Volume 15 - 10 Novembre 2017

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Quando diventare lavoratore dipendente può essere rivoluzionario. La cooperazione sociale “basagliana” a nordest

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Riassunto

Un primo bilancio storiografico dell’esperienza della cooperazione sociale di inserimento lavorativo di matrice “basagliana”, studiata nei luoghi geografici (il Nord-Est italiano, ed in particolare il Friuli Venezia Giulia) dove essa ha mosso i primi passi.

Summary

A first historiographic review of the experience of the "basagliana" social co-operation of working integration, studied in geographic locations (the Italian Northeast, and particularly Friuli Venezia Giulia) where it has taken the first steps.


1. Cooperazione sociale e cooperazione sociale di inserimento lavorativo: la particolarità del contesto nordestino.

In primo luogo è opportuno determinare le dimensioni dell’ambiente al quale prestiamo la nostra attenzione. All’interno delle quasi 301.191 istituzioni no profit censite nel 2011 (per la verità con uno spettro di tipologie assai disomogeneo, dalla fondazioni alle imprese fino alle associazioni) sono identificate 11.264 cooperative, che per la quasi totalità sono cooperative sociali. Il numero di occupati stabili è indicato in 680.811 nel complesso, di cui circa 309.875 nelle cooperative sociali.

La diversità delle basi di dati utilizzate dai diversi ricercatori, e la loro stessa discontinuità - si pensi che l’ultima analisi settoriale Istat risale al lontano 2005 - evidenziano comunque risultati complessivamente in crescita: al 31.12.2013 gli occupati complessivi erano valutati su dati INPS a 390.079, mentre tutte le posizioni rilevate nell’anno assommavano a 518.997, comprendendo evidentemente sia il turn-over che contratti a tempo determinato ed altri atipici.

Dati meno recenti - riferiti al 2005 - indicano che circa un terzo delle cooperative sociali è costituito dalle cooperative di inserimento lavorativo, cioè le cosiddette cooperative “B”. Si tratta di una definizione ormai consolidata, che deriva dal fatto che questa realtà è stata incasellata nella lettera b del primo articolo della legge 381, che ha riconosciuto il settore nel 1991. Una cifra stimabile attorno alle 24.509/31.000 persone – sempre a seconda che si calcoli la data del 31.12.2013, oppure il totale delle posizioni INPS aperte nell’anno - sono soci lavoratori svantaggiati. Categoria quest’ultima soggetta a qualche confusione, viste le mobili definizioni dei regolamenti dell’Unione Europea, ma che è definita precisamente, nel nostro caso, dall’articolo 4 della legge 381: utenti dei servizi di salute mentale, delle dipendenze patologiche, dell’handicap, disabili fisici e psichici, carcerati ed ex carcerati nei primi 6 mesi di libertà, minori a rischio. Nel complesso un insieme più ridotto e qualificato, rispetto alla definizione “lavoristica” europea dello svantaggio. I soci lavoratori svantaggiati debbono essere presenti in una quota non inferiore al 30% del totale dei lavoratori: percentuale ridotta in realtà al 25% dagli astrusi metodi di calcolo dell’INPS, probabilmente rivolti a diminuire il carico sull’ente previdenziale della fiscalizzazione degli oneri sociali, decisa dalla legge 381.

Questo universo è stato ampiamente descritto da economisti e sociologi, trovando raramente attenzione da parte degli storici (ad esempio Emilio Quadrelli). Le ricostruzioni del fenomeno sono inoltre fortemente segnate dal ruolo di studiosi “coinvolti” come consulenti dalle associazioni cooperative, oppure dei protagonisti dell’esperienza. Si tratta di una produzione spesso memorialistica, condizionata dalla soggettività degli autori, in cui ha un ruolo centrale la raccolta delle testimonianze orali. Gran parte delle ricostruzioni sono state prodotte in occasione di momenti celebrativi, come gli anniversari delle cooperative, oppure sono il frutto della sempre più frequente elaborazione dei “bilanci sociali” aziendali. I contributi al dibattito svoltosi nel corso dell’esperienza, ne hanno sottolineato i punti alti di riflessione, ma vanno opportunamente contestualizzati e verificati. Un ruolo importante ha la storia orale, sul filo di lana tra storia d’impresa, storia dei servizi pubblici e biografia, con attenzione a due filoni in particolare: le storie di vita degli operatori sociali, e quelle degli utenti.

Soprattutto queste ultime, indicano già un primo elemento di valutazione del percorso: la cooperazione di inserimento lavorativo è occasione importante di riscatto e crescita sociale degli utenti dei servizi socio-sanitari, ma denuncia un carattere fondativo di questo tipo di cooperative. L’essere cioè queste il prodotto soprattutto dei progetti di riforma degli operatori, nel contesto del movimento basagliano sviluppatosi a partire dagli anni ’70. A tutt’oggi, nell’area della salute mentale, esiste in tutta Italia una sola cooperativa composta esclusivamente da utenti: la cooperativa “Pegaso Blu” di Massa, che è una cooperativa non di inserimento lavorativo (B) ma di operatori sociali dell’auto-mutuo aiuto (A: cioè la categorie di cooperative che gestiscono servizi socio-sanitari-educativi).

La localizzazione a Trieste della prima cooperativa sociale di inserimento lavorativo, e poi la diffusione di altre analoghe in tutto il Friuli Venezia Giulia a partire dall’inizio degli anni ’80, ha prodotto un contesto particolare in questa regione, segnata ancor oggi da un equilibrio tra i due subsettori, quasi equivalenti per numero di aziende e non squilibrati quanto a numero degli addetti (sono circa un terzo nelle cooperative di inserimento lavorativo). Realtà paragonabile a livello nazionale solo nei vari “poli” di sviluppo del movimento di de-istituzionalizzazione psichiatrica (come ad esempio a Venezia, Torino, Milano…), che però tendono a connotarsi come “isole”. Inoltre va considerato che la stessa disomogeneità della piccola regione nordestina – prodotto artificiale delle vicende geopologiche del Ventesimo secolo – ha permesso di identificarla come un laboratorio significativo, a causa della replicabilità accertata dell’esperienza della cooperazione “basagliana” in contesti e momenti storici differenziati: Gorizia negli anni ’60, Trieste e Pordenone nei ’70 – nel secondo caso senza un manicomio da chiudere – ed infine Udine negli ultimi anni del secolo.

Nella storia della cooperazione “basagliana” è centrale, fin dall’inizio, il ruolo dei soci lavoratori svantaggiati come soggetti di diritti e pari dignità con ogni altro lavoratore, per cui questa esperienza – pur con tutte le contraddizioni implicite nell’agire de iure condendo – si è sempre differenziata dai modelli di cooperazione sociale prodotti dal volontariato e dall’associazionismo dei familiari degli utenti, dedicando inoltre particolare attenzione al problema delle condizioni retributive e della qualità del lavoro dei soci-lavoratori.

La cooperazione sociale di inserimento lavorativo nasce come più recente filiazione del mutualismo e dell’autogestione, ennesima sperimentazione validante di quella democrazia economica che ha visto la cooperazione al centro dell’esperienza del movimento operaio e democratico italiano. Si tratta quindi di una storia che si colloca al polo opposto di quei fenomeni di degenerazione che hanno visto talune cooperative sociali gestire nuove “istituzioni totali” per migranti oppure diventare mere agenzie di intermediazione di manodopera precaria. In questo campo, il Friuli Venezia Giulia è stato nuovamente luogo di sperimentazione, con l’opposizione di Legacoopsociali, anche attraverso l’azione diretta, al Cpt-Cie di Gradisca d’Isonzo: scelta che ha contribuito ad orientare la stessa associazione nazionale, che oggi è l’unica a non annoverare più al suo interno cooperative che gestiscano megastrutture di concentramento per migranti.

Ovviamente è d’obbligo avvertire che il frutto di queste riflessioni è il prodotto di un miscuglio inestricabile di lavoro di ricerca storica, ma anche di militanza politica classista e di protagonismo professionale nel mondo della cooperazione “basagliana”, di chi ne è l’autore.


2. La Cooperativa Lavoratori Uniti di Trieste (1972).

Questa cooperativa è la più antica sorta in Italia, vera e propria matrice del settore. È anche un segno dei tempi: pur nascendo in un ambiente “rosso” per eccellenza (l’équipe basagliana, gli infermieri proletari iscritti alla Cgil, il movimento del ’68), trova più attenzione nella Confcooperative “bianca” – disponibile ad aprire le porte ad una realtà considerata più caritatevole che produttiva – che in Legacoop, cui aderirà solo più tardi. Va per altro ricordato che l’esperienza basagliana di chiusura del manicomio è supportata esplicitamente da un’amministrazione provinciale di centrosinistra guidata dalla Dc, che aveva chiamato lo psichiatra veneziano dopo il fallimento dell’esperienza di Colorno nella “rossa” provincia parmigiana.

Il nome della cooperativa non potrebbe essere più chiaro: il primo presidente Danilo Sedmak fa esplicito riferimento sia all’identità di “lavoratori”, sia – per l’ “uniti” – al Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels del 1848, allargandone la valenza a quel settore di lavoratori dannati fino a quel momento nella condizione di sottoproletari, a causa dell’internamento in manicomio. Diventare proletari è una conquista. Con la morte di Franco Basaglia, la cooperativa lo accoglierà nella sua denominazione.

Primo elemento qualificante dell’esperienza cooperativa è che essa nasce dalla rivendicazione di una equa retribuzione e delle assicurazioni sociali da parte di lavoratori che in numero elevato - quasi la metà dei ricoverati - erano costretti ad un lavoro coatto e gratuito, praticamente schiavistico – l’ergoterapia – che solo permettea il funzionamento dell’istituzione “totale” nella sua autarchia (e ciò nonostante che la spesa per gli OPP rappresentasse tra l’80 ed il 90% dei bilanci delle amministrazioni provinciali).

Tra il 1972 ed il 1973 si sviluppa il processo costitutivo della cooperativa, di cui sono protagonisti soprattutto infermieri e figure intermedie (i primi due presidente e vicepresidente sono uno psicologo ed un sociologo), mentre il ruolo di Basaglia stesso è incerto. Il suo sostegno alla costituzione della cooperativa non è immediato, mentre la stessa costituzione della cooperativa è ostacolata per un anno dalla magistratura, perché i ricoverati saranno privi dei diritti civili fino alla legge 180 (del 1978), e poi per la contestazione dell’incompatibilità dei ruoli di dipendenti della Provincia ed amministratori di una società appaltatrice.

La costituzione della cooperativa è eversiva sotto due aspetti. Il primo è quello del riconoscimento dell’equa retribuzione per i lavoratori e di condizioni minime di salute e sicurezza del lavoro. Il secondo è quello del diritto al lavoro e ad un reddito adeguato per tutti i ricoverati. Contraddizioni che portano alla proclamazione nel 1973 di uno sciopero generale dei lavoratori-degenti.

Solo con la fine del decennio ed i primi ’80 fiorisce un gruppo di altre cooperative, che supereranno il mondo delle attività di servizio tradizionali (pulizie di immobili ed aree esterne, facchinaggio, ristorazione e lavanderia) per sperimentare attività di “impresa sociale” nei più svariati settori economici, dall’agricoltura all’artigianato, dal commercio ai servizi culturali alla gestione di una radio.

Protagonisti della storia di questo gruppo di cooperative sono gli operatori dei servizi di salute mentale (ancor oggi il presidente di una delle cooperative è un infermiere del Dsm), cui solo lentamente si sostituiscono quadri interni alle cooperative stesse. Alcuni sono anche provenienti dalle file degli utenti dei servizi, altri sono giovani che trovano occupazione nella cooperazione sociale.


3. La Cooperativa Libertà di Venezia (1977).

La cooperativa nasce nel 1977, nella fase iniziale dello smantellamento del manicomio di San Servolo. Anche in questo caso, come a Trieste, la creazione della cooperativa avviene nella fase iniziale del processo di eversione dell’istituzione totale.

L’attività commerciale tende però subito a rivolgersi all’esterno, con committenze innanzitutto da parte del Comune e della Provincia di Venezia, in quanto – a causa delle condizioni fisiche dell’ambiente - non è riproponibile il modello triestino di ri-utilizzo dei servizi prima gestiti tramite l’ergoterapia all’interno del comprensorio ospedaliero. Comprensorio che, per la particolarità della città lagunare, è costituito in realtà da due isole, separate fisicamente dal centro storico oltre che dalla terraferma. Questo spinge la cooperativa a lavorare in una vasta gamma di servizi agli enti pubblici ed ai privati, in tutto l’hinterland veneziano.

Anche in questo caso il primo presidente è un dipendente pubblico, ma si passa però presto ad una gestione da parte di soci lavoratori (per lunghi anni, come in altre cooperative, ad esempio “Arcobaleno” di Gorizia, il presidente è un prete-operaio: che nel caso veneziano sceglie lo stato laicale). La presenza degli operatori pubblici rimane però a lungo fondamentale, per la formazione dei quadri e dei soci della cooperativa, fornendo ad essi l’imprinting dei servizi di salute mentale.

La necessità di coordinare le forze tra le varie cooperative porta alla costituzione, tra il 1994 ed il 1996, di un consorzio provinciale, il Consorzio Sociale Unitario “Gaetano Zorzetto”. Anche in questo caso il nome rivela sia la natura di gruppo di cooperative sociali, sia il carattere unitario tra cooperative aderenti alle due principali associazioni cooperative. Il consorzio è arrivato oggi ad associare venti cooperative, coprendo circa metà del settore nella provincia. A differenza di altri consorzi, il C.S.U. “Zorzetto” associa solo cooperative di inserimento lavorativo (3 sono “miste”, svolgendo a fianco dell’inserimento lavortivo anche servizi socio-sanitari-educativi).

Libertà (una delle principali associate al consorzio) rimane comunque la quasi unica testimone della cooperazione “basagliana” veneziana, mentre nella quasi totalità le altre aderenti sono cooperative nate dalla trasformazione di associazioni di familiari di utenti dei servizi per le dipendenze patologiche.


4. La Coop Service Noncello di Pordenone (1981).

La Coop Service Noncello nasce, insieme alla Cooperativa Il Seme nel 1981, promossa dai servizi di salute mentale della provincia di Pordenone, in una fase in cui i “decreti Aniasi” hanno escluso gli utenti dei servizi di salute mentale dal collocamento obbligatorio dei disabili: effetto collaterale perverso della riforma del 1978.

La coppia di cooperative si specializza sia nelle attività (la prima nei servizi, la seconda nell’agricoltura) sia nella collocazione politica: il Csm decide che esse aderiscano rispettivamente all’associazione più forte nei rispettivi settori, quindi Noncello alla Legacoop ed Il Seme a Confcooperative. Ambedue le cooperative rimangono però strettamente nell’orbita dei servizi di salute mentale, tanto che ancor oggi Il Seme è diretta da infermieri dipendenti dal Csm, garantendo così la funzionalità di un’azienda agricola di rilevanti dimensioni (quasi trenta tra occupati – la maggioranza – e tirocinanti, per la quasi totalità provenienti dall’utenza dei servizi).

Noncello, invece, segue un percorso particolare, sia nella produzione che nella costituzione interna. La mancanza del retroterra di un manicomio (Pordenone fino al 1968 fa parte della provincia di Udine, ed ospita nel suo territorio solo una Succursale psichiatrica, a Sacile) porta la cooperativa – così come Libertà – a lavorare da subito nel territorio, grazie inizialmente ad appalti di pulizie e manutenzioni del verde da parte del Comune e della Provincia. L’amministrazione della cooperativa è invece costituita, almeno nel suo primo decennio di vita, da un mix di rappresentanti delle istituzioni e soci lavoratori, con presidente un libero professionista volontario.

Questa composizione mista e la realtà ambientale se, da un lato, comportano un certa tensione interna tra le diverse componenti, che si ripresenterà ciclicamente in più occasioni, dall’altro ha stimolato una notevole mobilità imprenditoriale, che porterà questa cooperativa a divenire, attorno al 1990, la più grande cooperative sociale di inserimento lavorativo italiana. Conseguentemente, Noncello si trova gradualmente ad operare su più territori provinciali (da Udine al Veneto), raggiungendo la dimensione di quasi 600 soci lavoratori impegnati in vari settori.

Da Noncello nascono direttamente altre realtà cooperative. La scissione di fatto tra i due tipi di cooperative sociali, “A” e “B”, imposta dalla legge del 1991, provoca nel 1992 lo scorporo di una cooperativa di operatori sociali, Itaca, divenuta una delle principali a livello locale e nazionale e, l’anno successivo, la promozione del consorzio Cosm (anche qui il nome è significativo: Consorzio Operativo Salute Mentale), con lo scopo esplicito di contribuire allo smantellamento del manicomio di Udine, il più grande residuo pubblico giunto alla liquidazione con il Progetto Obiettivo "Tutela salute mentale 1998-2000" della ministra Rosy Bindi.

Gli ottanta operatori delle cooperative sociali saranno parte importante delle équipes che saranno capaci di riprodurre su scala “standard” l’operazione basagliana di venti e trent’anni prima, tra Gorizia, Trieste e Pordenone.

Esaurita questa fase, il Cosm assumerà una nuova funzione, aggregando gran parte della cooperazione di inserimento lavorativo regionale, divenendone il portavoce nella nuova fase degli appalti realizzati dalla centrale regionale degli acquisti della sanità pubblica (dapprima Csc, poi Dsc, oggi Egas: i continui cambi di nome meriterebbero una storia a parte), esperienza pilota a livello nazionale nel campo delle “clausole sociali” per l’inserimento lavorativo di persone con svantaggio.


Bibliografia

Le pubblicazioni segnalate sono nella maggior parte dei casi di difficile reperimento. Edite da case editrici locali, spesso in un numero limitato di copie pubblicate in occasioni commemorative, esse sono talvolta raramente disponibili perfino nel sistema bibliotecario. Di alcune, quando disponibile, si forniscono gli indirizzi della riedizione internet.

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