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Piano editoriale Nuova Rassegna di Studi Psichiatrici (NRSP).
Fondamenti per una strategia.

Autori

Il territorio incerto e mutevole indicato, o alluso, dalle parole “salute mentale” sembra esporre chi vi si accosta, con intento di definizione, di comprensione o di cura, ad un destino peculiare ed oscillante fra lo smarrimento e la scoperta, la marginalità e la centralità. Sono, contemporaneamente e parallelamente, sia il soggetto che l’oggetto di tale relazione ad essere sottoposti a processi incessanti di perdita e di ritrovamento.

Un simile andamento è il frutto di una pluralità di fattori che sono di pertinenza sia dello statuto epistemologico dell’oggetto – la salute mentale, appunto – sia dello statuto ontologico del soggetto – il clinico, il ricercatore, l’operatore, ecc. – sia del processo storico, e dunque sociale, culturale e politico, nell’ambito del quale la loro interazione si realizza.

Tuttavia, una simile descrizione non è sufficiente a caratterizzare ed esaurire l’esposizione a cui sono sottoposte le discipline psicologico-psichiatriche e gli attori che di volta in volta le interpretano. E questo per almeno due ordini di fattori.


Il primo è legato al fatto che il loro oggetto di studio e di intervento è immediatamente, ed a sua volta, un soggetto a tutto tondo. Il loro oggetto è un soggetto nei propri specifici modi di manifestarsi nel mondo, di relazionarsi a se stesso, agli altri ed al contesto che lo circonda, di aggregarsi e costituirsi in gruppi. Ancora di più, è un soggetto coi suoi peculiari modi di produzione di sé in quanto soggetto di conoscenza, di esperienza, di azione e di interazione.

Da questo punto di vista, la situazione in cui si vengono a trovare le discipline psicologico-psichiatriche non è completamente sovrapponibile a quanto succede in alcuni rami della medicina, pur essendo anche qui sempre più importante considerare il modo in cui il malato si rapporta alla sua patologia, eventualmente cronica, alla scienza che si incarica di studiarla ed ai medici cui è demandato il compito di curarla. In questi ultimi casi, quel soggetto può considerare la patologia come qualcosa di esterno, se non di estraneo, a sé, ai propri modi di prodursi, di manifestarsi e di relazionarsi con se stesso e con gli altri. Si creano, pertanto, le condizioni per una possibile alleanza fra il soggetto curato ed il soggetto curante, poiché entrambi possono considerare la patologia come oggetto differente, altro appunto; eventualmente come nemico comune. I problemi, possono insorgere laddove la medicina non riesca a legittimarsi come alleato affidabile e valido, per un difetto di efficacia dei propri interventi o per uno specifico posizionamento psicologico, psicopatologico o ideologico (culturale, religioso, ecc.) del soggetto malato rispetto alla propria malattia “scientificamente” definita. In questi casi, la battaglia della medicina è per la propria legittimazione sul piano sociale e individuale ed i terreni dello scontro sono quelli della ricerca e dei processi culturali, da un lato, e della clinica e dei processi pedagogici (preventivi), dall’altro. Detto in altri termini, in medicina, fra il soggetto curante ed il soggetto curato è possibile definire un terzo esterno: la malattia. Questo elemento terzo può essere oggetto di dispute e polemiche, oppure costituire la fonte di conflitti e tensioni relazionali, sociali o finanche culturali. Ciononostante, non perde questa sua autonomia. Anzi, è proprio in virtù di questa sua autonomia che può arrivare ad esigere dal soggetto curato un cambiamento: da un minimo di modificazione comportamentale ad un massimo di trasformazione del proprio essere e stare nel mondo. È in virtù di quell’autonomia che, sul piano dei processi sociali, si può osservare un aggregarsi associativo intorno alle malattie, che sostiene economicamente e ideologicamente la ricerca e la pratica medica, in modo sostanzialmente pacifico e sinergico.


Una simile terzietà della patologia si riscontra solo in modo parziale e incerto, se non con un sovrappiù di artificialità, nel campo della salute mentale. Dal lato dei pazienti, vi sono certamente situazioni in cui la malattia si manifesta come disturbante, come processo o evento che ne interrompe o che ne rende complicato il “buon” funzionamento, o semplicemente quello consueto. Ma queste situazioni sfumano verso altre, che rappresentano la quintessenza dei problemi di salute mentale, in cui non si riconosce alcuna egodistonia del soggetto rispetto al male o alla malattia; in cui egli è considerato – da una prospettiva esterna – patologico in sé ed i suoi tentativi di rendere elemento terzo la malattia, invocando ad esempio l’interferenza malintenzionata di altri, umani o non umani, finiscono per rappresentare altrettante espressioni del processo patologico. Ma in ogni caso, anche laddove non si arrivi a simili estremi, il soggetto curato è - e si sente - chiamato direttamente in causa dal processo di cura nei propri modi di essere, seppure nelle forme minimali di una difettualità o di un disfunzionamento neuronale, di un’alterità che lo abita (cognitivamente o affettivamente), o del suo appartenere e prendere parte a sistemi relazionali, sociali o ideologici patogeni, oltre che irrazionali o francamente patologici.

Se, nel campo medico, il soggetto curato può essere - e sentirsi - messo in discussione solo a posteriori, in virtù dell’autonomia della malattia da lui e dal soggetto curante, nelle discipline psicologico-psichiatriche, il soggetto curato è messo in discussione dall’inizio ed in principio, poiché la psicopatologia non si costituisce come campo autonomo ed a lui esterno. Del resto, essa fatica, quando non patisce un interdetto originario, a costituirsi come campo autonomo anche rispetto al soggetto curante e, latamente, al contesto socioculturale in cui emerge come fenomeno problematico.

Simili condizioni creano le premesse strutturali per un possibile conflitto fra soggetto curato e soggetto curante. Rispetto alla medicina, le discipline psicologico-psichiatriche abitano un territorio non pacificato, dove il conflitto è tanto più intenso quanto più risulta difficile o impossibile stabilire una differenza fra il soggetto curato ed il male o la malattia e quanto più quest’ultimo non la stabilisce. In questo modo l’azione delle discipline psicologico-psichiatriche restituisce la malattia al soggetto curato (ed eventualmente ai gruppi di cui fa parte: la famiglia in primis), la colloca al suo (ed al loro) interno, la salda alla sua (ed alla loro) natura. In questo modo, anche, si pongono le basi per l’esercizio del mandato al controllo sociale del malato. Il soggetto curante diventa il rappresentante di un’istituzione, e dello Stato nel suo complesso che a quell’istituzione si affida, esercitando il potere che da quell’istituzione e da quello stato gli derivano o che quell’istituzione e quello stato gli ingiunge di esercitare.

D’altra parte, il fatto che l’oggetto delle discipline psicologico-psichiatriche sia un soggetto a tutto tondo significa anche che il suo punto di vista, la sua expertise, così come il punto di vista e l’expertise dei suoi gruppi di appartenenza, sulla sua condizione e sui sistemi di cura, costituiscano un elemento irrinunciabile per un’effettiva e democratica conoscenza nel campo della salute mentale.

L’impossibilità di costituire la malattia come elemento terzo ed autonomo, o l’insufficienza con cui è possibile farlo, producono un’interazione strutturalmente conflittuale fra il soggetto curante (ed in ultima istanza lo Stato) e quello curato (ed eventualmente con i suoi gruppi di appartenenza). Tale conflitto può manifestarsi in varie forme che ne rappresentano una degenerazione: le varie forme di silenziamento ed occultamento dei “folli” e dei loro gruppi sia sul piano sociale, come su quello scientifico. Tuttavia, tale conflitto può essere foriero di opportunità per le discipline psicologico-psichiatriche e per la società in generale.

Si registra da tempo la nascita di fenomeni aggregativi, formali (associazioni) o informali, reali o virtuali, intorno a specifiche categorie diagnostiche, specifici sintomi o comportamenti, con richiesta di specifiche tecniche terapeutiche (farmaci, psicoterapie, ecc.) a partire da determinati eventi a valenza eziologica (abusi sessuali, mobbing, ecc.). Questi fenomeni aggregativi sono arrivati a costituire veri e propri gruppi di pressione e movimenti sociali capaci anche di avere influenza e potere di modifica delle definizioni stesse di cosa sia o non sia psicopatologico (cfr. l’omosessualità o il disturbo da stress post-traumatico). Il rapporto fra queste forme aggregative (in particolare, le associazioni di utenti o di familiari) ed i servizi di cura della salute mentale è spesso ambivalente. Da una parte, esse portano avanti forme di auto-aiuto che le stesse discipline psicologico-psichiatriche sostengono. Dall’altra, sono portatrici di interessi particolari (anche in conflitto fra loro, come possono esserlo quelli degli utenti e quelli dei loro familiari) e potenzialmente divergenti rispetto a quelli dei curanti. Tuttavia, sul piano epistemologico, è sempre più avvertita l’esigenza di riconoscere loro voce e diritto di parola rispetto alla produzione di conoscenza sulla psicopatologia ed alla valutazione degli interventi nel campo della salute mentale.


Quanto appena sottolineato mette in evidenza come gli oggetti (categorie diagnostiche, farmaci, tecniche terapeutiche, ecc.) delle discipline psicologico-psichiatriche, una volta fabbricati, inneschino processi culturali ricorsivi che modificano il campo sociale (creando gruppi, nuovi elementi ideologici, ecc.) e che trasformano anche quegli oggetti ed i gruppi professionali di cui sono espressione. Da questo punto di vista, il campo della salute mentale è chiamato a confrontarsi con discipline quali la filosofia, la sociologia e l’antropologia della scienza: non come luogo di una riflessione teorica ed a posteriori, ma come contrappunto che permetta di ripensare e di modificare le prassi operative e di ricerca. Questo tipo di fenomeni socio-culturali consente peraltro di introdurre il secondo fattore che determina l’esposizione delle discipline psicologico-psichiatriche e dei loro rappresentanti (clinici, ricercatori, ecc.).

I fenomeni di cui tali discipline si occupano sono, infatti, sottoposti all’azione dei processi socio-culturali in almeno altri due sensi.

In primo luogo, la salute mentale degli individui e dei gruppi è soggetta all’azione di fattori di tipo sociologico. La salute mentale - e soprattutto il suo contraltare, cioè le varie forme di psicopatologia - possono essere studiate, infatti, con un occhio sociologico. Occorre cioè considerare come le forme organizzative della società, i processi collettivi che le caratterizzano (guerre, migrazioni, riorganizzazioni massive del mercato del lavoro, nuove forme comunicative permesse dagli sviluppi tecnologici, ecc.), oppure eventi più puntuali (catastrofi ambientali, ecc.), influenzino le forme e le prevalenze dei disturbi psicopatologici riscontrabili a livello individuale o di gruppo.

È possibile osservare come prevalenze e incidenze delle varie forme di psicopatologia si correlino a quelle forme organizzative, a quei processi ed a quegli eventi sociali trasformati in variabili indipendenti, individuando sperabilmente fattori di rischio psicopatologico, se non veri e propri fattori eziologici (stato di disoccupazione, appartenenza a specifici gruppi sociali, eventi traumatici, ecc.), o al contrario di protezione della salute mentale (supporto sociale, inserimento lavorativo, ecc.).

In un caso come nell’altro, comunque, le discipline psicologico-psichiatriche, nella loro operatività clinico-ambulatoriale come in quella comunitaria, sono chiamate ad interrogarsi sui fattori contestuali che influenzano – in senso positivo o negativo – la salute mentale di quel soggetto (individuale o collettivo) con cui di volta in volta interloquiscono, sulle modalità attraverso cui questa influenza si esercita e sulle possibili strategie per ridurre i rischi e promuovere le protezioni.

In secondo luogo, la salute mentale degli individui e dei gruppi è sottoposta all’azione della dimensione antropologico-culturale. Una simile interrogazione è tanto più necessaria nella misura in cui il fenomeno sociologico delle migrazioni di massa, interessando ogni dimensione locale immaginabile, si tramuta puntualmente ed invariabilmente in un interrogativo antropologico pervasivo sul soggetto di cui psicologi e psichiatri sono chiamati a prendersi cura.

Si tratta, in realtà, di un doppio interrogativo, i cui due versanti sono strettamente embricati l’uno nell’altro. Primo versante: come la dimensione culturale influenza e determina quei peculiari modi di produzione di sé del soggetto, più sopra richiamati, anche e soprattutto nelle loro forme problematiche? Secondo versante: che cosa succede a quello stesso soggetto nel corso dei processi connessi al contatto fra culture innescati dal processo migratorio?

Questo doppio interrogativo induce le discipline a confrontarsi con l’orizzonte problematico di come le comunità umane abbiano affrontato e affrontino i problemi di salute mentale ed in particolare con i sistemi di cura da loro elaborati, almeno in quanto vettori di peculiari visioni, se non di vere e proprie concettualizzazioni, della persona, del corpo, della malattia e del processo terapeutico. Da questo punto di vista l’incontro fra soggetto curato e soggetto curante non si limita a rappresentare un caso specifico di relazione interpersonale (ad asimmetria di sapere e di potere), ma si configura anche come caso specifico di contatto fra culture (anche in questo caso ad asimmetria conoscitiva ed operativa).


Di fronte ad un simile scenario, qui delineato nella sua complessità e nelle sue complicate interrelazioni e ricorsività, la Rivista NRSP pone al centro di ogni riflessione, quale fattore di coerenza e di posizionamento strategico, il forte legame con l'operatività nei Servizi, elemento già caratterizzante la recente storia della rivista stessa.

Questo legame non solo si vuole mantenere, ma si intende rafforzare e sostenere in maniera ancora più decisa ed esplicita di quanto fatto sinora.

Fino ad oggi il tentativo di privilegiare le pratiche e la clinica dei servizi di salute mentale è rintracciabile nei temi affrontati e, in particolare, nei modi in cui sono stati individuati i vertici osservativi che hanno declinato gli argomenti più vari.

In considerazione di ciò ci poniamo l’obiettivo di rafforzare e dare vita ad una rivista in cui sia possibile l’incontro tra le pratiche critiche e innovative dei Servizi ed i modi con cui queste stesse pratiche sono pensate e condivise nella comunità di tecnici che oramai da qualche tempo segue e sostiene, con la sua presenza di affezionati lettori, la Rivista.


Riportiamo qui di seguito alcuni punti che riteniamo fondamentali per caratterizzare il nuovo corso della rivista:
- una rivista che possa contare su una redazione intesa come vero e proprio “laboratorio di pensiero” in grado di sfidare la povertà del pensiero manageriale e descrittivo;
- una rivista che sia da stimolo alla ricerca locale, in collaborazione con l'Università, e che segua i risultati della ricerca in itinere;
- una rivista che offra spazio non solo alla dimensione della cura ma anche a quella della prevenzione e della promozione della Salute Mentale;
- una rivista dedicata alla ricerca e all’informazione sulla salute mentale di comunità, sulla psichiatria e psicologia di comunità, capace di accogliere in un quadro epistemologico coerente l’eredità tutta italiana della deistituzionalizzazione e tutte le esperienze maggiormente innovative;
- una rivista che dia ampio spazio anche alla Comunità in cui i Servizi e le persone di cui si occupano vivono, al terzo settore e non solo riservata agli operatori sanitari pubblici;
- una rivista che dedichi uno spazio ai giovani ricercatori, consentendo loro di confrontarsi, stare in contatto e “contaminarsi” con il mondo reale e concreto dei Servizi di Salute mentale di Comunità;
- una rivista che si apra al contributo dei colleghi di altre Regioni, in uno stimolante confronto tra realtà diverse che dialogano, si aprono ad un ideale percorso di conoscenza reciproca, con particolare attenzione alle esperienze innovative, e ad un processo di “valutazione tra pari”;
- una rivista che allunghi il proprio sguardo anche oltre confine, aprendosi anche a contributi provenienti da Paesi diversi, in una visione della Salute Mentale transnazionale e transculturale, con un occhio anche a realtà al di fuori dell'Unione Europea.

L’intento è quello di stimolare e mettere a confronto operatori e clinici delle discipline psicologico-psichiatriche in un momento storico difficile e avaro di riflessioni critiche e di innovazione.

La nostra proposta trova il suo senso prevalentemente in tre esigenze.
- La prima è quella della comunicazione e del confronto tra i vari attori della pratica clinica, della ricerca empirica e della riflessione teorica, per far nascere e sviluppare linguaggi e stili condivisibili e far emergere domande nuove.
- La seconda, quella della ricerca valutativa sui servizi psichiatrici, altrettanto irrinunciabile per chi, deciso ad orientarsi sull’andamento e sul senso del proprio operare e ricercare, intenda attuare pratiche di trasformazione dell’esistente.
- La terza, quella di incrementare la conoscenza delle esperienze e delle ricerche che si sviluppano a livello internazionale, che richiede una costante frequentazione della letteratura scientifica, e non solo quella relativa al nostro settore disciplinare.


Parallelamente è necessario costruire una solida base redazionale che consenta di lavorare tenendo conto di queste esigenze e puntando ad ampliare i confini disciplinari: dalle dipendenze alla neuropsicologia, dal ruolo della dimensione transculturale locale alle neuroscienze applicate.

Un esito di questo allargamento potrebbe essere quello della coincidenza fra processi intellettuali conoscitivi e processi etici trasformativi, ovvero avere il coraggio di non perdere la dimensione etica quale elemento costitutivo di ogni processo di conoscenza.


In questa ottica, il presente numero della Nuova Rassegna di Studi Psichiatrici ha per tema “Le innovazioni ed i confini nel contesto delle attività dei Servizi”. Vogliamo in questo senso attivare una riflessione su alcune esperienze che introducono elementi di novità nella prassi operative dei Servizi e che, sostenute da evidenze della letteratura, permettono di formulare nuovi approcci e nuove strategie di cura, considerando la complessità delle variabili che interagiscono nel determinare la condizione di salute mentale.

Tra i contributi di questo numero, abbiamo quindi quello di Barone et al. sull’applicabilità nei servizi dell’open dialogue (“Open dialogue: un intervento innovativo con la famiglia e la rete sociale nel Dipartimento di Salute Mentale di Caltagirone – Palagonia”), approccio che, a partire dalle prime esperienze condotte negli anni ’80 in Finlandia, si sta oggi progressivamente diffondendo in vari contesti, sia perché sostenuto da evidenze di efficacia, sia perché, rendendo la persona e la famiglia protagonisti del percorso di cura, ne costituisce una concreta possibilità di empowerment in un’ottica di recovery. In questo contesto, indubbiamente interessanti sono le riflessioni operative sull’applicabilità dell’open dialogue nei servizi e il target sugli esordi.

D’altro lato, è essenziale accogliere approcci innovativi (come l’open dialogue, che ha però una radice più “antica” capace di valorizzare il senso e la forza dell’esperienza), ma anche uscire da una logica autoreferenziale, aprendosi ad una verifica puntuale e sistematica del nostro operare, che oggi non può prescindere dal coinvolgimento dei diversi stakeholder (utenti, familiari, operatori, ambiti istituzionale e realtà presenti nei territori dove operano i servizi). In questo senso particolarmente interessanti sono le esperienze descritte nei contributi di Bruschetta & Frasca sulla formazione di stakeholder delle Comunità Terapeutiche come “valutatori esperti” (nell’ambito del programma di accreditamento tra pari “Progetto Visiting DTC”) ed il lavoro di Bruschetta sul Gruppo Multifamiliare come dispositivo di lavoro per una “Democratic Peer Accreditation” delle Comunità Terapeutiche.

Altro tema con il quale dobbiamo necessariamente confrontarci e sul quale è oggi fondamentale acquisire maggiori conoscenze e competenze, è il tema della nuova “multietnicità” degli utenti dei servizi, dove emerge con sempre più evidenza, un’inevitabile complessità derivante dalla molteplicità delle lingue, dalla diversità delle culture, dal senso e significato delle esperienze (storie individuali e storie traumatiche), nonché dalle diverse espressioni psicopatologiche del disagio. In questa cornice si situano due interessanti contributi: quello di Zorzetto (“Analisi etnopsichiatrica dei conflitti identitari nel regime di frontiera dell’accoglienza ai richiedenti asilo e rifugiati”), che oltre al tema del necessario confronto tra “mondi”, conduce un’analisi che trae origine dai temi “universali” della cultura classica, e quello di Gualtieri (“Salute mentale delle popolazioni e traumi storici: profughi, rifugiati e reduci negli scenari bellici del XX secolo”) che riflette sull’emergenza attuale dei migranti, nella prospettiva di un percorso storico di migrazioni internazionali originate in relazione alla prima guerra mondiale. In questa analisi può forse essere ricercato un senso nuovo, più comprensibile e meno “straniero”, che ci permetta una maggiore apertura alla necessaria cultura e ricchezza dell’incontro, evitando, con le parole dell’autrice (che cita a sua volta Arendt, vedi testo), il paradosso per cui “in colui che è escluso da una comunità politica (…), l’astratta nudità dell’essere-nient’altro-che-uomo rappresenti un pericolo estremo: un uomo che non è altro che un uomo sembra aver perso le qualità che spingono gli altri a trattarlo come un proprio simile”.

Vogliamo quindi sottolineare i contributi di Testi & Fornaini (“Nuove politiche di salute mentale rigenerative all’interno della comunità: i Patti territoriali”) e di D’Avanzo et al. (“Una nuova sfida per i servizi di salute mentale: lavorare in rete con la comunità per proteggere e promuovere la salute mentale nei giovani”) che fanno riferimento ad esperienze innovative, concrete e necessarie, perché capaci di tradurre in termini operativi il concetto che la salute mentale costituisce di fatto bene comune. Emerge qui con chiarezza l’importanza di un lavoro intersettoriale che coinvolge i diversi attori della comunità (persone risorsa, associazioni, istituzioni, ecc.) anche e soprattutto in una logica di prevenzione, poiché sappiamo ormai con certezza da numerose evidenze scientifiche, che molti fattori che influenzano la salute sono di fatto esterni al campo della salute (prodotto complesso dell’interazione tra individuo e ambiente sociale), per cui indubbia è la possibilità di promuovere salute attraverso azioni collaborative basate sulla comunità.

Tra i percorsi innovativi, viene quindi proposto da Truglia & Turrini un “Programma di Riduzione dello Stress basato sulla Mindfulness e su Tecniche Energetiche”, in stretta collaborazione con i Medici di Medicina Generale e volta a dare risposta a disturbi emotivi comuni (ansia, depressione e situazioni di stress) attraverso interventi di gruppo non farmacologici.

Crediamo inoltre centrale porre l’attenzione su alcune specifiche fenomeniche psicopatologiche “di confine”, dove il sovrapporsi di problematiche diverse (es. uso di sostanze o disturbi neurologici), oltre ad impegnare marcatamente l’operatività dei Servizi, implica un lavoro sinergico e integrato con altre professionalità, e la necessità di attivare nuove strategie di intervento, derivanti dalla messa in gioco delle più recenti conoscenze e competenze, disponibili nei diversi ambiti. In questo senso facciamo riferimento al bel contributo di Di Petta & Tittarelli su “Psicosi e tossicomania: il ruolo della psicopatologia fenomenologica per la comprensione e la cura dei nuovi feriti della mente” che esplora il vissuto del soggetto che abusa, “profondamente e irrimediabilmente ferito nella sua relazione empatica con il mondo”, come sottolineano gli autori, e propone quale possibile intervento il Gruppo Dasein-analitico.

Un ulteriore interessante contributo sulle problematiche correlate all’uso di sostanze, è il lavoro di Corlito G. & Corlito F. che analizza i rapporti tra “alcologia e salute mentale”, sottolineando tra l’altro come, in entrambi gli ambiti, siano essenziali interventi precoci e azioni preventive.

Esplora ancora “i confini”, in quanto sovrapporsi di problematiche diverse, il lavoro di Stocchi et al. (“Nuove prospettive nell’assessment dei disturbi comportamentali in seguito a cerebrolesione acquisita”) che analizza l’emergere di disturbi comportamentali e di modificazioni personologiche conseguenti a trauma cranio-encefalico, dove l’alterazione comportamentale può influire ancora più pesantemente sulle possibilità di recupero e partecipazione sociale, se non correttamente rilevata, interpretata e trattata, in un approccio che necessariamente coinvolge la persona, la famiglia e il suo contesto sociale di riferimento.

Concludono il presente numero la presentazione di Oliva di un articolo di Hermann su Charles Darwin pubblicato nel 1927 (tradotto in italiano da Piva) che pone in correlazione il lavoro scientifico di Darwin con le sue esperienze autobiografiche ed un lavoro di Entani sulla storia della psichiatria a Grosseto (“Quando gli psichiatri e gli storici si incontrano. Riflessioni a margine di una ricerca sulla storia della psichiatria in provincia di Grosseto”).