica ma facendo riferimento soltanto a “una persona con schizofrenia”.

Allo studio hanno partecipato il 90% (N=387) dei MMG selezionati, i quali nell’81% dei casi avevano avuto tra i loro clienti almeno una PCS . Il 27% dei MMG si è detto convinto della possibilità di guarigione della schizofrenia, tra il 64% e il 57% dell’utilità delle cure psico-farmacologiche e il 38% della necessità di terapie psicofarmacologiche per tutta la vita in questo disturbo. Inoltre, il 39% si è detto certo della pericolosità delle PCS e il 39% della loro imprevedibilità. Per quanto riguarda la relazione tra PCS e medico, il 20% era convinto dell’affidabilità delle PCS nel riferire al medico i disturbi mentali, e il 24% nel riferire i disturbi fisici. Infine, il 16% dei MMG era del tutto convinto che nei reparti ospedalieri non psichiatrici, le PCS andassero separate dagli altri degenti.

Riguardo alla competenza diagnostica, il 66% dei MMG ha riconosciuto nella descrizione clinica un caso di schizofrenia. Dal confronto nelle opinioni tra i tre gruppi (medici “competenti”, medici “incompetenti” e medici che hanno risposto al questionario in reazione alla sola “etichetta di schizofrenia”) è emerso che: a) i medici competenti e quelli che rispondono in reazione all’etichetta diagnostica hanno opinioni sovrapponibili per quanto riguarda la possibilità di guarigione, la distanza sociale, la percezione di pericolosità, l’utilità dei farmaci e la convinzione della necessità di assumerli per la vita, i comportamenti discriminatori da adottare nei confronti delle PCS nei reparti ospedalieri non psichiatrici; b) in tutti i casi soprariportati, ad eccezione dell’utilità riconosciuta agli psicofarmaci nella cura della schizofrenia, i medici “incompetenti” hanno avuto atteggiamenti più positivi verso le persone con questo disturbo rispetto agli altri due gruppi. Lo studio, inoltre, ha evidenziato che: a) la percezione di pericolosità attribuita dal MMG alle PCS svolge un ruolo centrale nel mediare tra le opinioni sulla necessità di farmaci per la vita e le convinzioni del MMG su come le PCS debbano essere trattate in ambito ospedaliero non psichiatrico; b) la convinzione del medico circa l’affidabilità delle PCS nel riferire al medico i sintomi dei propri disturbi fisici o mentali è correlata inversamente con la percezione di pericolosità.

I risultati di questo studio, il primo che ha documentato le opinioni sulle PCS in un contesto sanitario distinguendo l’effetto della competenza da quello dell’etichetta diagnostica, suggeriscono alcune strategie per facilitare la disponibilità di cure più equilibrate per le PCS. Tra le strategie, vanno almeno segnalate: a) l’educazione degli operatori e dei futuri operatori sanitari allo stigma e ai suoi effetti sulle cure (16-17). Gli studi evidenziano come il coinvolgimento degli utenti nei percorsi educativi faciliti la consapevolezza degli operatori sull’effetto dello stigma sulle pratiche e contribuiscano a un miglioramento degli atteggiamenti nei confronti delle PCS (16); b) una maggiore collaborazione tra MMG e psichiatria che mitighi, con la presenza dello psichiatra, la percezione di pericolosità tra i MMG.

Altri studi sono necessari sul tema dello stigma tra gli operatori della salute mentale e in altri contesti della medicina specialistica. Questi studi dovrebbero soprattutto essere centrati sulle relazioni tra stigma e qualità delle cure erogate e sullo sviluppo e la valutazione di efficacia di interventi finalizzati a ridurre atteggiamenti negativi e discriminazioni pratiche verso le PCS. Ci si augura che queste ricerche, alle quali anche il LEPS sta attualmente lavorando, contribuiscano a garantire più salute per le PCS e portino gli operatori a una maggiore comprensione delle difficoltà che questo disturbo può comportare in chi ne è (o ne è stato) affetto e nella sua famiglia.


Bibliografia

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